giovedì 5 settembre 2013

Mirafiori, Fiom spara a zero contro la Fiat e scopre il giochino di Marchionne di Fabio Sebastiani, Liberazione.it




"Stanno spegnendo giorno per giorno la possibilita' di dare un futuro a Mirafiori". Il leader della Fiom, Maurizio Landini, davanti ai delegati a Torino, critica aspramente gli ultimi annunci su Mirafiori. Annunci, appunto, perché per il momento "ci sono solo dichiarazioni, non ho visto alcun testo, nessun accordo scritto". Il giudizio della Fiom sull’accordo appena siglato tra l’azienda e i sindacati non passa il vaglio dell'analisi concreta. Parte dalla forma ma bada molto anche alla sostanza. E la sostanza è di tutt’altro segno da quello annunciato ai quattro venti dai vertici dell’azienda, da Fim, Fismic, Uilm e Ugl e dalla pletora di amministratori e politici che hanno voluto vedere nel miliardo di investimenti una non meglio precisata “svolta”. Altro che svolta, quindi, "è un atto gravissimo".
A partire dalle ragioni vere che l'hanno mosso. Secondo Landini, Fiat "doveva necessariamente dire qualcosa su Mirafiori ieri in vista della scadenza della cassa integrazione visto che di quello che Marchionne aveva promesso nella trattativa di novembre non ha fatto nulla. L'unica cosa certa che hanno scritto e' che chiederanno la proroga della cig". E "noi non possiamo essere complici di questo", ha aggiunto.
Insomma, se non è una truffa, sicuramente siamo in presenza di un gioco di prestigio, alle spalle dei contribuenti italiani ovviamente. Come dargli torto? Il leader della Fiom elenca uno per uno tutti i punti deboli del quadro messo in campo da Marchionne. Alfa Romeo, "si fa in Italia o no?”, chiede. “Perche' il governo italiano non ne discute. Se ci sara' il rilancio del marchio Alfa, dovra' essere fatto in Itlalia. Letta convochi un tavolo vero di discussione a carte scoperte. Faremo partire oggi questa richiesta scritta al governo", sottolinea la Fiom. Ci fossero numeri si potrebbe ragionare più concretamente, ma la Fiat numeri non ne ha fatti. Ha parlato di un Suv, “ma con un Suv - aggiunge Landini – non si dà lavoro a 5.000 persone”. ''Marchionne tre anni fa diceva che per fare lavorare tutti a Mirafiori - sottolinea Landini - servivano 1.000 auto al giorno, 250-280.000 auto all'anno. Diceva che non poteva perdere mesi a discutere ma in tre anni non ha fatto nulla. Credo che sia impossibile produrre 280.000 suv e venderli". E poi sull'Alfa c'è un mistero da sciogliere: è vero o no, come sostiene la Fim di Torino, che il marchio fa parte della trattativa sul prezzo delle azioni che Fiat dovrà pagare al fondo pensionistico Veba per avere il controllo sociale di Fiat-Chrysler?
In un quadro come questo, il tanto sbandierato rientro in azienda dei delegati della Fiom diventa una vera e propria “fossa dei leoni”. Secondo Landini, sempre per rimanere alla sostanza, “la Fiat si vuole sottrarre all'applicazione della sentenza della Corte Costituzionale cosi' come sta facendo Silvio Berlusconi con quella della Corte di Cassazione”. L'intesa siglata dagli altri sindacati metalmeccanici e da Cisl, Uil e Ugl riconosce sì l'agibilita' sindacale ma solo se si sottoscrive il contratto specifico di lavoro del Gruppo Fiat. Questo passaggio era già scritto in Fabbrica Italia. Ed è stato tranquillamente ribadito in questo frangente, noncuranti delle sentenze della Corte costituzionale. "Le organizzazioni sindacali - è questo il passaggio nella nuova formulazione - si impegnano altresi' a sostenere la validita' in tutte le sedi, finanche giudiziarie, ed a convenire con l'azienda eventuali strumenti pattizi di miglioramento della loro efficacia". Il cosiddetto rientro in aizenda dei delegati si preannuncia come una cosa molto complicata. Il rischio è che ricalchi quanto già accaduto in occasione dei rientri di operai reintegrati dalla sentenza del giudice, come a Melfi, “con il reintegro degli operai, che sono a libro paga della Fiat, ma non possono lavorare”, spiega Landini. La Fiat dirà alla Fiom: " Tu nomina pure le Rsa, ma non ti chiamo al tavolo delle trattative", prevede Landini .
Infine, una battuta sul congresso Cgil, prossimo venturo. Una battuta che definisce in parte la posizione della Fiom nell’ambito della dialettica interna alla confederazione. "Non ce' solo una crisi della rappresentanza politica ma anche di quella sindacale”, dice Landini. “Non abbiamo bisogno di una discussione nelle segrete stanze ma di un confronto aperto in grado di intercettare le nuove esigenze dei lavoratori, come i giovani" ha aggiuntochiedendo che nel congresso vengano coinvolti anche i non iscritti, soprattutto i giovani.


Da fabbrica Italia a fabbriche ferme, dove porta la rottura di Marchionne

di Rinaldo Gianola, da L’Unità

Anche nel 2013 la Nissan di Sunderland in Inghilterra, prima fabbrica «cacciavite» dei giapponesi in Europa, produrrà un numero di auto, oltre mezzo milione, probabilmente più elevato dell’intera produzione di tutti gli impianti Fiat in Italia. La nostra amata Mirafiori, la storica cattedrale dell’industria dell’auto italiana, nel 2012 ha prodotto meno di 50mila auto. I numeri del 2013 è meglio non conoscerli. È vero che Sergio Marchionne non vuole più sentir parlare del piano Fabbrica Italia, quello da venti miliardi di euro di investimenti in quattro anni rimasto solo un’illusione mediatici, però non si può proprio fare a meno di ricordare che secondo quel documento, tanto apprezzato dalla politica, dalle istituzioni, da una parte del sindacato, prima di essere negato dal manager, Mirafiori avrebbe dovuto produrre 300mila auto nel 2014. Invece alle Carrozzerie i 5500 dipendenti vedono la fine della cassa integrazione straordinaria a settembre e non sanno nulla, non hanno notizie di cosa succederà, di quando finalmente arriveranno le nuove produzioni promesse.

TIMORI E INCERTEZZE SUL LAVORO

La paura, l’incertezza del futuro dei lavoratori torinesi sono sensazioni che vivono anche i loro colleghi delle altre fabbriche Fiat, come Cassino, Pomigliano, Melfi. Ed emerge, sempre più, la delusione dei dipendenti della Fiat per aver accettato nel 2010 le condizioni organizzative, contrattuali, le “rotture” imposte di Marchionne, perchè pensavano di poter ottenere un posto sicuro, un futuro sereno, seppur con una compressione dei diritti in fabbrica. Invece, niente. Non ci sono certezze.

La strategia di Marchionne in Italia ha prodotto spaccature e tensioni, ha spostato altrove produzioni annunciate e promesse, ha chiuso fabbriche e interrotto produzioni (Termini Imerese, Irisbus, CNH di Imola) senza che i diversi governi, le istituzioni locali, la politica ponessero dei limiti all’azione di Marchionne. È comprensibile che la missione americana, il controllo di Chrysler, la dura partita coi sindacati Usa per ottenere le loro azioni, l’attenzione e gli investimenti in mercati forti come il Brasile abbiano ridotto l’interesse per l’Italia e l’Europa, anche se le dichiarazioni ufficiali sono sempre state di segno contrario. Ma la strategia del manager del Lingotto in Italia oggi appare più debole, la sua ricetta «innovativa» delle relazioni industriali e dei contratti appare perdente, per non parlare delle quote di mercato in Italia e in Europa. Marchionne non immaginava certo di dover fare i conti con la forza della legge, con le sentenze della Corte Costituzionale che gli hanno imposto di far rientrare in fabbrica i delegati Fiom, discriminati, licenziati, penalizzati per la loro adesione al sindacato dei metalmeccanici della Cgil come avveniva negli anni Cinquanta.

Ora, dopo essersi arreso alla legge, Marchionne rilancia con la solita minaccia di andarsene, di produrre altrove, se non ci sarà una nuova legge sulla rappresentanza, sull’esigibilità dei contratti. I colpi di coda della Fiat determinati dalla sconfitta, davanti alla legge e all’opinione pubblica, potrebbero essere pericolosi.

Per la verità un accordo sulla rappresentanza è già stato definito a maggio da Confindustria e sindacati confederali, ma Marchionne non può accettarlo senza fare un’altra retromarcia clamorosa perché la Fiat, convinta della bontà del suo progetto, ha abbandonato l’organizzazione dell’industria privata e si è costruita un suo modello contrattuale, tutto particolare, che però, alla prova dei fatti, non funziona. Se la «formula Marchionne» avesse fatto ripartire la produzione delle fabbriche Fiat, se avesse rilanciato l’industria dell’auto italiana (una volta tra le prime nel mondo), magari i lavoratori avrebbero chiuso un occhio. Ma la situazione delle fabbriche italiane è difficile, rimane sull’orlo dell’emergenza, gli investimenti sono insufficienti, non si vedono nuovi modelli e gli ultimi successi, come la 500 e la 500L, arrivano dalla Polonia e dalla Serbia e di quella quota del 30% del mercato italiano dell’auto detenuto dal Lingotto solo una piccola parte, circa un quinto, è rappresentata da auto prodotte realmente in Italia.

C’è la Nuova Panda a Pomigliano d’Arco, ma occupa una sola linea mentre prima per la produzione Alfa Romeo erano attive due linee. Così a Pomigliano, il primo impianto a sperimentare la «formula Marchionne», sono occupati circa 2200 dipendenti, ma altri 2000 restano fuori e non si sa bene che fine faranno con questi chiari di luna. C’è poi la nuova Maserati a Grugliasco, con un migliaio di addetti. Ma mancano nuovi modelli di successo, di massa, da produrre nelle fabbriche italiane, per rinnovare la storia Fiat.

LA LEGGENDA DEL RILANCIO

Il rilancio dell’Alfa Romeo, promesso fin dalle prime mosse di Marchionne al Lingotto, è rimasto solo sulla carta, rinviato di anno in anno, di piano in piano, ma naturalmente sempre con l’obiettivo dichiarato di conquistare l’America come ai tempi della Duetto de Il Laureato. L’interesse della Volkswagen per la casa del Biscione è stato sempre respinto da Marchionne, ma forse si potrebbe almeno verificare se i tedeschi hanno qualche solido progetto per rilanciare un pezzo storico dell’industria dell’auto tricolore.

In conclusione l’offensiva di Marchionne per modernizzare l’industria italiana non è riuscita per ora ad assicurare lavoro e produzione, in tre anni siamo passati dal sogno di Fabbrica Italia all’incubo delle fabbriche chiuse. Marchionne e gli eredi Agnelli, i cui interessi sono sempre più lontani dall’Italia e dall’Europa come dimostra il bilancio Exor, non hanno però rinunciato a investire nel Corriere della Sera dove solo saliti fino al 20%. Meglio battere Diego Della Valle in via Solferino piuttosto che privilegiare le vecchie fabbriche di auto. Marchionne, a ben vedere, non è poi così diverso dagli altri epigoni dei salotti.

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