“Socialismo
per ricchi”. Con questa lapidaria battuta il finanziere globale George
Soros definì la risposta dell'Occidente capitalistico all'esplosione
della crisi finanziaria all'indomani del crack di Lehmann Brothers,
quarta banca d'affati degli Stati Uniti e quindi anche del mondo.
“Socialismo”
perché quella strategia – ancora pienamente attuata dalla Federa
Reserve statunitense e da altre banche centrali, solo in parte anche
dalla Bce – prevedeva una montagna di soldi pubblici da riversare sui
“mercati”, anche a costo di scassare definitivamente i bilanci
nazionali. “Per ricchi” perché i destinatari di questa cornucopia
pubblica erano i banchieri, e in primo luogo quelli più ricchi,
importanti, speculativi e indebitati. Una ricompensa, insomma, per chi
aveva interpretato al peggio la stagione della finanziarizzazione
dell'economia globale, segnata dal trasferimento della manifattura nei
paesi “emergenti”.
L'Unione
Europea ha fin qui seguito una strada in parte diversa, caratterizzata
dalla “austerità” teutonica. Non che sia mai mancati gli aiuti a banche e
assicurazioni private, anzi. Specie gli istituti tedeschi, oltre a
quelli inglesi e francesi (i più importanti del Vecchio Continente)
hanno beneficiato alla grande di contributi pubblici, magari sotto forma
di prestiti “garantiti” da titoli-spazzatura.
Ma
la crisi non si è per questo arrestata, solo distribuita in modo
disomogeno sui protagonisti dei mercati finanziari. Ora che la terza
banca italiana – MontePaschi – corre seriamente rischi di fallimento,
nonostante la nomina del “salvatore” Alessandro Profumo al posto
dell'”irresponsabile” Giuseppe Mussari (un pioniere delle “larghe
intese” tra Pd e Pdl in terra toscana e finanziaria) anche l'Unione
Europea ammette il salvataggio con soldi pubblici.
In
pratica, se non interverranno soci privati dotati di ben 12-12 miliardi
di euro, da qui a un anno, l'unica soluzione ammessa sarà l'aborrita nazionalizzazione della banca.
Qui
si misura la follia totale del sistema “europeo” attuale, in mano a un
piccolo branco di servitori del capitale finanziario, politicamente
irresponsabili e privi di qualsiasi legittimazione democratica (nessuno
li ha mai eletti).
Ciò
che viene vietato in modo perenterio e ultimativo per qualsiasi branca
della produzione - la proprietà statale o “pubblica” - è invece
raccomandato nel caso particolarissimo delle banche. Anzi, diventa un
“ordine” cui il singolo Stato nazionale deve piegarsi obbediente.
Basta leggere l'articolo qui di seguito, tratto da La Stampa di
oggi (organo di casa Fiat), per misurare l'imbarazzo complice di
editorialisti alle prese con un rovesciamento assoluto dei criteri
“ideologici” di gestione della crisi.
Per l'Ilva non si deve fare, per una banca sì. Ma nessuno deve provare a spiegare il perché.
*****
“Mps, nuovi soci o nazionalizzazione”
Accordo Almunia-Saccomanni sugli aiuti di Stato alla banca: 12 mesi per un aumento da oltre un miliardo
Gianluca Paolucci
Un aumento di capitale da oltre un miliardo entro 12 mesi
dall’approvazione del nuovo piano oppure la conversione dei Monti bond
in azioni Mps. È una delle condizioni, la più gravosa, dell’accordo
politico raggiunto ieri a Cernobbio tra il ministro del Tesoro Fabrizio
Saccomanni e il commissario Ue alla concorrenza Joaquin Almunia.
La sua conseguenza è, più banalmente, che se non arrivano nuovi soci
di controllo entro 12-14 mesi, in grado di immettere una cifra fino a
due miliardi per rafforzare il capitale del Monte - che oggi ne
capitalizza appena 2,5 -, lo Stato dovrà nazionalizzare l’istituto.
A spiegare le linee guida dell’intesa è stato lo stesso Almunia.
«Come sapete nei mesi scorsi siamo stati in contatto con il Tesoro
italiano per Mps. Abbiamo continuato le nostre conversazioni durante il
mese di agosto. Un accordo molto importante è stato raggiunto nei giorni
scorsi dai nostri uffici e oggi lo abbiamo concluso con Saccomanni», ha
spiegato Almunia nel tardo pomeriggio di ieri. Un accordo «su aumento
di capitale, modello di business, tagli e su cosa fare se il capitale
aumento non funziona», ha continuato il commissario.
Ovvero, chiarisce Almunia, «un aumento di capitale entro 12 mesi più
grande di un miliardo (la cifra contenuta nel piano originario di Mps e
già deliberata dai soci, ndr). Se fallisce dovrà scattare la conversione
in azioni dei Monti bond. Di fatto, un Tesoro italiano con le spalle al
muro e una banca che presumibilmente da domani dovrà iniziare a darsi
da fare per la ricerca dei nuovi azionisti che sottoscriveranno
l’aumento. I tempi: Mps dovrà adesso presentare un nuovo piano di
ristrutturazione che tenga conto dell’intesa di ieri, che il Tesoro
dovrà a sua volta sottoporre a Bruxelles. Una volta esaminato, il piano
diventa effettivo e partono i 12 mesi di tempo. Ragionevolmente, una
procedura che occuperà tra uno e due mesi, ha detto lo stesso Almunia.
L’aumento di capitale non è l’unico punto «sfidante» per i vertici di
Mps. La banca guidata da Fabrizio Viola e Alessandro Profumo dovrà
ridurre il portafoglio di titoli di Stato, oggi pari a circa 29
miliardi. Dovrà agire con più decisione sul taglio dei costi e dei
compensi e dovrà rivedere il proprio modello di business in maniera
profonda.
«Oggi abbiamo trovato l’accordo anche per le cose su cui non c’era
intesa», ha detto Almunia ai giornalisti, ma ancora ci sarebbe spazio
per delle limature. Non a caso i tecnici del ministero che hanno
lavorato in questi mesi sul dossier e lo stesso Saccomanni si sono
incontrati lungamente ieri sera a margine del Workshop Ambrosetti per
definire i termini dell’intesa politica e capire quanti e quali spazi ci
sono per eventuali ammorbidimenti.
I termini dell’intesa non hanno sorpreso i vertici di Mps - Viola era
tra i partecipanti al Workshop di Villa d’Este e ieri sera era alla
cena di gala - che stimavano anzi tempi più lunghi per il via libera. Di
certo l’accordo toglie l’incertezza.
Viola e Profumo erano già al lavoro sulla revisione del piano, con la
previsione di maggiori tagli di dipendenti ma con un nuovo piano di
esuberi e non licenziamenti. Mentre la riduzione del portafoglio di Btp
sarà agevolata dai titoli da portare a scadenza entro 5 anni. Il piano
potrebbe arrivare in consiglio tra fine settembre e metà ottobre. E
l’aumento di capitale era già previsto nel corso del 2014. L’ammontare a
questo punto - salvo «ammorbidimenti» - dovrebbe avvicinarsi ai due
miliardi ipotizzati dalla stampa già nei mesi scorsi. «Mi fa piacere che
l’accordo ci sia - ha detto a caldo Viola -. I contenuti li commenterò
domani».
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