Dovrebbe essere superfluo annotare che lo stato di diritto, in una formazione economico-sociale dominata da rapporti capitalistici di proprietà, diventa concetto alquanto vago, petizione di principio, formula astratta che anela ad un’idea di uguaglianza dei cittadini, negata però dalla materialità dei rapporti sociali e dalla sostanziale asimmetria delle possibilità di ciascuno.
Quando poi la classe dei proprietari (diciamo pure: il capitale) esercita il suo potere in modo diretto e particolarmente dispotico, come accade ai giorni nostri, le garanzie formali, labili per definizione, si liquefano come neve sotto i raggi del sole.
Allora accade che la legge del più forte si manifesti in tutta la sua violenza, senza più paraventi ideologici, senza bisogno di ricorrere a mascheramenti che ne ottundano il carattere prevaricatore. Struttura e sovrastruttura della società, rapporti di produzione e forme della politica, attività culturale e, persino, senso comune e comportamenti individuali tendono ad identificarsi, ad appiattirsi su un piano orizzontale: la classe dominante esercita con pienezza il suo potere, “domina”, appunto, anche quando non sa più “dirigere”, pur nel sopruso esercitato sui molti, di cui riscuote paradossalmente il consenso. E reprime con il massimo della coercizione coloro che (movimenti, partiti, associazioni, singoli individui) trovano ancora la forza e l’indipendenza intellettuale necessarie per opporsi.
Qui la manipolazione della realtà e il rovesciamento della verità toccano vertici assoluti: gli eversori si trasformano in tutori della legalità e coloro che si battono per ottenere un minimo di giustizia o di garanzie democratiche sono messi all’indice e perseguitati come guastatori dell’ordine pubblico.
Niente di nuovo sotto il sole, ovviamente. Ma di questi tempi non è inutile ricordarlo, a beneficio degli smemorati, ai cloroformizzati e a quanti ancora, ormai privi di strumentazione critica, continuano a cadere nella rete.
Oggi, tutta la rappresentanza politica ufficiale, quella che in virtù del consenso elettorale riscosso siede in parlamento, si muove dentro un “range” ben delimitato, dentro un perimetro culturale sostanzialmente omogeneo. Gli elementi costitutivi delle relazioni sociali date rappresentano un patrimonio condiviso. Non di quello si discute nel pur litigiosissimo caravanserraglio della politica nostrana. L’acqua che si pesta in quel mortaio è sempre la stessa. Ne sia prova inconfutabile il fatto che la maggiore e più impegnativa richiesta che il Partito democratico avanza ai propri supposti antagonisti del Popolo della libertà è quello di liberarsi di Berlusconi. Ove questa richiesta fosse accolta, la coalizione bipartisan che ha compiuto il proprio apprendistato sotto la direzione dell’uomo della Trilateral e che ora si è trasformata in governo organico (delle “larghe intese”) potrebbe tranquillamente protrarre il proprio sodalizio ben oltre l’emergenza con la quale aveva giustificato la propria nascita, sotto l’impulso e l’autorevole padrinaggio del presidente della Repubblica.
Il problema delle classi subalterne è che tali sono rimaste (o tornate ad essere), malgrado la crisi di sistema abbia prodotto l’impressionante impoverimento di miliardi di esseri umani in tutto il pianeta ed il contemporaneo arricchimento di un pugno di “proprietari universali.
Alla crisi del paradigma sociale dominante non corrisponde cioè la capacità delle moltitudini che ne pagano drammaticamente il prezzo di immaginare un progetto di società diverso ed una strategia per renderlo credibile e praticabile.
L’articolatissimo mondo del lavoro, dei proletari, di coloro che lungo la catena variegatissima dello sfruttamento offrono le loro braccia senza più lo straccio di un diritto esigibile, è stato messo fuori gioco. A questo risultato il capitale si è dedicato con scrupolo scientifico. Purtroppo, dall’altra parte non si è manifestata un’analoga capacità.
Il carattere inesorabilmente territoriale, nella migliore delle ipotesi nazionale, del movimento dei lavoratori ha inesorabilmente cozzato contro il carattere transnazionale dell’impresa capitalistica e della capacità di essa di muovere istantaneamente enormi risorse finanziarie da paese a paese, eludendo ogni possibilità di risposta e corrompendo i legami di solidarietà fra proletari.
A questo colossale spiazzamento non si è sino ad ora trovata, e forse neppure davvero cercata, una replica efficace. A maggior ragione necessaria di fronte al radicale esproprio di sovranità popolare di Stati e Costituzioni che è il tratto distintivo dell’Europa comunitaria nata e sviluppatasi sotto la stella del finanzcapitalismo, dell’economia di mercato e dell’ideologia liberista.
Del mito dell’Europa, di questa Europa, occorre liberarsi al più presto. E non certo per rinculare dentro pericolose illusioni nazionalistiche. Se si aspira ad un Europa dei popoli, nutrita dalla linfa delle costituzioni antifasciste ed egualitarie, non si può ragionevolmente pensare che questa scaturisca – per una sua naturale evoluzione – da una “correzione” dei difetti che oggi stanno catastroficamente demolendo ogni sistema di protezione sociale e tutti i diritti del lavoro.
Proseguire per questa via significherebbe annichilire la stessa prospettiva di un’Europa unita, perché lì continueranno a prevalere gli interessi più forti, come sempre avviene nei tradizionali conflitti intercapitalistici.
Togliersi dal collo quel nodo scorsoio è divenuta una necessità vitale, per tornare a lottare con convinzione contro poteri dotati di reale giurisdizione. Ed anche per ritessere la tela della solidarietà proletaria, totalmente lacerata e resa ininfluente nel contesto continentale.
Il futuro di una possibile Europa unita, a sovranità popolare, e quello della sinistra, oggi non passano da Bruxelles, tanto meno da Francoforte
Quando poi la classe dei proprietari (diciamo pure: il capitale) esercita il suo potere in modo diretto e particolarmente dispotico, come accade ai giorni nostri, le garanzie formali, labili per definizione, si liquefano come neve sotto i raggi del sole.
Allora accade che la legge del più forte si manifesti in tutta la sua violenza, senza più paraventi ideologici, senza bisogno di ricorrere a mascheramenti che ne ottundano il carattere prevaricatore. Struttura e sovrastruttura della società, rapporti di produzione e forme della politica, attività culturale e, persino, senso comune e comportamenti individuali tendono ad identificarsi, ad appiattirsi su un piano orizzontale: la classe dominante esercita con pienezza il suo potere, “domina”, appunto, anche quando non sa più “dirigere”, pur nel sopruso esercitato sui molti, di cui riscuote paradossalmente il consenso. E reprime con il massimo della coercizione coloro che (movimenti, partiti, associazioni, singoli individui) trovano ancora la forza e l’indipendenza intellettuale necessarie per opporsi.
Qui la manipolazione della realtà e il rovesciamento della verità toccano vertici assoluti: gli eversori si trasformano in tutori della legalità e coloro che si battono per ottenere un minimo di giustizia o di garanzie democratiche sono messi all’indice e perseguitati come guastatori dell’ordine pubblico.
Niente di nuovo sotto il sole, ovviamente. Ma di questi tempi non è inutile ricordarlo, a beneficio degli smemorati, ai cloroformizzati e a quanti ancora, ormai privi di strumentazione critica, continuano a cadere nella rete.
Oggi, tutta la rappresentanza politica ufficiale, quella che in virtù del consenso elettorale riscosso siede in parlamento, si muove dentro un “range” ben delimitato, dentro un perimetro culturale sostanzialmente omogeneo. Gli elementi costitutivi delle relazioni sociali date rappresentano un patrimonio condiviso. Non di quello si discute nel pur litigiosissimo caravanserraglio della politica nostrana. L’acqua che si pesta in quel mortaio è sempre la stessa. Ne sia prova inconfutabile il fatto che la maggiore e più impegnativa richiesta che il Partito democratico avanza ai propri supposti antagonisti del Popolo della libertà è quello di liberarsi di Berlusconi. Ove questa richiesta fosse accolta, la coalizione bipartisan che ha compiuto il proprio apprendistato sotto la direzione dell’uomo della Trilateral e che ora si è trasformata in governo organico (delle “larghe intese”) potrebbe tranquillamente protrarre il proprio sodalizio ben oltre l’emergenza con la quale aveva giustificato la propria nascita, sotto l’impulso e l’autorevole padrinaggio del presidente della Repubblica.
Il problema delle classi subalterne è che tali sono rimaste (o tornate ad essere), malgrado la crisi di sistema abbia prodotto l’impressionante impoverimento di miliardi di esseri umani in tutto il pianeta ed il contemporaneo arricchimento di un pugno di “proprietari universali.
Alla crisi del paradigma sociale dominante non corrisponde cioè la capacità delle moltitudini che ne pagano drammaticamente il prezzo di immaginare un progetto di società diverso ed una strategia per renderlo credibile e praticabile.
L’articolatissimo mondo del lavoro, dei proletari, di coloro che lungo la catena variegatissima dello sfruttamento offrono le loro braccia senza più lo straccio di un diritto esigibile, è stato messo fuori gioco. A questo risultato il capitale si è dedicato con scrupolo scientifico. Purtroppo, dall’altra parte non si è manifestata un’analoga capacità.
Il carattere inesorabilmente territoriale, nella migliore delle ipotesi nazionale, del movimento dei lavoratori ha inesorabilmente cozzato contro il carattere transnazionale dell’impresa capitalistica e della capacità di essa di muovere istantaneamente enormi risorse finanziarie da paese a paese, eludendo ogni possibilità di risposta e corrompendo i legami di solidarietà fra proletari.
A questo colossale spiazzamento non si è sino ad ora trovata, e forse neppure davvero cercata, una replica efficace. A maggior ragione necessaria di fronte al radicale esproprio di sovranità popolare di Stati e Costituzioni che è il tratto distintivo dell’Europa comunitaria nata e sviluppatasi sotto la stella del finanzcapitalismo, dell’economia di mercato e dell’ideologia liberista.
Del mito dell’Europa, di questa Europa, occorre liberarsi al più presto. E non certo per rinculare dentro pericolose illusioni nazionalistiche. Se si aspira ad un Europa dei popoli, nutrita dalla linfa delle costituzioni antifasciste ed egualitarie, non si può ragionevolmente pensare che questa scaturisca – per una sua naturale evoluzione – da una “correzione” dei difetti che oggi stanno catastroficamente demolendo ogni sistema di protezione sociale e tutti i diritti del lavoro.
Proseguire per questa via significherebbe annichilire la stessa prospettiva di un’Europa unita, perché lì continueranno a prevalere gli interessi più forti, come sempre avviene nei tradizionali conflitti intercapitalistici.
Togliersi dal collo quel nodo scorsoio è divenuta una necessità vitale, per tornare a lottare con convinzione contro poteri dotati di reale giurisdizione. Ed anche per ritessere la tela della solidarietà proletaria, totalmente lacerata e resa ininfluente nel contesto continentale.
Il futuro di una possibile Europa unita, a sovranità popolare, e quello della sinistra, oggi non passano da Bruxelles, tanto meno da Francoforte
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