Le polemiche sulla progettata (e sperabilmente abortita) «riforma» dell’università si incentrano sui quattrini. Si capisce. Gran parte del provvedimento si risolve in un taglio della spesa deciso con la finanziaria del 2008 e aggravato da quella di quest’anno. E poi di questi tempi sempre di soldi si parla, con o senza l’alibi della crisi. Ma affrontare il discorso in questa prospettiva significa deciderne le conclusioni già in partenza: i soldi scarseggiano, i tagli sono inevitabili. Fine della trasmissione. Forse però le cose non stanno così.L’università è un’istituzione fondamentale per il «pieno sviluppo della persona umana». Perciò secondo la Costituzione «i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». E per questo motivo «la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica» garantendo la libertà d’insegnamento. Sarebbe difficile enunciare con più chiarezza il nesso tra cultura e democrazia. La conoscenza serve a comprendere la realtà; senza, è impossibile compiere scelte consapevoli e libere. Il discorso non riguarda soltanto gli individui ma anche la società, che progredisce in proporzione diretta alla diffusione della cultura. Sul piano civile e morale come sul terreno economico; nella produzione artistica come nell’innovazione tecnica.Se è così, razionalità vorrebbe che la spesa pubblica destinata al sistema formativo fosse considerata un investimento strategico. Chi non capisce che quanto più un paese è ricco di cultura, tanto più è in grado di risolvere i propri problemi, non ha imparato nulla dalla storia, a cominciare da quanto avvenne a cavallo tra il Cinque e il Seicento, allorché l’Italia imboccò la strada di un lungo declino dopo essere stata per secoli una culla della civiltà europea.Ma la cultura costa: costano i libri, le aule, i laboratori. Costano i professori, gli studenti, il personale tecnico delle università. Per questo – si dice – i governi riducono la spesa e i disegni di «riforma» dell’università prevedono tagli, aumentano le tasse d’iscrizione e svendono ai privati infrastrutture e servizi. La carenza di risorse è anche la motivazione addotta a sostegno della tesi meritocratica, cara pure alle forze di opposizione che condividono gran parte del ddl Gelmini. Anche per questo la «riforma» è considerata «un’occasione» dalla responsabile università del Pd e da Luigi Berlinguer, non rimpianto ministro dell’università e della ricerca tra il 1996 e il 2000, che ne rivendica (a buon diritto) la paternità.In apparenza il ragionamento non fa una grinza. In tempi di vacche magre la selezione è più dura ed è giusto riservare le risorse ai docenti e agli studenti più capaci. In realtà proprio il combinato disposto meritocrazia + tagli alla spesa riposa su una mistificazione e rivela una preoccupante comunanza di idee tra il centrodestra oggi in crisi e il centrosinistra che ambisce a succedergli alla guida del paese.Pretendere che i migliori siano premiati è giusto purché non si perda di vista il diritto alla conoscenza che la Costituzione riconosce comunque a ciascuno (diritto, non dovere di pagare indebitandosi con i cosiddetti «prestiti d’onore»); purché a tutti siano assicurate adeguate condizioni di base e di crescita; purché, infine, si disponga di criteri di giudizio oggettivi (il che, per ciò che riguarda la ricerca scientifica, è notoriamente complicato). Chi ha a cuore il merito dovrebbe quindi in primo luogo sforzarsi di rimuovere gli enormi ostacoli che in una società ingiusta limitano l’uguaglianza delle persone. Ma legare la tesi meritocratica alla politica dei tagli comporta fatalmente conseguenze inique e controproducenti. Nessuno può sapere in partenza quanti siano i meritevoli. Partire da numeri chiusi e quote prestabilite significa disporsi ad escludere anche chi meriterebbe di andare avanti, con un enorme spreco di risorse umane per la collettività e uno sconsiderato dispendio di sofferenza per gli individui. Non solo: come ogni strozzatura, il sistema delle quote trasforma la meritocrazia in un meccanismo di tutela delle oligarchie. Pur di salvarsi, si attiveranno lobbies e clientele, e poco importa se ad essere sommersi saranno molti meritevoli. C’è una soluzione? Certo che sì, e anche molto semplice. Riducendo la spesa militare e le regalìe fiscali agli evasori, ci sarebbero risorse più che sufficienti non solo per mettere in sicurezza l’intero sistema formativo del paese, ma anche per consentirgli di adempiere il compito fondamentale di generalizzazione della conoscenza che la Costituzione gli affida. Ciò significa che l’ordine del discorso andrebbe rovesciato, e che di soldi si parla come del problema-chiave dell’università italiana perché non si vuole che la scuola e l’università funzionino come dovrebbero, perché si sa che la mobilità sociale che ne deriverebbe produrrebbe terremoti e perché si progetta per le giovani generazioni di questo paese un futuro gramo, fatto di lavoro dequalificato, precario e sottopagato (con tanti saluti alla competitività delle imprese, che tanti giurano di avere a cuore). Che anche l’opposizione ragioni su questa materia in termini di pura ragioneria è solo un motivo in più di preoccupazione.
Alberto Burgio
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