mercoledì 10 novembre 2010

L'insostenibile leggerezza della politica

Non è la cosa più agevole districarsi nel groviglio politico presente, distinguervi ciò che è "sostanza" e ciò che è "accidente", e azzardare previsioni, anche a breve termine, capaci di reggere per più di qualche giorno. Questa indeterminatezza degli scenari prossimi venturi dipende, in primo luogo, dal fatto che tutto si svolge in un perimetro ben delimitato: quello dei rapporti fra le forze politiche e, precisamente, fra quelle che sono al governo del Paese. Qui tutto sembra (e in effetti è) in vorticoso movimento, ma a questo bailamme, alle quotidiane convulsioni che scandiscono lo scontro fra i duellanti, non corrisponde una dinamica sociale altrettanto forte e visibile.
Una volta si poteva sostenere con sufficiente approssimazione al vero che «i partiti sono la nomenclatura delle classi». Oggi, nel tempo del trionfo dell'interclassismo e del trasformismo, vale a dire dell'egemonia del capitale e del pensiero mercatista, tutti i partiti che siedono in parlamento hanno il loro baricentro ideologico nell'impresa, riconosciuta come soggetto propulsivo, procacciatore del bene comune. Questa fondamentale adiacenza culturale fa sì che la politica sia rappresentata o, per meglio dire, spacciata per un libero confronto fra idee, del tutto - o quasi - spogliate degli interessi ad esse sottesi.
La crisi economica rappresenta certo lo scenario di fondo entro cui si consuma l'autocombustione del governo. Ma non si può dire che a promuoverne lo smottamento stia concorrendo il conflitto sociale che oggi vive di troppo intermittenti sussulti, anche se carichi di potenzialità che si scorgono dietro eventi come la grande manifestazione promossa dalla Fiom lo scorso 16 ottobre. Il fatto è che la Cgil non riesce a guadare il fiume, a porsi alla guida di un movimento che avrebbe bisogno di una rappresentanza sindacale forte, non prigioniera di una coazione unitaria che rischia di riassorbirla dentro un sistema di relazioni industriali totalmente subalterne.
Lo sciopero generale, reclamato a gran forza dai metalmeccanici, non arriva mai, mentre in piena era Marchionne, con una Confindustria che chiede tagli sempre più robusti al welfare, più fatica e meno diritti al lavoro e di fronte ad un governo che dopo l'approvazione del "collegato lavoro" si appresta a mettere le mani sullo statuto dei lavoratori, il tema che tiene banco è quello di un patto sociale per la produttività dal quale i lavoratori non hanno nulla da guadagnare e tutto da perdere. Chiude il cerchio l'evanescenza politica del Pd, la sua manifesta incapacità - giunta allo stadio cronico - di schierarsi nel conflitto fra capitale e lavoro. Che una volta espunto e reso ininfluente rispetto alla dinamica politica, ne consegna l'evoluzione, puramente e semplicemente, alle manovre interne al palazzo.
Per non prendere lucciole per lanterne, allora, servirebbe capire che Gianfranco Fini non sta preparando la transumanza della sua neonata formazione politica verso una contiguità con il centrosinistra, bensì un aggiornamento culturale (vero) della destra che egli si candida a guidare dentro una riarticolazione (non uno sbancamento) dei rapporti di coalizione. Non sorprenderebbe, perciò, se un nuovo patto che contemplasse un trapasso di leadership, implicasse persino il viatico al Quirinale del caudillo di Arcore. Se è vero che l'uomo di Fiuggi ha davvero in mente quella destra europea, liberale, parlamentare e non più cripto-golpista (ancorché presidenzialista) di cui si parla, lo è altrettanto che sempre di destra trattasi.
Si compia il banale esercizio di esaminare i contenuti della politica sociale di Fli per togliersi ogni dubbio in proposito: politica estera (la guerra), economica (il patto di stabilità), sociale (ridimensionamento del welfare, stretta sul lavoro, politiche fiscali e redistributive). Né risulta che i finiani abbiano alzato la voce, o intendano alzarla, di fronte all'annichilimento di ogni diritto e alla riduzione in schiavitù che i migranti italiani stanno subendo.
Si può semmai osservare che neppure i cosiddetti riformisti coltivino ambizioni troppo diverse: non la neo-ortodossia vagamente socialdemocratica di Bersani, non la (apparente) furia demolitrice dei giovani "rottamatori" che vorrebbero sostituire la nomenclatura del Pd, tantomeno il moderatismo parademocristiano di Enrico Letta.
In questo quadro, dove l'opposizione istituzionale si affida a metamorfosi interne al centrodestra, del tutto inabile a produrre fatti in proprio, il gioco politico è nelle mani di Umberto Bossi, investito dai due cofondatori del Pdl del compito di escogitare una mediazione che - incassato il federalismo - prepari l'avvicendamento alla guida del centrodestra, assicurando nel contempo a Berlusconi un futuro istituzionale e - ovviamente - l'agognato salvacondotto giudiziario.
In questo clima da ultimi giorni di Bisanzio, mentre l'Italia affoga (non metaforicamente), nessuno può dire su quale disegno si fisserà, se si fisserà, il caleidoscopio politico.
Resta da dire che ci sarebbe molto spazio a manca, se invece di improbabili, taumaturgiche illusioni entriste nel nuovo Ulivo, maturasse un progetto di unità a sinistra capace di una narrazione fatta non solo di parole, di fascinazione mediatica, ma di pratiche sociali, di democrazia partecipata, di vera rappresentanza del lavoro, di credibile, concreta progettualità. Finché questa salutare intenzione non penetrerà nel sistema venoso dell'arcipelago della sinistra dovremo scontare altre delusioni. Ma non potremo dire che un simile epilogo fosse scritto nelle stelle.
Dino Greco,
Liberazione 10 novembre 2010

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