sabato 4 maggio 2013

L’implosione vicina di Etienne Balibar, Il Manifesto



E ancora una volta, allarme generale! La vecchia «coppia» franco-tedesca, motore o freno a seconda dei pareri, è sull’orlo dell’implosione. Va detto ai nostri vicini quel che si meritano, anche se stanno per diventare i nostri padroni, o dobbiamo iniziare a pensare per noi, ad accettare i compromessi che dovrebbero evitare il peggio? Credo che sarebbe meglio capire che cosa stia succedendo rispetto all’ensemble europeo, le cui componenti, tutte, insieme si sgretoleranno o si salveranno. La costruzione europea si è bloccata sull’ostacolo del bilancio. Per l’opinione pubblica, è screditata. Ciononostante esiste un sistema politico unico, né nazionale né davvero federale, ma che accumula gli effetti negativi di ogni livello e che ormai comanda tutto. Risulta chiaro, osservando le recenti evoluzioni d’Italia e Francia.
L’Italia sta pagando, con un’ingovernabilità apparentemente irreversibile, la somma degli anni del berlusconismo e della «rivoluzione dall’alto» che sotto le ingiunzioni di Bruxelles e Francoforte ha portato al governo una squadra di tecnocrati strettamente legati alla grande banca internazionale. Cerca di cavarsela, con un’evoluzione dal parlamentarismo al presidenzialismo, ma il tentativo si compie attraverso un’unione nazionale fittizia, orfana di qualunque base popolare. La Francia, che le istituzioni della V Repubblica si dice salvaguardino dall’instabilità, ne subisce anche l’altra faccia. Eletto sulla promessa d’invertire lo sviluppo dell’insicurezza sociale, senza per questo potere, o volere, entrare in conflitto con un capitalismo finanziario che controlla ogni iniziativa, il Presidente Hollande è ridotto all’impotenza. Dato il fallimento dei suoi tentativi di essere all’altezza, federando «l’Europa latina» o trascinando i vicini in una guerra per combattere il terrorismo in Africa, non può che oscillare tra impopolarità e «sanzione» dei mercati, a rischio d’incappare in entrambi. Ingovernabilità da un lato, immobilità dall’altro: si chiama crisi di sistema.
Beninteso, la crisi ha, ogni volta, origini nazionali. Deriva però anche da condizioni europee e porta con sé conseguenze per l’Europa intera che, inevitabilmente, l’aggraveranno se non verrà attuata una soluzione d’insieme. Non tocca, oggi, solo le «periferie», ma due Paesi fondatori della comunità, i più potenti dopo la Germania. Dato il fallimento del ricorso alle istituzioni federali, poiché di fatto nessuno Stato lo voleva, le politiche continuano a essere decise unicamente in funzione dei rapporti di forza tra nazioni. È paralisi assicurata, se non l’esplosione. E i popoli che si allontanano dall’Unione ne saranno le prime vittime. Di questa situazione è importante capire le cause, se vogliamo delineare delle vie d’uscita. Sottolineerò due cause fondamentali. La prima si limita a una parola: disuguaglianze galoppanti. Sono innanzitutto sociali, non risparmiano nessun Paese (neanche la Germania), ma sono distribuite in modo altrettanto disuguale tra le regioni e gli Stati: una sorta di disuguaglianza nella disuguaglianza che la crisi ha drammaticamente aggravato, sottoponendo alcuni Paesi del Mediterraneo a una violenza simile a quella della guerra. Quest’esplosione della società è il contrario degli obiettivi proclamati dall’Unione. È inverosimile che i sistemi di rappresentanza vi resistano a lungo ed è irrisorio pensare che sia possibile rifondare la politica comunitaria senza rimediarvi con misure di salute pubblica. Il che ci porta alla seconda causa: il ritorno dei nazionalismi , cui oggi non sfuggono né i «dominanti», né i «dominati». Probabilmente il «progetto europeo» aveva sottovalutato la resistenza del nazionalismo, non solo per un fattore culturale, o per l’impronta delle grandi tragedie del Ventesimo secolo, ma per il fatto che le sicurezze e le solidarietà sociali si erano tutte costruite per mezzo della coesione nazionale. Di certo, però, la deriva dell’Europa verso un’unione monetaria al servizio di un ordine economico puramente concorrenziale ha scatenato al proprio interno la guerra di tutti contro tutti, dove i più forti schiacciano i più deboli, prima di ritrovarsi esposti allo choc di una globalizzazione di cui saranno solo le pedine. Contro evoluzioni di questo genere non ci sono rimedi facili, poiché è necessario che concorrano opinioni oggi ostili e l’inversione di tendenze che sono state sacralizzate. Motivo in più per porre da subito il problema di una rifondazione dell’Unione, in vista della costruzione di un’altra Europa. Questa – come giustamente sottolinea nel suo ultimo libro Ulrich Beck (da poco pubblicato in Italia da Laterza con il titolo Europa Tedesca , n.d.r – può nascere solo «dal basso» o da uno sviluppo senza ostacoli delle iniziative cittadine, che si estendono dal dibattito alla protesta e anche all’indignazione suscitata dagli effetti della crisi. E a condizione che non scivoli a sua volta verso il nazionalismo vittimario, ma si riveli capace di proporre alternative che abbiano un senso per la maggioranza dei cittadini del continente. Probabilmente sarebbe anche necessario che nascesse una leadership storica, una proposta politica udibile da tutti e da ciascuno nella propria lingua. Qualcuno ha evocato un New Deal europeo. Di certo, non lo aspetteremo da Angela Merkel. Ipotizzo però che debba arrivare dalla Germania, o ritrovarvisi sostituita, non in quanto «centro», ma poiché il primo dovere è quello di convincere la massa dei cittadini tedeschi a scambiare i benefici (relativi) che traggono dalla crisi e i vantaggi (provvisori) della loro superiorità economica con un interesse collettivo a lungo termine. Il che pone molte condizioni, tutte difficili e il cui adempimento è improbabile. Proprio per questo ho qui voluto insistere su quanto siano necessarie.

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