sabato 2 febbraio 2013

I comunisti e la fase attuale: voltare pagina* Andrea Catone intervista Vladimiro Giacchè

Se facciamo il punto sulla situazione economico-sociale del nostro paese a cinque anni dal manifestarsi della grande crisi e dopo un anno di “cura” Monti, osserviamo che l’Italia vive una crisi profondissima, avvitata in una spirale recessiva di cui non si vede per il momento alcun segnale di inversione. Come scrivevi amaramente qualche anno fa, c’è il buio in fondo al tunnel… Quali sono i tratti salienti della crisi, e quali, nel contesto generale, i caratteri specifici della crisi italiana?
Io credo che questa crisi sia realmente un passaggio d’epoca. È finito un modello di crescita che ha sostenuto per oltre 30 anni i profitti (e anche il relativo benessere) dell’Occidente capitalistico, ossia il modello di crescita basato sulla finanza e sul debito (privato e pubblico). La fine di questo modello è stata evidente dapprima negli Stati Uniti, dove la crisi è iniziata di fatto nel 2005-2006 con l’arretramento e poi il crollo dei valori degli immobili (perché la finanza non era più in grado di sopperire alle scarse risorse di chi comprava casa, perlo più lavoratori con un reddito in calo).
Poi, anche se a seguito del crack finanziario su scala mondiale sfiorato tra fine 2008 e 2009, e conseguente congelamento della liquidità su scala mondiale, ha colpito pure l’Europa.
Anche qui, come negli Stati Uniti, si è avuto un gigantesco processo di socializzazione delle perdite. Ma è emerso anche un fenomeno specifico: gli squilibri accumulati entro l’eurozona tra paesi in surplus (essenzialmente la Germania) e paesi in deficit – soprattutto deficit commerciale. È emerso, cioè, che la crescita di questi ultimi paesi dopo la nascita dell’euro era stata comprata a debito. Ossia che i saldi negativi venivano compensati da afflussi di capitali, provenienti soprattutto da Germania e Francia.

Quando, nel 2008, la crisi si allarga all’Europa, questi capitali cominciano ad essere rimpatriati. Da allora ad oggi sono stati rimpatriati più di 300 miliardi di euro sia in Francia che in Germania. È essenzialmente questo il motivo per cui peggiorano le condizioni alle quali i cosiddetti “paesi periferici” dell’Eurozona riescono a procurarsi capitali. Oltre a ciò, la crisi ha tre altri effetti negativi sul debito pubblico dei paesi interessati:
1) i salvataggi di banche e società finanziarie trasferiscono parte del debito privato sul debito pubblico;
2) la crisi riduce le entrate fiscali e quindi peggiora le condizioni della finanza pubblica;
3) il calo del prodotto interno lordo automaticamente peggiora il rapporto debito/pil.
A questo punto interviene la politica europea (alle cui decisioni – vale la pena di ricordarlo sino alla noia a chi, anche in Italia, sta facendo il furbo – concorrono tutti i paesi dell’Eurozona e dell’Unione Europea). Che imbocca con decisione la strada di imporre manovre di austerity insostenibili ai paesi in difficoltà. Si tratta di misure che si rivelano clamorosamente controproducenti, anche dal punto di vista della sostenibilità dei conti pubblici, perché inducono un crollo della domanda e un calo dell’attività economica tali da far crollare anche il gettito fiscale.
Ma non si tratta di follia. La ratio dell’operazione, per quanto riguarda i paesi dell’Eurozona, nasce dalla convinzione che – non potendosi più attuare svalutazioni competitive, poiché non esistono più monete nazionali – l’unico modo è attuare una svalutazione interna, ossia una violenta deflazione salariale, che colpisca salari diretti, indiretti (i servizi sociali) e differiti (le pensioni). Al tempo stesso questa strategia consente di restringere ulteriormente il ruolo del settore pubblico nell’economia, liberando spazi di crescita per i capitali privati (e i relativi profitti) nei settori dai quali lo stato va ritirandosi. Però le imprese private non sono univocamente favorite da questo approccio: infatti le imprese rivolte al mercato interno sono gravemente danneggiate, e spesso costrette alla chiusura o comunque a un forte ridimensionamento dell’attività, dal calo della domanda delle famiglie, che in effetti nel 2012 è crollata in Italia nella misura maggiore conosciuta dal dopoguerra in poi.

Il movimento operaio e le diverse forme e lotte di resistenza alla crisi e alle misure adottate dai governi Berlusconi e Monti, non sono riusciti sinora ad andare al di là di singole lotte, anche dure, ma circoscritte, settorializzate e isolate, o manifestazioni nazionali di protesta simbolica, certo importante, ma non sufficiente a cambiare lo stato di cose presente. Manca ancora, mi sembra, tenuto necessariamente conto del contesto internazionale, l’individuazione di un programma generale concreto, articolato su obiettivi determinati, capace di dare una prospettiva unificante alle opposizioni e alle resistenze sociali. Insomma, sulla base della leniniana analisi concreta della situazione concreta italiana, su quali linee ritieni si possa costruire oggi un programma di politica economica di “transizione” che non si limiti a dire dei sacrosanti NO e a chiedere il ripristino del preesistente stato sociale, ma sia propositivo-costruttivo, in grado di unire e mobilitare un vasto fronte di lotta, in modo da modificare i rapporti di forza?

Oggi stiamo assistendo agli effetti gravissimi della strategia della deflazione salariale e dell’austerity europea sulla nostra economia. E da qui dobbiamo ripartire. Siamo nel mezzo di una crisi che mette in discussione livelli di benessere, diritti sociali e anche democratici che credevamo acquisiti stabilmente.
L’attacco all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori, insieme con l’articolo 8 della legge 148 del 2011 del governo Berlusconi che attacca il contratto nazionale, stanno lì a dimostrarci che nulla di quanto acquisito da decenni e dopo lotte di decenni è ormai al sicuro. Il paese è a un bivio.

Ma questo bivio non è, come ci racconta il pensiero dominante, un’alternativa tra diritti e crescita economica, ma tra maggiore crescita ed equità da un lato, regressione economica e maggiore disuguaglianza dall’altro. Oggi, nella necessaria modernizzazione del paese, crescita ed equità sono termini inscindibili e indissolubilmente intrecciati. Da una parte, chi punta su un aumento del plusvalore assoluto, ponendo il nostro paese direttamente in competizione con i paesi di nuova industrializzazione, in una sorta di marcia del gambero del nostro Paese nella divisione internazionale del lavoro; dall’altra, chi pensa che oggi sia decisivo puntare sul plusvalore relativo, ossia sull’ammodernamento degli impianti (la cui età media in Italia è di 26 anni), sugli investimenti in ricerca e sviluppo tecnologico, e sull’utilizzo del vantaggio competitivo che da tutto questo deriva. Questa è anche la strada maestra per il miglioramento della produttività del lavoro, di cui tanto si parla – ma sempre nella direzione sbagliata, ossia quella di colpire i lavoratori.

Quindi, il primo aspetto su cui fare leva oggi è proprio il nesso tra modernizzazione ed equità sociale. Crescita ed equità sociale non sono in opposizione. È vero il contrario. Le strategie di recupero della competitività attuate comprimendo lavoro e diritti sono storicamente fallimentari. E non solo perché comprimono la domanda (come stiamo osservando in Italia), ma perché non incentivano le imprese a investire in ricerca e tecnologia. L’abolizione della scala mobile, e quello che ne seguì, sono emblematici in tal senso. La Lista Rivoluzione Civile, di cui i comunisti sono parte integrante, è l’unica a porre esplicitamente questo tema al centro della campagna elettorale.


Ritieni quindi giusto - e concretamente possibile - in questa fase lanciare, contro tutte le sirene ideologiche governative e i sindacati da esse ammaliati, una battaglia contro la deflazione salariale, per corposi aumenti dei salari (compreso il salario indiretto e differito)?


Lo ritengo non soltanto giusto, ma necessario. In questo modo si può non soltanto rilanciare in maniera non puramente difensiva la battaglia per i diritti del lavoro, ma anche dialogare in maniera seria con la parte più avanzata della borghesia, che sa che nel plusvalore assoluto non c’è alcuna speranza di riconquistare posizioni nel confronto europeo e mondiale. Per quanto riguarda il tema del salario indiretto e differito, però, questa battaglia deve unirsi a un altro fronte di lotta

Quale?

Quello della lotta per la legalità. Il secondo aspetto cruciale in questa fase storica per il nostro Paese è il problema – serissimo per l’Italia – della legalità e della lotta all’economia criminale e all’illegalità economica. Non si tratta di un problema giudiziario o morale, ma di un problema essenziale per l’equità sociale e per la competitività del nostro sistema. Di un tema centrale per il rilancio dell’economia. Pensiamo a come la criminalità organizzata condizioni la vita economica di alcune nostre regioni e come disincentivi gli investimenti stranieri in Italia. Ma pensiamo all’evasione fiscale, e in particolare alla grande evasione. L’evasione fiscale è al crocevia di problemi fondamentali per il nostro Paese:
a) La sostenibilità della finanza pubblica: i 120 miliardi di euro annui di mancato gettito, pari all’8% del PIL, pesano come un macigno sulle possibilità di un miglioramento della posizione debitoria del nostro paese.

b) L’iniquità sociale, e in particolare la regressività reale del sistema di tassazione italiano. Il fatto che il carico fiscale gravi per il 67% su lavoratori dipendenti e pensionati dice tutto sull’ingiustizia di un sistema in cui la progressività costituzionalmente prevista è stata – molto semplicemente – rovesciata. A questo si può e si deve ovviare con una patrimoniale, ma va detto che la prima patrimoniale in Italia è la lotta all’evasione.

c) Infine, la concorrenza. È evidente la distorsione della concorrenza rappresentata dal fatto che qualcuno possa indebitamente aumentare i propri profitti di quel 30-40% in più equivalente alle tasse dovute ma non pagate.
L’evasione non è un destino. Se si ha l’impressione che lo sia, questo è dovuto unicamente al fatto che essa non è mai stata combattuta sul serio: se i governi di Berlusconi e Tremonti l’hanno direttamente incentivata, il governo Monti è stato efficace più dal punto di vista della comunicazione sul tema (le retate di Cortina, ecc.) che sotto il profilo dell’effettiva attività di accertamento e recupero (e in effetti è stato criticato per l’inefficacia dell’azione in questo campo tanto dalla Commissione Europea quanto dalla Corte dei Conti). Oggi gli strumenti tecnologici per farlo ci sono. Sinora è mancata la volontà politica. E c’è stata, pure a sinistra, una sottovalutazione dell’importanza di questo tema anche dal punto di vista redistributivo e di sostegno ad un welfare che è sempre più chiaramente sotto attacco.

La pesantissima crisi mi sembra stia spingendo a ripensare i dogmi stessi del neoliberismo. La CGIL parla di un “piano del lavoro”. Ritieni concretamente possibile nell’attuale situazione riproporre - anche sulla base della nostra Costituzione - la questione dell’intervento pubblico in economia e della programmazione economica?

Io penso che questo tema, esorcizzato per oltre venti anni, si imponga per così dire naturalmente oggi all’attenzione di chi voglia ricostruire un percorso di progresso civile ed economico in questo paese. Si tratta di una questione molto semplice nella sua formulazione essenziale: riequilibrare il rapporto tra Stato e mercato, ossia tra intervento pubblico in economia e ruolo del settore privato.
Quello che è successo in questi ultimi anni, però, ci allontana dalla soluzione del problema.

In Europa sono stati spesi 4.000 miliardi di euro per salvare le banche e le assicurazioni. Poi si è gridato (come se niente di questo fosse appena accaduto!) allo Stato spendaccione e scialacquatore. E si sono imposte politiche insostenibili di austerity, il taglio alle spese per la sanità, la scuola ecc. (ma ovviamente tenendo ben ferme quelle militari: si pensi al vero e proprio scandalo, condiviso da tutti i principali partiti, dell’acquisto degli F35). In questo modo lo Stato prima fa il donatore di sangue, poi vede compresso all’estremo il proprio ruolo. Va sottolineato che in questo modo si affronta la crisi attuale secondo il paradigma degli anni Novanta (post-crollo del Muro di Berlino, per intendersi).
Ma di mezzo c’è stato il 2007-2009! C’è stato il “salvataggio dei mercati”, come lo definì Bernanke!
E allora anche in questo caso ci troviamo ad un bivio. O accettiamo l’idea che l’intervento dello Stato debba concretarsi sempre e soltanto in una socializzazione delle perdite, per poi ricominciare come prima, col business as usual, oppure dobbiamo voltare pagina. E capire che una forte presenza pubblica nell’economia, a cominciare dalle banche, è un fattore di sviluppo economico – e non un ostacolo allo sviluppo. Le crisi bancarie che dovremo affrontare nel prossimo futuro potranno essere risolte in modo progressivo soltanto così.

Dobbiamo ricostruire un sistema creditizio pubblico a cominciare dal credito agevolato e dal credito per investimenti. Ma è essenziale una presenza pubblica nel sistema bancario anche per quanto riguarda le banche commerciali.


Rispetto alla crisi delle grandi imprese industriali - dall’acciaio alla cantieristica, al carbone, al trasporto - quali proposte a breve-medio termine si possono avanzare?

Lo Stato deve gestire direttamente le crisi industriali, non lavarsene le mani come è successo nel caso dell’Alcoa, o procedendo a soluzioni tampone piuttosto discutibili dopo aver ignorato il problema per anni e anni come nel caso dell’Ilva. Va impedito in tutti i modi lo smantellamento di interi settori industriali in corso a causa della crisi. Lo Stato non può stare a guardare e lasciare che le “forze di mercato” facciano il loro corso. Questo, in una situazione di crisi come l’attuale, significa la legge della giungla, e, in concreto, una distruzione di capacità produttiva difficilmente recuperabile.

Va senz’altro attivato quanto previsto dalla Costituzione, ed in particolare dagli articoli 41 e 43. Li riporto qui perché spesso noi stessi dimentichiamo quali spazi la Costituzione della nostra Repubblica consenta a una soluzione socialmente progressiva dei problemi economici che
dobbiamo affrontare:
Art. 41. L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali.
Art. 43. A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.
Leggendo queste parole, non si può non riflettere su quanto sia arretrato il nostro dibattito politico non soltanto rispetto alla gravità dei problemi che abbiamo di fronte, ma anche rispetto al livello teorico e di consapevolezza politica raggiunto dai Costituenti oltre 60 anni fa.

In effetti, non soltanto in Italia, ma in Europa mi sembra che si stia andando in direzione opposta a questo modo di risolvere i problemi.

Sì e no. Per quanto riguarda l’intervento pubblico, in effetti, la crisi già nella sua prima fase ha rotto il tabù dello “Stato inerte”. Anche se ovviamente questo è servito soltanto a tamponare situazioni di crisi con denaro pubblico. Si tratta in realtà di far prevalere una visione più conseguente dell’intervento pubblico: diretto a organizzare strategicamente le forze economiche. Questo oggi è essenziale sotto ogni profilo: da quel lo sociale a quello ambientale. E faccio presente che anche l’obiezione più comune a questo genere di considerazioni è assai debole: di regola si fa infatti riferimento al fatto che la “classe politica” è inadeguata e simili. Però a nessuno verrebbe in mente di usare l’evidente incapacità di Marchionne e della Fiat dei nostri anni di costruire modelli competitivi per negare in radice la possibilità che un’impresa privata possa funzionare. Insomma, si torna sempre al punto di partenza: la forza perdurante di posizioni ideologiche che non reggono, però, al confronto con i fatti.

Il discorso principale che deve essere fatto sull’Europa – e di critica a questa Europa – è quello che riguarda il “Fiscal Compact” e più in generale l’impalcatura istituzionale con cui si è preteso di risolvere questa crisi. Deve essere riaffermato con forza che l’Europa dei mercati e della competitività basata sul dumping fiscale e sociale ha fallito, e che è necessario ed urgente un cambiamento di rotta. È qui che deve radicarsi la critica alle politiche di austerity sin qui condotte: ingiuste, classiste, economicamente controproducenti per il nostro e per molti altri paesi, e in tal modo tali da accrescere, e non ridurre, gli squilibri in Europa.

A differenza di quanto spesso viene ripetuto, le politiche di austerity non sono servite neppure a migliorare l’andamento dei nostri titoli di Stato (e dello stesso ormai famoso
“spread”), che in questi mesi non sono mai stati legati a misure di austerity, bensì a interventi della Banca Centrale Europea che hanno allontanato (provvisoriamente) la prospettiva di un’implosione dell’area valutaria dell’euro.

Non stupisce, da questo punto di vista, che una parte importante dei mercati finanziari (ossia di chi opera sui mercati) abbia da subito indicato l’austerity come un grave errore. Lo hanno fatto economisti del calibro di Krugman e Stiglitz, e negli ultimi mesi – ravvedendosi – lo ha fatto persino il Fondo Monetario Internazionale. A questo si lega l’ultimo aspetto che tengo a sottolineare, perché – ancora una volta – si tratta di qualcosa su cui soltanto la Lista Rivoluzione Civile sta dicendo parole chiare ed oneste. Il “Fiscal Compact” è una sciagura per il nostro Paese e va assolutamente rinegoziato. È stato un gravissimo errore approvarlo (lo ha fatto il governo Berlusconi) ed è stato del pari grave votarne i contenuti in Parlamento come è stato fatto sotto il governo Monti da PD, UDC e PDL. Non si può pensare di uscire dalla crisi attuale, esacerbata dalle misure
di austerity messe in atto da entrambi gli ultimi governi sulla base dei diktat europei (da quei governi co-determinati e condivisi), senza rinegoziare le clausole del “Fiscal Compact”, a cominciare da quella che impone la riduzione della parte di debito pubblico che eccede il 60 % del pil nella misura di un 5% annuo. Una rinegoziazione è oggi più facile di ieri, perché minore è il consenso internazionale su queste misure, perché la crisi nei paesi in cui sono state applicate si è aggravata, e anche perché la stessa Germania sta avviandosi verso una recessione causata precisamente dal calo delle esportazioni nei confronti dei paesi colpiti da quelle misure.

In ogni modo, chi oggi non si batte per questo, chi oggi non dice chiaramente agli elettori che questo deve essere un obiettivo prioritario per uscire dalla crisi, non soltanto ripropone una politica fallimentare, ma inganna i suoi elettori facendo promesse che alla prima prova dei fatti si riveleranno insostenibili.
*L'intervista è pubblicata come editoriale nel n. 1/2013 di MarxVentuno rivista comunista.
Vladimiro Giacché è autore di Titanic Europa e candidato alla Camera per Rivoluzione Civile nei collegi di Toscana, Campania 1, Lombardia 2

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