di Angelo Salento* – economiaepolitica.it
L’analisi dei processi di
finanziarizzazione delle imprese, in Italia, è rimasta quasi del tutto
assente dalla letteratura socio-economica. A limitare l’attenzione per
questi fenomeni ha contribuito probabilmente la convinzione che la
concentrazione degli assetti proprietari e la ridotta presenza di
investitori istituzionali “breveperiodisti” abbiano mantenuto le imprese
italiane al riparo dalla logica dell’accumulazione finanziaria, o
almeno da quella sua declinazione più recente ed esasperata nota come
orientamento alla “massimizzazione del valore per l’azionista” (shareholder value maximization).
L’obiettivo di questo
contributo è quello di mostrare che, a dispetto di quanto si potrebbe
supporre sulla base della sola analisi degli assetti proprietari, le
grandi imprese italiane sono pienamente partecipi del processo di
finanziarizzazione e sono interessate anche dalla diffusione di quella
concezione del controllo d’impresa solitamente indicata come shareholder value maximization.
Già nell’immediato
dopoguerra la complessità dei documenti contabili delle imprese
costringeva a constatare che «per leggere in fondo a ogni bilancio
occorre una consumata esperienza e una conoscenza esatta dell’azienda
cui si riferisce» (Radar 1948, p. 8). Oggi, sebbene sia in linea di
principio la modalità più corretta per misurare la finanziarizzazione
delle imprese, l’analisi dettagliata di un numero significativo di
bilanci è operazione sostanzialmente impraticabile.
Una sintetica rassegna di
alcuni indicatori, tratti da precedenti ricerche e da basi di dati
aggregati Mediobanca, permette di osservare che:
a) le coalizioni
proprietarie delle grandi imprese italiane praticano l’accumulazione
finanziaria, sistematicamente e in misura crescente, sin dall’inizio
degli anni Settanta del secolo scorso;
b) dalla seconda metà degli anni Novanta, il fenomeno diventa ancora più acuto e anche in Italia si diffonde il canone della shareholder value maximization.
Le due “ondate” di
finanziarizzazione sono accomunate da una forte tendenza alla riduzione
dei volumi occupazionali e dei costi del lavoro. Rispetto alla prima
fase, tuttavia, la seconda non soltanto è quantitativamente più
rilevante, ma appare anche “qualitativamente” diversa, essendo sostenuta
dal processo di privatizzazione di grandi imprese pubbliche, da un
compiuto riaggiustamento del sistema bancario e finanziario, da una
crescente deregolamentazione del mercato del lavoro, da una più decisa
apertura della cultura aziendalista e manageriale rispetto ai canoni di
gestione e contabilità di matrice anglosassone.
I dati aggregati
dell’Ufficio Studi di Mediobanca permettono di osservare chiaramente
l’andamento dell’accumulazione finanziaria: fra il 1974 e il 1985, i
proventi finanziari (dividendi, cedole e interessi attivi) complessivi
delle 980 società censite nella serie storica 1968-2002, passano, a
prezzi costanti con anno base il 2000, da 2,6 a circa 8 miliardi di euro
(Mediobanca, Statistiche storiche). Se alla metà degli anni Ottanta
quest’aggiustamento delle strategie di accumulazione era salutato come
un’opportuna «ristrutturazione finanziaria» delle imprese italiane, esso
si rivela presto una tendenza di lungo termine: un processo di
finanziarizzazione, appunto, che vede spostarsi il baricentro delle
strategie di accumulazione.
La corsa all’accumulazione
finanziaria veniva sostenuta anche attraverso i cicli di
ristrutturazioni susseguitisi dagli anni Settanta in poi. Nello stesso
campione di 980 società, il rapporto fra costo del lavoro e fatturato
lordo scende, fra il 1971 e il 1985, dal 26,5 al 15,1% (fonte:
Mediobanca, Statistiche storiche, nostra elaborazione). La deriva
finanziaria di coalizioni proprietarie estremamente ristrette e
accentrate come quelle italiane, dunque, già preludeva a quella che
Gallino (2003) avrebbe poi chiamato «la scomparsa dell’Italia
industriale».
Dopo un breve rallentamento a
fine anni Ottanta, l’accumulazione finanziaria riprende a pieno ritmo
negli anni Novanta, con una particolare accelerazione nella seconda metà
del decennio. Nello stesso campione di società poc’anzi citato, fra il
1990 e il 2002 i proventi finanziari passano da circa 5,5 miliardi a
oltre 11 miliardi di euro (fonte: Mediobanca, Statistiche storiche).
Parallelamente, continuano a declinare le risorse destinate al fattore
lavoro: nello stesso periodo (e nello stesso campione), il rapporto fra
costo del lavoro e fatturato lordo si riduce ulteriormente, fino
all’11%.
Dati più recenti, riferiti
all’intero “campione Mediobanca” (2.032 imprese), permettono ulteriori
riscontri sull’andamento della finanziarizzazione nell’ultimo ventennio:
il rapporto fra investimenti finanziari e investimenti tecnici, pari a
circa il 30% nel 1992, raggiunge il 60 % a fine anni Novanta per
schizzare al 180% nel 2000, declinando poi ancora a circa il 60% fino al
2006, impennarsi nel 2007 al 138% (in coincidenza con una stagione di
massicce acquisizioni) e declinare durante la crisi, ma risalendo nel
2011 a circa il 70%[1]. I picchi di investimenti
finanziari coincidono con i periodi di forte tendenza speculativa nei
mercati finanziari; ma nel complesso l’andamento calcolato sulle medie
quinquennali manifesta una crescita relativa degli investimenti
finanziari nel ventennio considerato.
A partire dalla metà degli
anni Novanta, altrettanto evidente è il coinvolgimento delle grandi
imprese italiane nella diffusione di una concezione del controllo, di
marca anglosassone, orientata alla massimizzazione del valore per
l’azionista. Sebbene un’indagine empirica di ampio spettro in Italia sia
ancora di là da venire, disponiamo di alcuni chiari indicatori della
crescente attenzione delle imprese non finanziarie italiane verso la
valutazione del mercato dei titoli.
Innanzitutto, le
trasformazioni osservabili nella politica dei dividendi indicano
un’attenzione crescente per l’interesse degli azionisti. Fra il 1993 e
il 2001, nel campione di 980 società della serie storica Mediobanca, i
dividendi deliberati passano dal 10,4% al 37,1% del margine operativo
lordo, in costanza di una riduzione di lungo termine delle dimensioni
occupazionali (nello stesso campione il numero di dipendenti si riduce
di circa il 20% e il costo del lavoro passa dal 16 al 10% del fatturato
lordo). Il trend continua nel nuovo secolo: nell’intero campione
Mediobanca di 2.032 società, fra il 2002 e il 2010 lo stesso rapporto
passa dal 28,8% al 34,1%, con un picco del 41,5% nel 2007. E continua
anche la riduzione della forza-lavoro dipendente, che diminuisce di
circa il 6%[2].
Molte trasformazioni
organizzative delle grandi imprese italiane si possono spiegare, più che
come un processo di razionalizzazione propriamente industriale, come implicazioni dell’adozione di una concezione finanziaria del controllo d’impresa. Abbiamo mostrato in altra sede[3],
con un’indagine empirica condotta attraverso interviste a manager di
grandi imprese in settori diversi, che i mutamenti organizzativi degli
ultimi trent’anni – un periodo nel quale il vertice delle direzioni
aziendali è stato affidato a executives di formazione
finanziaria – hanno risposto alla pressione del mercato finanziario: sul
piano della configurazione d’impresa, innescando un processo di
accentramento del coordinamento e del controllo funzionale a una
gestione di breve termine; sul piano dei rapporti fra imprese,
incentivando le operazioni di esternalizzazione in vista di una
riduzione dei costi fissi e della realizzazione di liquidità da
destinare a investimenti finanziari; sul piano delle situazioni di
lavoro, promuovendo un “dimagrimento” di lungo termine e un assetto di
continua aggiustabilità delle risorse umane alle esigenze di breve
periodo.
Per finanziarizzazione,
dunque, non va intesa né soltanto una modalità di azione economica, né
(più ampiamente) una modalità di accumulazione. Si può proporre, invece,
di indicare con questo termine un vasto fascio di mutamenti della regolazione dell’azione economica. Nella prospettiva che abbiamo proposto, in definitiva, finanziarizzazione è un termine che individua alcuni connotati basilari di quel generalizzato ritorno al mercato – a un mercato deregolamentato e deistituzionalizzato.
* Università del Salento
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