La Transatlantic Trade and Investment Partnership (meglio nota col
brutto acronimo di TTIP), ossia l’accordo Usa-Ue per l’integrale
liberalizzazione dei loro rispettivi mercati, è un importante punto di
svolta (o, se si vuole, di accelerazione) nella storia sociale
dell’Europa e quindi dell’Italia. E ciò per due ordini di motivi.
Prima di tutto perché l’accordo mira all’eliminazione delle barriere
commerciali non tariffarie, ossia di tutte quelle norme di tutela
ambientale, sanitaria e sociale che limitando il libero traffico dei
prodotti nocivi, delle informazioni riservate e dei servizi equivalgono,
secondo l’Economist, a dazi multipli rispetto a quelli attuali e,
secondo noi, alla tenuta di un minimo di civiltà nella gestione
dell’economia europea. Una volta conclusi i negoziati, la TTIP renderà
più “accettabili” gli OGM e le emissioni inquinanti, sfalderà la tutela
delle filiere agroalimentari (con grave danno per le produzioni
italiane), ingloberà le nostre vite nei computer della CIA, limiterà
seriamente il raggio d’azione delle imprese pubbliche, e quindi di ogni
politica industriale. E molto probabilmente condurrà alla
privatizzazione integrale dei servizi pubblici. In ogni caso la TTIP
accentuerà, come tutti i processi di libero scambio, la concentrazione
della potenza produttiva e tecnologica nei poli dominanti, la
divaricazione fra nazioni dentro l’Unione Europea, e l’uso di questa
divaricazione per approfondire le differenze di classe: ossia quello che
è da tempo il “core business” dell’ Unione stessa. Tutto ciò renderà
scarsamente rilevanti per le classi e per i Paesi deboli gli incrementi
del PIL che (anche se non nella misura strombazzata dai gazzettieri
pro-market) deriveranno dall’attuazione della TTIP: perché questi
incrementi avverranno nel contesto di un peggioramento dei rapporti
sociali e geopolitici e delle condizioni della stessa politica
“spicciola”. Infatti chi proverà a contrastare questo andazzo verrà
rimandato non solo da Roma a Bruxelles, ma anche da Bruxelles a
Washington: con tanti saluti all’ Europa “sociale”.
Ma c’è di più: dopo il trattato di partnership transpacifica, che tenta
di costruire una zona di libero mercato tra quasi tutti i Paesi
dell’area, Cina esclusa, la TTIP è la seconda mossa della strategia di
accerchiamento (oggi economico, domani militare) della Cina e dei Brics
da parte degli Usa. Essa infatti sancisce la fine della globalizzazione
perché registra il fallimento dei trattati multilaterali e punta sui
trattati bilaterali, ossia sulla costruzione di poli economici ad
egemonia occidentale che mentre liberalizzano gli scambi al proprio
interno, ostacolano i flussi provenienti dall’esterno, ossia dai Brics. E
perché, unita al rimpatrio di molti capitali ed alle continue
svalutazioni competitive, riporta al centro della scena il conflitto tra
poli economico-politici, mandando definitivamente in archivio, tra
l’altro, la possibilità della “globalizzazione dal basso”. Quando
scriveva che “non si fa una guerra senza acronimi” il grande romanziere
Don De Lillo non pensava certo alla futura TTIP, ma noi siamo tenuti a
capire che quest’ultimo acronimo è il primo passo di una guerra
economica che tenderà a trasformarsi in un conflitto militare.
Come reagire a questa prospettiva? A mio parere bisogna schierarsi
decisamente contro la costruzione di un polo anti-Brics, puntare ad un
Europa che sia almeno “terza forza” tra Usa e Brics, e non agente dei
primi, unire le esigenze di sopravvivenza dei Paesi e delle classi
deboli d’Europa alle esigenze generali della pace e della gestione
razionale dei conflitti. Ma per farlo bisogna capire che un’Europa di
pace nasce solo sulle ceneri dell’attuale Unione Europea, che
quest’ultima è un vettore decisivo della TTIP e che non si può
combattere contro questa accentuazione del neoliberismo se non si
disarticola (come da tempo ci chiede Samir Amin) il sistema di potere di
Bruxelles e Francoforte, iniziando col rivendicare la sovranità
nazionale e costruendo, su questa base, una nuova Europa confederale.
Questo è il punto decisivo del momento, e rispetto ad esso la stessa
sacrosanta battaglia contro l’Euro appare come una questione tattica, di
notevole importanza ma non certo risolutiva.
Come affrontare tutto ciò è questione aperta, che può essere affrontata
solo da una libera ed ampia discussione collettiva. Ma il presupposto di
tale discussione è il riconoscere che la rottura dell’Unione Europea è
il nostro problema storico: se non lo si affronta rischia di essere
inutile tutta la discussione intorno al nuovo soggetto politico di
sinistra e comunista: nella misera periferia italiana della zona
transatlantica di libero scambio (ma forse nell’intera Europa) la
politica diventerebbe inutile, e la costruzione di un partito
equivarrebbe più o meno alla creazione di un meritorio ma innocuo
movimento d’opinione.
P.S. Dimenticavo: i negoziati della TTIP dovrebbero concludersi nel
novembre 2014. Per bene che ci vada, il tutto inizierà a marciare a metà
del 2015, ossia dopodomani. Che si fa?
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