Alla fine l’inquilino del
Colle ha parlato. Non era affatto obbligatorio che lo facesse. Anzi. Non
vi era motivo alcuno di dover rispondere alla sgangherata e persino
intimidatrice pressione cui in questi giorni è stato sottoposto dai
cortigiani di Berlusconi. E, francamente, per dire che le sentenze
passate in giudicato vanno applicate, come lo sono per tutti, anche se
non le si condivide, non occorreva certo l’autorevole conferma del
Presidente della Repubblica. Che invece ha inteso parlare e lo ha fatto,
evidentemente, con linguaggio criptico, se dall’una e dall’altra parte,
da chi vorrebbe finalmente chiudere la stagione del caimano e da chi
invece vorrebbe per lui un salvacondotto, si interpretano le parole del
capo dello Stato in senso diametralmente opposto.
La “vexata quaestio” riguarda, con tutta evidenza, il tema della
grazia, vale a dire il solo intervento che dipende da Napolitano ed
anche il solo, allo stato delle cose, che potrebbe risolvere in radice
la posizione di Berlusconi altrimenti del tutto compromessa. Ma perché,
ecco il punto, Napolitano si preoccupa, mettendovi un impegno così
solerte, della sorte del pregiudicato Berlusconi? Perché si muove in
questa vicenda come non farebbe (e nessun capo dello Stato prima di lui
ha mai fatto) per un qualsiasi altro cittadino? Perché si tratta del
padrone del Pdl? Se così fosse egli travalicherebbe di gran lunga le
proprie prerogative in quanto le ragioni di un suo intervento sarebbero
di carattere squisitamente politico. Oppure perché il vero nodo è la
blindatura del governo delle “larghe intese”, creatura dal suo sen
partorita, di fronte alla quale ogni altra questione diventa secondaria e
sacrificabile?
Non è certo senza ragione se il comunicato di Napolitano si apre proprio sul tema della stabilità del governo, rivendicata come il bene supremo della nazione, strada senza alternative che non significhino la catastrofe per il Paese. E poiché il sostegno del Pdl è “condicio sine qua non” della sopravvivenza dell’esecutivo Letta, ecco che il Presidente fa balenare la possibilità – non la certezza, è vero, ma la possibilità sì – che l’eventuale richiesta di grazia, ove fosse presentata, sarebbe esaminata con il massimo scrupolo “nel rispetto delle leggi vigenti”, per valutare se ricorrano, nel caso in esame, gli estremi di “un atto di clemenza individuale”.
Si tratta di quell’aberrante “do ut des” di cui Salvatore Settis ha giustamente scritto ieri tutto il male possibile sulle colonne di Repubblica: un sistema di condizionamenti e di ricatti incrociati che devasta lo stato di diritto e rende la politica ostaggio delle camarille più pericolose. Non passa giorno che Berlusconi e i suoi non gridino ai quattro venti che non è condannabile (e, in realtà, neppure processabile), di qualunque reato si sia reso responsabile, un uomo che alle elezioni raccoglie otto milioni di voti. E’ in linguaggio intrinsecamente eversivo. In sostanza, essi pongono il caimano al di sopra della legge. E lui si sente a tal punto invesito di questa immunità da autoproclamarsi innocente, scomunicando la magistratura che si è resa responsabile di un simile misfatto.
Quest’uomo, che dovrà fra breve affrontare altri cinque processi vorrebbe ora sottrarsi alle conseguenze della condanna che gli è stata comminata ed ottenere da Napolitano quel salvacondotto che per altra via sa di non poter ottenere.
Se questo dovesse malauguratamente avvenire, qualunque mascheratura, qualunque acrobazia paragiuridica inventino i legulei di palazzo, dello stato di diritto e della Repubblica democratica non resterebbe più in piedi un solo muro portante.
Non è certo senza ragione se il comunicato di Napolitano si apre proprio sul tema della stabilità del governo, rivendicata come il bene supremo della nazione, strada senza alternative che non significhino la catastrofe per il Paese. E poiché il sostegno del Pdl è “condicio sine qua non” della sopravvivenza dell’esecutivo Letta, ecco che il Presidente fa balenare la possibilità – non la certezza, è vero, ma la possibilità sì – che l’eventuale richiesta di grazia, ove fosse presentata, sarebbe esaminata con il massimo scrupolo “nel rispetto delle leggi vigenti”, per valutare se ricorrano, nel caso in esame, gli estremi di “un atto di clemenza individuale”.
Si tratta di quell’aberrante “do ut des” di cui Salvatore Settis ha giustamente scritto ieri tutto il male possibile sulle colonne di Repubblica: un sistema di condizionamenti e di ricatti incrociati che devasta lo stato di diritto e rende la politica ostaggio delle camarille più pericolose. Non passa giorno che Berlusconi e i suoi non gridino ai quattro venti che non è condannabile (e, in realtà, neppure processabile), di qualunque reato si sia reso responsabile, un uomo che alle elezioni raccoglie otto milioni di voti. E’ in linguaggio intrinsecamente eversivo. In sostanza, essi pongono il caimano al di sopra della legge. E lui si sente a tal punto invesito di questa immunità da autoproclamarsi innocente, scomunicando la magistratura che si è resa responsabile di un simile misfatto.
Quest’uomo, che dovrà fra breve affrontare altri cinque processi vorrebbe ora sottrarsi alle conseguenze della condanna che gli è stata comminata ed ottenere da Napolitano quel salvacondotto che per altra via sa di non poter ottenere.
Se questo dovesse malauguratamente avvenire, qualunque mascheratura, qualunque acrobazia paragiuridica inventino i legulei di palazzo, dello stato di diritto e della Repubblica democratica non resterebbe più in piedi un solo muro portante.
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