venerdì 30 agosto 2013

Il prezzo della politica monetaria americana di Fondazione Condividere, Il Fatto Quotidiano


Nel dicembre 2008, quattro mesi dopo l’inizio della crisi determinata dal fallimento di Lehman Brothers, la Federal Reserve americana (FED) diede il via al ben noto programma di espansione monetaria denominato quantitative easing (QE), realizzato tramite l’acquisto sul mercato di titoli a medio/lungo termine, per un importo di 600 miliardi di dollari, successivamente aumentato ad oltre 1.000 miliardi.
Da allora, il programma è stato rinnovato per ben tre volte e la versione attualmente in essere prevede il riacquisto di 85 miliardi al mese di titoli.
Obbiettivi della FED:  immettere liquidità in un mercato interbancario paralizzato dai timori di altri fallimenti bancari e, nel contempo, favorire la ripresa economica e la riduzione della disoccupazione facendo pervenire denaro a basso costo al sistema delle imprese.
In realtà solo il primo obbiettivo è stato realizzato in quanto la liquidità a basso costo è rimasta in buona parte presso il sistema bancario ed i grandi investitori che l’hanno utilizzata per acquistare attività finanziarie lucrando il differenziale tra il costo (prossimo allo zero) dei finanziamenti in dollari e l’alto rendimento dei titoli, perlopiù emessi in divise dei paesi emergenti : una pratica universalmente nota come carry trade.
Si è quindi creata una bolla finanziaria con una crescita abnorme dei prezzi delle attività e dei principali indici di borsa (dall’inizio del programma di QE l’indice SP500 è salito del 150%) e la creazione di una ricchezza altrettanto smisurata in capo ai principali operatori del mercato, ricchezza che si è però trasferita solo in parte in capo agli altri soggetti economici.
Tre mesi fa la FED, ritenendo di avere raggiunto i propri obbiettivi, ha comunicato che entro giugno 2014 il programma di QE verrà terminato e che successivamente potrebbe iniziare ad aumentare i tassi di interesse. Tanto è bastato però per scatenare una violenta reazione dei mercati che hanno, per la prima volta dopo 5 anni, capito che è finita l’era della liquidità in dollari a costo zero e, nella prospettiva di un rialzo dei tassi, si sono affrettati a smontare le operazioni di carry trade citate vendendo i titoli denominati nelle divise dei paesi emergenti rimborsando nel contempo i prestiti in dollari
Il risultato ? Un crollo verticale sia delle principali divise dei paesi emergenti che dei prezzi dei loro titoli di stato con una crescita esponenziale dei tassi di interesse. Un esempio per tutti, il Real brasiliano che in meno di 3 mesi si è svalutato del 20% ed il cui tasso di interesse sui titoli a lungo termine è salito dal 6,5% ad oltre il 10%.. Una situazione analoga si è verificata in India, Sudafrica e Turchia.
Le economie dei paesi emergenti stanno quindi fronteggiando una crisi determinata dall’improvvisa fuga dei capitali che negli scorsi anni avevano contribuito a sostenere la loro crescita. Oggi lo scenario è invece quello di economie in forte rallentamento e le cui banche centrali sono costrette ad alzare ripetutamente i tassi di interesse per frenare il crollo delle proprie divise. Tassi sempre più elevati sul proprio debito che assorbiranno risorse crescenti, sottratte allo sviluppo, rimandando nel tempo la possibilità di riequilibrare la crescita di questi paesi.
Una volta di più le conseguenze dello sfrenato liberismo economico anglosassone saranno pagate da milioni di persone incolpevoli, come già successo con la maggior parte dei paesi europei, a dimostrazione che il mercato è sempre più un gioco a somma zero dove però a vincere è sempre la stessa parte.

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