La politica industriale della FIAT è così riassunta dal segretario FIOM Giorgio Cremaschi:
”Si chiude dove minimamente non conviene e si aprono gli stabilimenti dove gli stati pagano gran parte dell’investimento e i lavoratori ricevono stipendi incivili. Otto miliardi di dollari sono il finanziamento del governo degli Stati Uniti all’unione Fiat-Chrysler. Quasi due miliardi ha promesso Putin alla Fiat per un nuovo stabilimento in Russia. Quasi altrettanto paga il governo messicano per fare le 500, attualmente costruite in Polonia, dove il costo del lavoro comincia ad essere eccessivo. Cifre minori, ma comunque significative, la Fiat riceverà per riprendere la produzione automobilistica in Serbia”.
Insomma la FIAT investe dove gli Stati pagano. A livello mondiale ha accumulato in breve tempo almeno dodici miliardi di dollari di pubblici finanziamenti. Nello stesso tempo sposta la produzione dove i salari sono più bassi licenziando migliaia i lavoratori nei paesi industrializzati, in particolar modo in Italia (vedi Termini Imerese).
Pur con questi accorgimenti, la situazione della FIAT non è rosea: il 2009 si è chiuso con una perdita netta di 800 milioni di euro a fronte di un utile di 1.700 milioni nel 2008. Le vendite sono aumentate solo grazie agli incentivi che i vari governi hanno elargito per sostenere la produzione.
Di fronte ad una crisi di queste dimensioni si presume che un “buon imprenditore” riduca i costi e aumenti gli investimenti, insomma che faccia tutto il possibile per salvare l’azienda e i posti di lavoro.
Così infatti afferma la vulgata corrente imperante nei media e nel senso comune. Così afferma perentoria la presidente di Confindustria Marcegaglia ogni giorno in televisione: “siamo sulla stessa barca, bisogna fare sacrifici e gli imprenditori sono proprio quelli che si sacrificano di più per il bene dei loro dipendenti”.
Ma questa è solo ideologia.
A spulciare i bilanci della FIAT si scopre, per esempio, che di fronte alla crisi conclamata i vertici della FIAT hanno pensato solo di aumentare i loro già lauti compensi. Sergio Marchionne si è aumentato lo stipendio da 3,4 a 4,7 milioni di euro all’anno. Così come il presidente Luca di Montezemolo ha avuto il suo bell’aumento: da 3,3 a 5,1 milioni di euro annui. Complessivamente il top management dell’azienda si è aumentato gli stipendi da 11 a 19 milioni all’anno. Questo mentre il premio aziendale per gli operai e gli impiegati, nel 2009, è stato tagliato da 1.200 a 600 euro e per il 2010 si annuncia già ridotto fino a 300, sempre annui.
In questa situazione anche gli azionisti hanno avuto la loro parte: la Fiat quest’anno ha perso 800 milioni di euro, come risulta dai bilanci. Ma gli azionisti si sono comunque distribuiti 250 milioni di dividendi.
Si prepara la chiusura di Termini Imerese, si annunciano tagli complessivi dell’occupazione, cresce l’incertezza di molti stabilimenti, la cassa integrazione permanente oramai riduce le retribuzioni reali di un lavoratore Fiat a 900 euro netti mensili, ma la famiglia Elkann-Agnelli si distribuisce lauti guadagni.
Insomma, mentre i lavoratori del gruppo, in nome della crisi, pagano costi sociali drammatici, con vite intere che vengono messe in discussione, gli azionisti, Marchionne e Montezemolo, se la sguazzano.
E’ una vergogna senza precedenti, che dovrebbe suscitare un moto d’indignazione nell’opinione pubblica e che invece, fino ad ora, viene presentata con giustificazioni o assuefazioni. La concreta strategia imprenditoriale di Marchionne è tagliare i posti di lavoro e i salari, inseguire il costo del lavoro più basso e farsi pagare gli investimenti con i soldi pubblici. Il resto sono fumi pubblicitari atti solo a mascherare la realtà.
Se la realtà è quella sopra descritta sorge una domanda: a cosa servono gli imprenditori?
Nella teoria economica l’imprenditore è chi si assume il rischio dell’impresa economica; chi investendo i propri risparmi crea impresa organizzando la forza lavoro in modo da creare valore. In questo senso il profitto non è altro che la renumerazione del costo dell’investimento e del rischio connesso. Questo secondo la teoria economica dominante.
Ma se gli investimenti sono finanziati non dai risparmi dell’imprenditore ma dallo Stato con i soldi di tutti è ancora possibile giustificare il profitto? E se in situazioni di crisi l’imprenditore non rischia nulla ma aumenta i propri guadagni scaricandone i costi sul lavoro mediante licenziamenti, cassa integrazione, riduzione di salari e aumento dei ritmi dove va a finire la funzione sociale dell’imprenditore?
La crisi non provoca solo distruzione di beni e ricchezze, non determina solo un peggioramento generalizzato delle condizioni di vita dei lavoratori. La crisi è anche il momento in cui i rapporti sociali si manifestano senza i veli dell’ideologia delle classi dominanti. La crisi è un grande momento di verità. Bisogna saperne approfittare.
PECS
”Si chiude dove minimamente non conviene e si aprono gli stabilimenti dove gli stati pagano gran parte dell’investimento e i lavoratori ricevono stipendi incivili. Otto miliardi di dollari sono il finanziamento del governo degli Stati Uniti all’unione Fiat-Chrysler. Quasi due miliardi ha promesso Putin alla Fiat per un nuovo stabilimento in Russia. Quasi altrettanto paga il governo messicano per fare le 500, attualmente costruite in Polonia, dove il costo del lavoro comincia ad essere eccessivo. Cifre minori, ma comunque significative, la Fiat riceverà per riprendere la produzione automobilistica in Serbia”.
Insomma la FIAT investe dove gli Stati pagano. A livello mondiale ha accumulato in breve tempo almeno dodici miliardi di dollari di pubblici finanziamenti. Nello stesso tempo sposta la produzione dove i salari sono più bassi licenziando migliaia i lavoratori nei paesi industrializzati, in particolar modo in Italia (vedi Termini Imerese).
Pur con questi accorgimenti, la situazione della FIAT non è rosea: il 2009 si è chiuso con una perdita netta di 800 milioni di euro a fronte di un utile di 1.700 milioni nel 2008. Le vendite sono aumentate solo grazie agli incentivi che i vari governi hanno elargito per sostenere la produzione.
Di fronte ad una crisi di queste dimensioni si presume che un “buon imprenditore” riduca i costi e aumenti gli investimenti, insomma che faccia tutto il possibile per salvare l’azienda e i posti di lavoro.
Così infatti afferma la vulgata corrente imperante nei media e nel senso comune. Così afferma perentoria la presidente di Confindustria Marcegaglia ogni giorno in televisione: “siamo sulla stessa barca, bisogna fare sacrifici e gli imprenditori sono proprio quelli che si sacrificano di più per il bene dei loro dipendenti”.
Ma questa è solo ideologia.
A spulciare i bilanci della FIAT si scopre, per esempio, che di fronte alla crisi conclamata i vertici della FIAT hanno pensato solo di aumentare i loro già lauti compensi. Sergio Marchionne si è aumentato lo stipendio da 3,4 a 4,7 milioni di euro all’anno. Così come il presidente Luca di Montezemolo ha avuto il suo bell’aumento: da 3,3 a 5,1 milioni di euro annui. Complessivamente il top management dell’azienda si è aumentato gli stipendi da 11 a 19 milioni all’anno. Questo mentre il premio aziendale per gli operai e gli impiegati, nel 2009, è stato tagliato da 1.200 a 600 euro e per il 2010 si annuncia già ridotto fino a 300, sempre annui.
In questa situazione anche gli azionisti hanno avuto la loro parte: la Fiat quest’anno ha perso 800 milioni di euro, come risulta dai bilanci. Ma gli azionisti si sono comunque distribuiti 250 milioni di dividendi.
Si prepara la chiusura di Termini Imerese, si annunciano tagli complessivi dell’occupazione, cresce l’incertezza di molti stabilimenti, la cassa integrazione permanente oramai riduce le retribuzioni reali di un lavoratore Fiat a 900 euro netti mensili, ma la famiglia Elkann-Agnelli si distribuisce lauti guadagni.
Insomma, mentre i lavoratori del gruppo, in nome della crisi, pagano costi sociali drammatici, con vite intere che vengono messe in discussione, gli azionisti, Marchionne e Montezemolo, se la sguazzano.
E’ una vergogna senza precedenti, che dovrebbe suscitare un moto d’indignazione nell’opinione pubblica e che invece, fino ad ora, viene presentata con giustificazioni o assuefazioni. La concreta strategia imprenditoriale di Marchionne è tagliare i posti di lavoro e i salari, inseguire il costo del lavoro più basso e farsi pagare gli investimenti con i soldi pubblici. Il resto sono fumi pubblicitari atti solo a mascherare la realtà.
Se la realtà è quella sopra descritta sorge una domanda: a cosa servono gli imprenditori?
Nella teoria economica l’imprenditore è chi si assume il rischio dell’impresa economica; chi investendo i propri risparmi crea impresa organizzando la forza lavoro in modo da creare valore. In questo senso il profitto non è altro che la renumerazione del costo dell’investimento e del rischio connesso. Questo secondo la teoria economica dominante.
Ma se gli investimenti sono finanziati non dai risparmi dell’imprenditore ma dallo Stato con i soldi di tutti è ancora possibile giustificare il profitto? E se in situazioni di crisi l’imprenditore non rischia nulla ma aumenta i propri guadagni scaricandone i costi sul lavoro mediante licenziamenti, cassa integrazione, riduzione di salari e aumento dei ritmi dove va a finire la funzione sociale dell’imprenditore?
La crisi non provoca solo distruzione di beni e ricchezze, non determina solo un peggioramento generalizzato delle condizioni di vita dei lavoratori. La crisi è anche il momento in cui i rapporti sociali si manifestano senza i veli dell’ideologia delle classi dominanti. La crisi è un grande momento di verità. Bisogna saperne approfittare.
PECS
Nessun commento:
Posta un commento
Di la tua