Se è vero che il pericolo di una svolta autoritaria è concreto, è sempre più urgente e necessario moltiplicare gli sforzi per costruire la più vasta unità della sinistra politica e sociale, affinché il disagio dilagante nella società trovi un riferimento, interlocutori credibili, interpreti efficaci. Rivolgiamo questo appello unitario a tutti: alle forze politiche e di movimento, al centro e sui territori
Si
ha l’impressione che, forse per l’inconsapevole timore di guardare in
faccia una realtà inquietante, stentiamo spesso a mettere insieme i
diversi pezzi di analisi di cui, pure, siamo in possesso. Dell’estrema
gravità della situazione sociale causata dalla crisi siamo tutti ben
consapevoli. Meno, forse, dei pericoli che essa comporta.
Limitiamoci a ricordare due sintomi della macelleria sociale in atto: la catena di suicidi di lavoratori rimasti senza lavoro e senza prospettive, e di piccoli imprenditori, strozzati dalla stretta del credito e dalla perdita di commesse; e la cacciata della Fiom dalle fabbriche – segnale di un’autentica regressione protofascista – mentre la ministra del Lavoro insiste (in continuità con il predecessore) sulla necessità di cancellare le garanzie contro i licenziamenti arbitrari.
Ma questa è solo una faccia della medaglia. L’altra – che consideriamo come se si trattasse di un altro pianeta e che è invece strettamente connessa alla prima – è il concreto rischio di una svolta autoritaria. Ci ricordiamo dei rigurgiti populisti e del ribollire di un sottosuolo imbevuto di ignoranza e di odio quando registriamo le sconcezze razziste della Lega di Bossi e Borghezio (e di quel consigliere comunale di Albenga che invoca il ripristino dei forni crematori) e quando le nostre città sono teatro di pogrom o di fatti di sangue, com’è accaduto da ultimo a Torino e a Firenze. Ma questa componente della scenario sociale è un dato strutturale, che minaccia di saldarsi, con effetti disastrosi, alle conseguenze sociali della crisi economica. L’Italia ha una storia inequivocabile, che dovrebbe allarmare, come debbono inquietare i fatti di Ungheria e i sondaggi francesi che documentano un’incalzante espansione del bacino elettorale del Front National.
Quali rischiano di essere le conseguenze politiche dei contraccolpi sociali della crisi? Davvero ci sarebbe da stupirsi se – dato il generale disorientamento politico di massa – emergesse anche da noi la diffusa invocazione di una guida forte, di un salvatore della patria? Quando si è perso tutto, come sta accadendo a tanta gente che resta senza reddito e senza speranze per sé e per la propria famiglia, la partecipazione e la democrazia sembrano inutili lussi. E davvero dovremmo meravigliarci se l’indicazione di colpevoli o nemici interni servisse a convogliare risentimenti diffusi nel sostegno a una svolta autoritaria?
Non solo grave, dunque, ma anche gravida di pericoli è la situazione che si è venuta producendo a seguito della crisi e delle sciagurate politiche praticate dai governi Berlusconi e Monti. Anche in relazione al governo in carica diciamo politica, poiché tale – e pessima – è la scelta di far pagare i costi del malgoverno (neoliberismo, declino industriale, iniquità ed evasione fiscale) e della speculazione finanziaria sempre e soltanto al lavoro, tagliando il welfare e i trasferimenti agli enti locali, e aumentando tariffe, accise e imposte indirette. A dirlo non siamo soltanto noi comunisti, da sempre persuasi che la politica economica sia cosa troppo seria e importante perché la sia abbandoni all’irrazionalità dei «mercati» e la si definisca in base agli interessi – necessariamente di breve – del capitale privato. Fermi atti di accusa contro le politiche rigoriste (leggi: recessive) sono pronunciate ogni giorno da autorevoli voci della cultura borghese democratica e da fior di economisti come Paul Krugman e Joseph Stiglitz.
Proprio Stiglitz qualche giorno fa ha scritto parole inequivocabili in proposito. Se i governi abbandonassero l’ossessione distruttiva per l’«austerità» e affrontassero problemi a lungo termine (politiche ambientali ed equità fiscale) si porrebbero valide premesse per una dinamica espansiva capace di ridurre massicciamente la disoccupazione e di far crescere in misura rilevante la domanda aggregata. Al contrario, le politiche di «risanamento» e pareggio acuiscono la recessione perché ostacolano la crescita, senza la quale la crisi del debito è destinata a inasprirsi. Sono osservazioni di puro buon senso, che auspicheremmo suscitassero anche l’attenzione del nostro presidente della Repubblica, il cui messaggio augurale di fine d’anno ha colpito soprattutto per la sicurezza con cui Napolitano sposa – sino a presentarla come l’unica sensata, anzi come la sola possibile – una opinabile e discussa interpretazione delle cause della crisi e, soprattutto, dei rimedi per superarla.
Ma, a fronte delle responsabilità dei governi (e delle forze politiche che via via li sostengono), risaltano anche quelle della sinistra. Le persistenti divisioni tra le forze organizzate sono un problema che diviene, ogni giorno di più, una colpa grave. Se è vero che il pericolo di una svolta autoritaria è concreto, è sempre più urgente e necessario moltiplicare gli sforzi per costruire la più vasta unità della sinistra politica e sociale, affinché il disagio dilagante nella società trovi un riferimento, interlocutori credibili, interpreti efficaci: insomma, una rappresentanza che non sia quella delle forze che mirano a precipitare il Paese in nuove tragiche avventure!
Rivolgiamo questo appello unitario a tutti i soggetti della sinistra politica e sociale, senza eccezione: alle forze politiche e di movimento, al centro e sui territori. Lo rivolgiamo anche a Sel e a Nichi Vendola, nella cui intervista apparsa su l’Unità di domenica 15 gennaio abbiamo colto un cambiamento di linea nel segno della consapevolezza che il necessario confronto col Pd debba svilupparsi su basi programmatiche avanzate. Ma proprio per questo confessiamo di non comprendere l’unilateralità del suo sguardo e dell’argomentazione. A questo punto l’ostentata omissione della Fds dal quadro degli interlocutori presi in considerazione rischia di apparire una conventio ad excludendum: una riproposizione dell’antico «fattore K», tanto più sconcertante alla luce della biografia politica del presidente della Puglia.
Siamo convinti che non sia questa l’intenzione di Vendola, e che egli sia ben consapevole che oggi ogni sforzo debba mirare all’obiettivo di ricostruire il più ampio schieramento di forze di alternativa. Per questo ci auguriamo che trovi presto l’occasione di tornare sui temi della sua intervista (la necessità che la sinistra non si lasci attrarre nell’orbita di politiche destrorse e, al contrario, operi per un’agenda politica fondata su inderogabili priorità, a cominciare dalla giustizia sociale e dai diritti del lavoro) e di riformulare in termini più inclusivi la propria proposta politica. Le drammatiche conseguenze della crisi aprono profonde crepe nel rapporto di fiducia tra l’elettorato e i partiti che sostengono il governo (la somma degli indecisi e delle astensioni supera ormai la metà del corpo elettorale) e offrono alla sinistra una straordinaria opportunità. Ma è in gioco anche una grande responsabilità, alla quale ciascuno ha l’onere di far fronte.
Limitiamoci a ricordare due sintomi della macelleria sociale in atto: la catena di suicidi di lavoratori rimasti senza lavoro e senza prospettive, e di piccoli imprenditori, strozzati dalla stretta del credito e dalla perdita di commesse; e la cacciata della Fiom dalle fabbriche – segnale di un’autentica regressione protofascista – mentre la ministra del Lavoro insiste (in continuità con il predecessore) sulla necessità di cancellare le garanzie contro i licenziamenti arbitrari.
Ma questa è solo una faccia della medaglia. L’altra – che consideriamo come se si trattasse di un altro pianeta e che è invece strettamente connessa alla prima – è il concreto rischio di una svolta autoritaria. Ci ricordiamo dei rigurgiti populisti e del ribollire di un sottosuolo imbevuto di ignoranza e di odio quando registriamo le sconcezze razziste della Lega di Bossi e Borghezio (e di quel consigliere comunale di Albenga che invoca il ripristino dei forni crematori) e quando le nostre città sono teatro di pogrom o di fatti di sangue, com’è accaduto da ultimo a Torino e a Firenze. Ma questa componente della scenario sociale è un dato strutturale, che minaccia di saldarsi, con effetti disastrosi, alle conseguenze sociali della crisi economica. L’Italia ha una storia inequivocabile, che dovrebbe allarmare, come debbono inquietare i fatti di Ungheria e i sondaggi francesi che documentano un’incalzante espansione del bacino elettorale del Front National.
Quali rischiano di essere le conseguenze politiche dei contraccolpi sociali della crisi? Davvero ci sarebbe da stupirsi se – dato il generale disorientamento politico di massa – emergesse anche da noi la diffusa invocazione di una guida forte, di un salvatore della patria? Quando si è perso tutto, come sta accadendo a tanta gente che resta senza reddito e senza speranze per sé e per la propria famiglia, la partecipazione e la democrazia sembrano inutili lussi. E davvero dovremmo meravigliarci se l’indicazione di colpevoli o nemici interni servisse a convogliare risentimenti diffusi nel sostegno a una svolta autoritaria?
Non solo grave, dunque, ma anche gravida di pericoli è la situazione che si è venuta producendo a seguito della crisi e delle sciagurate politiche praticate dai governi Berlusconi e Monti. Anche in relazione al governo in carica diciamo politica, poiché tale – e pessima – è la scelta di far pagare i costi del malgoverno (neoliberismo, declino industriale, iniquità ed evasione fiscale) e della speculazione finanziaria sempre e soltanto al lavoro, tagliando il welfare e i trasferimenti agli enti locali, e aumentando tariffe, accise e imposte indirette. A dirlo non siamo soltanto noi comunisti, da sempre persuasi che la politica economica sia cosa troppo seria e importante perché la sia abbandoni all’irrazionalità dei «mercati» e la si definisca in base agli interessi – necessariamente di breve – del capitale privato. Fermi atti di accusa contro le politiche rigoriste (leggi: recessive) sono pronunciate ogni giorno da autorevoli voci della cultura borghese democratica e da fior di economisti come Paul Krugman e Joseph Stiglitz.
Proprio Stiglitz qualche giorno fa ha scritto parole inequivocabili in proposito. Se i governi abbandonassero l’ossessione distruttiva per l’«austerità» e affrontassero problemi a lungo termine (politiche ambientali ed equità fiscale) si porrebbero valide premesse per una dinamica espansiva capace di ridurre massicciamente la disoccupazione e di far crescere in misura rilevante la domanda aggregata. Al contrario, le politiche di «risanamento» e pareggio acuiscono la recessione perché ostacolano la crescita, senza la quale la crisi del debito è destinata a inasprirsi. Sono osservazioni di puro buon senso, che auspicheremmo suscitassero anche l’attenzione del nostro presidente della Repubblica, il cui messaggio augurale di fine d’anno ha colpito soprattutto per la sicurezza con cui Napolitano sposa – sino a presentarla come l’unica sensata, anzi come la sola possibile – una opinabile e discussa interpretazione delle cause della crisi e, soprattutto, dei rimedi per superarla.
Ma, a fronte delle responsabilità dei governi (e delle forze politiche che via via li sostengono), risaltano anche quelle della sinistra. Le persistenti divisioni tra le forze organizzate sono un problema che diviene, ogni giorno di più, una colpa grave. Se è vero che il pericolo di una svolta autoritaria è concreto, è sempre più urgente e necessario moltiplicare gli sforzi per costruire la più vasta unità della sinistra politica e sociale, affinché il disagio dilagante nella società trovi un riferimento, interlocutori credibili, interpreti efficaci: insomma, una rappresentanza che non sia quella delle forze che mirano a precipitare il Paese in nuove tragiche avventure!
Rivolgiamo questo appello unitario a tutti i soggetti della sinistra politica e sociale, senza eccezione: alle forze politiche e di movimento, al centro e sui territori. Lo rivolgiamo anche a Sel e a Nichi Vendola, nella cui intervista apparsa su l’Unità di domenica 15 gennaio abbiamo colto un cambiamento di linea nel segno della consapevolezza che il necessario confronto col Pd debba svilupparsi su basi programmatiche avanzate. Ma proprio per questo confessiamo di non comprendere l’unilateralità del suo sguardo e dell’argomentazione. A questo punto l’ostentata omissione della Fds dal quadro degli interlocutori presi in considerazione rischia di apparire una conventio ad excludendum: una riproposizione dell’antico «fattore K», tanto più sconcertante alla luce della biografia politica del presidente della Puglia.
Siamo convinti che non sia questa l’intenzione di Vendola, e che egli sia ben consapevole che oggi ogni sforzo debba mirare all’obiettivo di ricostruire il più ampio schieramento di forze di alternativa. Per questo ci auguriamo che trovi presto l’occasione di tornare sui temi della sua intervista (la necessità che la sinistra non si lasci attrarre nell’orbita di politiche destrorse e, al contrario, operi per un’agenda politica fondata su inderogabili priorità, a cominciare dalla giustizia sociale e dai diritti del lavoro) e di riformulare in termini più inclusivi la propria proposta politica. Le drammatiche conseguenze della crisi aprono profonde crepe nel rapporto di fiducia tra l’elettorato e i partiti che sostengono il governo (la somma degli indecisi e delle astensioni supera ormai la metà del corpo elettorale) e offrono alla sinistra una straordinaria opportunità. Ma è in gioco anche una grande responsabilità, alla quale ciascuno ha l’onere di far fronte.
Claudio Grassi e Alberto Burgio - il manifesto
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