mercoledì 7 agosto 2013

Berco, da una parte sola della fabbrica di Marco Zavagli, Il Fatto Quotidiano

Io ho conosciuto uomini straordinari. Uomini e donne. Tutti in una volta. Prima di quel venerdì notte li leggevo. Leggevo quello che altri – politici e sindacalisti – raccontavano al posto loro. Poi ho voluto conoscerli e sentire le loro voci.
Da tre giorni e tre notti stavano presidiando la loro fabbrica. La loro fabbrica è in via Primo Maggio. Giornata simbolo del lavoro. La loro fabbrica è il simbolo del lavoro nel loro paese, Copparo. Per un secolo, da quando nel 1918 “tre signori del posto decidono di avviare un’officina meccanica nel centrale Viale Carducci”, la Berco è stata il loro Primo Maggio. Poi, d’improvviso, ma non tanto, scoprono che la Berco non li vuole più. Non tutti, ma più di 400 ora sono di troppo. Ora sono esuberi.
Nel 2008, quando iniziò la cassa integrazione, prima ordinaria e poi speciale, erano 2500. Ora, dopo cinque anni di scioperi, manifestazioni, disillusioni, sono rimasti meno di duemila. Qual è il numero giusto? Io intendevo i dipendenti attuali. “Non c’è un numero giusto, o tutti o nessuno”. Pensavano volessi sapere la cifra degli esuberi. E la loro risposta sembrava un verso di Brecht
Nessuno o tuttio tutti o niente. Non si può salvarsi da sé. O i fucilio le catene. Nessuno o tutti o tutto o niente
Ora non ci sono tutti al presidio. “Altri lottano da casa, dalla tastiera del computer” ghigna Michele. C’è la diffidenza iniziale verso chi in mano ha una penna e non una bandiera. Chi ha una penna e non una bandiera non viene da cinque anni di sacrifici, di stipendio ridotto, di viaggi estenuanti in Germania per vedere negli occhi i manager della Thyssenkrupp, coloro che hanno deciso che più di 400 bandiere sono troppe. “Ora dobbiamo pagare noi per le loro scelte sbagliate”. È vero, le linee produttive in Usa e Brasile sono state un fallimento. Anche il ciclo continuo inserito nella Berco di Copparo lo è stato. E ha portato in pancia alla fabbrica 300 persone in più. Eppure loro, gli operai, lo avevano detto con un referendum interno che quell’operazione non serviva. Ma “ora paghiamo noi”.
Al presidio ci sono donne e bambini. C’è un calcino, qualcuno rincorre un pallone. Ci sono le carte da gioco. “Se giocano non si accorgono quando scendono le lacrime sul viso dei loro genitori”. Molti dei loro genitori si sono conosciuti lì, in fabbrica. Altri si sono sposati perché uno di loro è stato assunto. Se lo ricorda Margherita quel 3 gennaio del 1994. “Avevo 26 anni e a Michele arrivò la notizia. Il futuro per noi era spianato. Ricordo che andammo in banca a chiedere il mutuo. Io sono dipendente statale, lui lavora in Berco. Ci chiesero semplicemente ‘quanto vi serve’”. Poi nel 2008 iniziò la crisi. La prima cosa che fece Michele fu prendere un diploma di pizzaiolo. Dal 2008 i cassetti delle pizzerie dei dintorni sono pieni di curricula di dipendenti Berco.
Margherita mi mostra le bandiere che sventolano all’entrata. Il giorno prima c’era quella della Thyssen. Ora c’è la loro. Bianca con la scritta rossa, “La Berco siamo noi”. La si vede in ogni balcone di Copparo e dei paesi vicini. “Noi”. Per essere uno di loro devi meritartelo. Una penna non basta. E nemmeno basta la sportina di cellulari con la quale l’amministratore delegato Lucia Morselli si recava in mensa. Lei, insieme a Franco Tatò, è la nuova guardia chiamata dalla Germania per tagliare le teste. “Quando lei si siede il tavolo si svuota. Andiamo a metterci altrove, lontano”. Non ho nulla contro la Morselli. Fa, ha fatto, il suo mestiere. Rappresenta l’azienda. Ma non sarà mai una di loro. Come non lo sono e non lo saranno i quadri e dirigenti ‘pizzicati’ nella “saletta Berco” di un noto ristornate di Copparo. Per aggirare il presidio si sono presi computer e valigetta e si sono infilati dove credevano di non essere visti. “Io ho pensato che sono persone senza dignità”. Chi lo pensa è in Berco da 25 anni, Roby. Roby a questa fabbrica ha dato “la mia infanzia, ho dato i miei sabati e le mie domeniche. Io ho due figli e una moglie e in famiglia lavoro solo io”. No, quei quadri e dirigenti non saranno mai dei loro.
Lo sono diventati invece i ragazzi del reparto 9/8. “Prima credevano che tutto gli fosse dovuto, vivevano spensierati, si sputtanavano i soldi come dei cazzoni”. Poi è arrivato il 2008 “e le certezze attorno a loro sono crollate – racconta Cimino -. Hanno imparato la parola “esuberi”, hanno acquistato coscienza e hanno incominciato a credere nella nostra lotta. Ora sono i primi a portarla avanti. I primi a guidare i cortei. I primi a incoraggiare noi ‘vecchi’”.
Lotta, si parla di lotta. È lottare dover risparmiare per comprare un paio di scarpe al proprio figlio. È lottare non riuscire a pagare la rata del mutuo. “Attento però – avverte Cimino -, la nostra lotta è sempre stata pacifica, nonostante la situazione critica. Perché la violenza non porta a niente. L’unica violenza che ci permettiamo è quella di alzare la voce”. Ancora Brecht
L’unica usurpazione che concepisco è quella della dolce violenza che la ragione usa agli uomini
Conosco altri “noi”. Conosco Antonio, delegato sindacale, che organizza la spesa. L’aiutano in tanti. Le pizzerie da asporto portano le cene. Spesso gratis. Le aziende del territorio fanno a gara per fornire gazebo, acqua, pane, paste e caffè. Conosco Bubu, al quale oggi vorrei ricordare che aveva ragione a essere ottimista e che ora il sindaco deve offrire da bere a tutti per festeggiare. Conosco Alfredino, che è ormai in pensione ma i suoi compagni no. Conosco Diego, che proietta un video sulla storia della loro lotta. Il filmato termina con una speranza. Che sia l’ultimo video, “perché vorrebbe dire che tutto ha avuto un lieto fine e che tutto questo lo farete vedere ai vostri figli, ai quali dovete dire solo una cosa: che avete lavorato e state lavorando con persone fantastiche”. Conosco Igor, rsu aziendale, un uomo che non si vergogna di piangere: “Quando pensate che la nostra lotta non sia servita a niente sbagliate. Questo presidio finirà solo quando avremo ottenuto ciò che vogliamo. Sono orgoglioso di far parte di questo gruppo”. Sono loro la Berco.
Ora che la loro lotta è finita, che in un modo o nell’altro hanno vinto, a me è rimasta la bandiera. “La Berco siamo noi” è rimasta appesa alla finestra della mia redazione. Ho ricevuto critiche. Non è segno di obiettività. Specialmente in corso di trattativa. Ho risposto che ci sono momenti in cui si può stare da una parte sola.
Se in mano non hai una bandiera ma una penna, la devi reggere con la testa e anche con il cuore. Cervantes diceva che “una penna senza anima è letame”. Io nella vicenda Berco sto da una parte sola.
Sbaglio? Allora voglio iniziare a preparare già il mio prossimo errore.

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