lunedì 24 febbraio 2014

L’Ucraina del nostro scontento di Il Simplicissimus

Corteo a Sebastopoli contro i "fascisti di Kiev"
Le parole sono tutto nella corrente di informazione che ci attraversa. E tuttavia sono anche un’arma a doppio taglio, un passaggio verso ciò che vogliono nascondere: così il fatto che il presidente ucraino Yanukovich, regolarmente eletto due anni fa da una maggioranza popolare, sia improvvisamente diventato un tiranno, è la prova palmare del colpo di stato organizzato con l’apporto delle formazioni paramilitari di stampo nazifascista. Del resto gli stessi autori del canovaccio mediatico riservato all’opinione pubblica occidentale, si sono resi conto del pericolo insito nell’eccesso e sono ricorsi alla sindrome di Ceausescu, scoprendo il lusso di cui si circondava il presidente fuggito per agitare il vessillo dell’indignazione popolare.
Ma anche con queste pezze a colore tutto appare così posticcio e irreale da essere difficilmente digeribile, come dimostra la manifestazione che si è avuta a Sebastopoli contro i “reduci” di piazza Maidan riportati a casa in pullman. Tuttavia la balcanizzazione dell’Ucraina, film tutto Usa con migliore attore non protagonista l’Europa, non è improvvisata, ma ha le sue radici molti decenni fa, in un personaggio che è uno degli ideologi di Obama così come di Clinton e in generale dei democratici: Zbigniew Brzezinski.
Di nascita polacca come fa sospettare il nome impronunciabile, tra i fondatori della Trilateral, è fin dal tempo di Carter che lo scelse come consigliere per la sicurezza nazionale, l’eminenza grigia dei democratici in fatto di strategie a lungo termine. Forse a causa delle ascendenze natali la sua fissazione è stata la necessità che gli Usa prendessero il controllo della “Hearthland”, ovvero dell’enorme cuore dell’Asia, non controllabile attraverso il dominio del mare, da sempre base della geopolitica statunitense. Negli anni ”70 questo significava contenere l’Unione sovietica soprattutto nell’est Europa come chiave di accesso al continente asiatico e poteva essere banalmente confuso nell’insieme della guerra fredda aggiunto a un riflesso condizionato di ostilità nei confronti dei russi. Ma era molto di più. Zbig, come viene chiamato a Washington fu il tessitore del rafforzamento della presenza americana nel sud del continente asiatico favorendo dapprima la rivoluzione komeinista e in seguito armando la rivolta afgana contro i sovietici, nell’intento di creare una fascia di integralismo islamico da contrapporre all’Urss sul lato sud. Poi con la caduta del comunismo e l’obsolescenza della potenza di Mosca questa dottrina sembrò entrare in sonno per essere sostituita dall’interventismo in medio oriente tipico dei Bush sia padre che figlio più legati alle lobby del petrolio. Ma fu rispolverata fra l’uno e l’altro da Clinton con la sua avventura balcanica volta spezzettare la Jugoslavia e dunque a rendere più difficile l’accesso russo al mediterraneo e più facile invece quello americano alla grande pianura sarmatica: prossima fermata Kiev. Il dominio della Hearthland stava infatti tornando di nuovo in primo piano visto che non era più in gioco la sola Russia, ma le deboli repubbliche ex sovietiche zeppe di petrolio, gas e minerali e la crescente potenza della Cina.
Così quando Obama salì alla casa Bianca si ritrovò sul tavolo la dottrina Brzezinski «Un nuovo cervello per Barak Obama! Ha 78 anni e funziona ancora alla perfezione. Appartiene a Zbigniew Brzezinski, il pepato ex consigliere di sicurezza nazionale di Jimmy Carter», scrisse l’Economist in occasione della prima elezione di Barak. In realtà tutta la numerosa famiglia e parentela di Zbig lavora nell’amministrazione americana ed è portatrice delle idee del patriarca, lodato spessissimo da Barak che lo riconosce come una delle fonti della sua ispirazione. Ma prima Obama ha dovuto tamponare i disastri dei Bush in medio oriente dove, esattamente al contrario di quanto previsto, l’integralismo islamico era entrato in rotta di collisione proprio con gli Usa e poi ha cercato di stuzzicare l’orso russo prima in Georgia e ora entrando di forza nel maelstrom ucraino: controllare il Caucaso significa tenere sotto controllo l’intero continente asiatico dentro un accerchiamento terrestre e marittimo che oggi è evanescente. Ossia significa tenere sotto controllo le tre grandi potenze tra cui una, la Cina, che aspira a sostituire gli Usa come baricentro mondiale e due, la Russia e l’India abbastanza grandi da mettersi per traverso alla volontà di Washington. L’Europa sta lì solo a tener bordone con un pretestuoso piano di inserimento di un Paese alla bancarotta nell’Eu.
In un precedente post avevo supposto che l’azione di forza affidata alle formazioni paramilitari di estrema destra potesse portare a una divisione del Paese tra una parte occidentale di cultura più affine a quella europea e una orientale russofona e culturalmente legata alla Russia,visto che è difficile ipotizzare uno stabile assetto filo Usa in tutto il Paese. Sta di fatto che ieri la Merkel a telefonato all’ex leader Yulia Timoshenko (oltre che a Renzi) mentre l’Fmi e l’Ue si sono detti pronti ad aiutare il Paese per evitare il default, insomma la solita commedia della volatile e puttanesca democrazia a pagamento. Mentre Putin ha di fatto scaricato Yanukovich che del resto era filorusso solo a corrente alternata oltre che brigante a tempo pieno e si è detto d’accordo con gli Usa sulla necessità di non dividere il Paese.
La rapida ritirata russa è comprensibile: l’Ucraina rimane linguisticamente, culturalmente, politicamente divisa in due e per giunta con la parte produttiva situata in territorio russofono: resta dunque instabile e inaffidabile. Ma oggi l’onere di mantenerla passa direttamente all’ Ue e agli Usa che vi vogliono installare i loro sistemi missilistici: ben presto Bruxelles si accorgerà di essere stata attirata in una palude dai war games americani. Tanto più che si ritroverà a fare i conti con la potenza cinese che sta sfruttando la vicenda per installarsi in Crimea. Non basta avere una dottrina, bisogna avere anche una strategia che la supporti e che non sia così erratica come è avvenuto per la Siria. Figurarsi poi quando si va traino di altri e ci si lascia trascinare dentro un conflitto potenziale con chi detiene il retroterra di materie prime ed energia. Non c’è mai fine al peggio in questa Europa.

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