lunedì 8 novembre 2010

Il patto sociale che uccide la speranza

Leggendo i giornali, con il cambio di segretario generale la Cgil sembra avere accelerato la corsa verso il patto sociale con la Confindustria, anche se in queste settimane tre accordi hanno già spinto decisamente in quella direzione.


Il primo è stato l’accordo all’Unicredit. In un settore che ha ricominciato a macinare profitti, come quello bancario, si è accettato il taglio di migliaia di posti di lavoro e 3mila licenziamenti veri e propri. I lavoratori espulsi sono stati sostituiti, almeno in parte, da giovani assunti con salario e condizioni normative peggiori. A coronamento del tutto, evidentemente per evitare proteste e dissensi, si è concordato che i nuovi assunti siano prima di tutto scelti tra i figli dei dipendenti. Un accordo subalterno e corporativo, firmato anche dalla Cgil evidentemente senza ricordare gli interventi di Bruno Trentin contro intese dello stesso segno, ma assai meno gravi. Dopo questo accordo si è aperta la campagna sul patto sociale. L’ha lanciata la Confindustria nella sua conferenza di Genova e tutta la grande stampa e i principali partiti di governo e opposizione hanno esaltato la possibilità di un ritorno a casa della Cgil. Pochi giorni dopo gli incontri di Genova la Federmeccanica ha sottoscritto con Fim e Uilm un accordo separato che distrugge con le deroghe il contratto nazionale e che prepara l’estensione a tutti i metalmeccanici dei diktat di Marchionne a Pomigliano. Nello stesso giorno il Parlamento licenziava definitivamente il “collegato lavoro” che impone ai nuovi assunti l’accettazione dell’arbitrato al posto del ricorso alla magistratura. Così, mentre si proclamava la necessità del patto sociale anche con la Cgil si proseguiva a rendere operativo l’accordo separato sul sistema contrattuale e sui diritti firmato da governo Confindustria, Cisl e Uil nel 2009. A maggior chiarimento che la Cgil viene chiamata a sedere a un tavolo già imbandito da altri, il vice presidente della Confindustria Bombassei ha specificato che sulle regole e sul sistema contrattuale si tratta solo di effettuare un “tagliando” rispetto agli accordi già operativi. Nonostante questo il tavolo del patto sociale si è avviato con la presenza della Cgil e con l’assenza del governo. Il che ha suscitato gli entusiasmi della grande stampa e di gran parte dell’opposizione che ha affidato a quella sede il compito di scalzare dal suo potere Silvio Berlusconi. Si sono così siglati due accordi interconfederali. Il primo è stato quello su cassaintegrazione e fisco. Benignamente gli industriali, senza assumere nessun impegno sull’occupazione, hanno concesso di chiedere assieme ai sindacati più cassaintegrazione, compresa quella in deroga che Marchionne vuole applicare abusivamente in Fiat.Inoltre si è concordato di chiedere gli sgravi fiscali solo sul salario legato alla produttività, escludendo la parte fissa della retribuzione. Il ministro Sacconi ha giustamente considerato queste intese un’applicazione del programma del suo governo e Tremonti si è affrettato a finanziarle. Subito dopo c’è stato l’accordo sull’apprendistato. Come ha giustamente scritto sul manifesto l’ex assessore del lavoro della regione Puglia Marco Barbieri, quell’accordo è la realizzazione dell’impostazione della Gelmini sulla riduzione dell’obbligo scolastico a favore del lavoro in azienda e del libro bianco del ministro Sacconi sulla flessibilità.Queste intese però sono solo un assaggio. L’obiettivo grosso del patto sociale è infatti l’accordo sulla produttività. Già il tema stesso rappresenta un depistaggio falso e ingiusto dei problemi reali del Paese. L’Italia non ha un problema di produttività del lavoro, ma di efficienza, produttività e innovazione del capitale e della spesa pubblica. E’ lì che bisogna investire e innovare e migliorare, non nel rendimento materiale dei lavoratori. Invece, sull’onda dell’offensiva di Marchionne contro i diritti dei lavoratori, si apre un tavolo che ha come unico scopo la discussione sulla prestazione di lavoro. Per la Cgil il solo accettare un confronto su queste basi così ingiuste e retrive, è una sconfitta. Se poi davvero si dovesse giungere a un accordo che estende a tutto il mondo del lavoro le flessibilità di Pomigliano allora saremmo a una disfatta. E tuttavia il tavolo si è aperto e nella sua relazione programmatica, che proprio per questo ha avuto un giudizio negativo della sinistra della confederazione, Susanna Camusso ha esaltato e valorizzato quel confronto. La verità è che, come mostra la campagna di stampa e la pressione bipartisan che si esercita sulla Cgil, il patto sociale è oggi un’operazione puramente politica. Essa è infatti finalizzata a creare le condizioni per una sostituzione indolore di Silvio Berlusconi con un governo di unità e responsabilità nazionale. Lo squallido crepuscolo del presidente del consiglio ha accelerato questo processo per cui da diverse parti si sostiene che in fondo un po’ di produttività in più è un piccolo sacrificio per il mondo del lavoro, se in cambio si ottiene la cacciata di Berlusconi.Il fatto è però che gli accordi che si preparano, così come quelli sottoscritti, sono la pura attuazione del programma economico e sociale del governo di centrodestra e degli accordi separati. Se la Cgil dovesse davvero cedere a questa pressione dei poteri forti e dell’opposizione moderata, compirebbe una scelta di puro autolesionismo. Un patto sociale firmato dalla Cgil oggi sarebbe la rottura totale con le speranze e la voglia di cambiamento della piazza del 16 ottobre, che manifestava sia contro il regime berlusconiano sia contro quello che vuole imporre l’amministratore delegato della Fiat. La nuova segretaria generale della Cgil ha ricevuto dai grandi mass media una sorta di pubblica investitura con il mandato di sottoscrivere il patto sociale. Bisogna che questo non accada e che tutta la Cgil sia messa di fronte alla responsabilità di guidare ed estendere l’opposizione sociale, quella che oggi pretende giustamente lo sciopero generale.

Giorgio Cremaschi,

Liberazione 07 novembre 2010

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