Pubblichiamo questa lunga e stimolante riflessione sulla forma partito di Josep Maria Antentas, professore di sociologia alla Università autonoma di Barcelona (UAB) e membro del Consiglio consultivo della rivista "Viento Sur", dell'area politica Anticapitalistas interna a Podemos. L'articolo è uscito sull'ultimo numero della rivista, che potete consultare qui
1. Partito-movimento. Dopo decenni di crisi delle forze politiche della sinistra e di rifugio nei movimenti sociali, l’attuale rinascita della battaglia politico-elettorale e di nuovi strumenti politici si dà sotto il segno della necessità di ripensare e di rinnovare la nozione stessa di partito. Frutto di un lungo arretramento della sinistra politica dalla fine degli anni Settanta in poi, la (diseguale) crisi dei partiti è stata di contenuto (programma), di forma (organizzazione) e di pratica. In sintesi una crisi di progetto, di senso e di strategia. L’eterno risorgere della “questione del partito” nasconde precisamente una discussione più ampia sulla strategia politica, la natura della lotta e la relazione tra il politico e il sociale.
La nozione di partito-movimento riassume bene la vocazione di intraprendere un rinnovamento movimentista del partito, con una certa analogia con il concetto del sindacalismo movimentista (social movement unionism) sviluppato nel mondo anglosassone rispetto ai sindacati. Utilizzato in ambito accademico da Kitschelt (2006) per riferirsi ai partiti antiautoritari e verdi emersi negli anni Ottanta in vari Paesi europei, il termine può essere formulato in un senso più ampio. Applicato al dibattito dentro Podemos mostra la pretesa di continuità politico-simbolica tra un movimento di contestazione globale come il 15M e Podemos in uno scenario di crisi di legittimità dell’insieme del sistema politico dello Stato spagnolo che mette sul tavolo la necessità di sviluppare, in termini gramsciani, un progetto contro-egemonico e non solo un’espressione politica alternativa.
In questo contesto un partito-movimento assume vari significati simultanei: partito come un movimento (con tratti movimentisti), in movimento (orientato all’azione e in continua trasformazione), parte del movimento (che sta nelle lotte sociali e in un tessuto sociale più ampio), e debitore del movimento (ispirato da un evento politico-sociale fondante, il 15M). La debitocrazia movimentista presuppone un partito indebitato con il movimento (e con l’evento) che, per restargli fedele, deve pensare oltre il movimento e oltre i propri limiti per sviluppare tutte le sue possibilità. Questo esclude sia la santificazione beata del movimento quanto la sua strumentalizzazione grossolana a fini elettorali.
Benché i movimenti (in realtà le organizzazioni) sociali riproducono molti dei problemi comunemente associati ai partiti, la proclamazione di una pretesa movimentista è un intento di andare al di là della politica partitica convenzionale e, allo stesso tempo di collocarsi, a mò di inizio, in una prospettiva di cambiamento dal basso, parafrasando la classica formula di Draper (1966).
2. Partito-stratega. Un partito orientato a una politica di emancipazione deve concepirsi come un “partito-stratega”, riprendendo il termine di Daniel Bensaid (2010). Un partito-movimento-stratega. Affrontare la realtà strategicamente è una precondizione per la vittoria, anche se non è una garanzia. Pianificare una strategia non equivale a dire che questa sia corretta. O che sia utile per la causa dell’emancipazione. O applicarla in modo che sia tatticamente giusta. O disporre dei rapporti di forza che ne permettano il trionfo. Ma pensare strategicamente è il primo passo. “Non c’è vittoria senza strategia”, ricorda di nuovo Bensaid (2004: p.463).
Lo sguardo strategico al mondo è, pertanto, un punto di partenza che non assicura che si arrivi a destinazione, ma almeno permette di cominciare ad orientarsi. Si realizza agendo in base a ipotesi di lavoro, a piste provvisorie per l’azione politica che dovranno essere confrontate e passare la prova di una pratica mai definitiva. Nell’era del GPS, siamo costretti a riconoscere che nella strategia politica navighiamo ancora con l’astrolabio. La politica dell’astrolabio assume che la lotta politica non funziona né con certezze immaginarie né con improvvisazioni senza fondamento, bensì tentando approssimazioni tanto rigorose quanto flessibili a una realtà cangiante la cui complessità sfugge a una comprensione perfetta. L’incertezza del risultato della propria azione diviene così parte intrinseca di ogni pensiero strategico. “Nella lotta rivoluzionaria non ci sono garanzie anticipate” allertava Trotsky nel 1934 scrivendo sulla Francia.
Il culmine di ogni pensiero strategico è lo sviluppo di ciò che abbiamo chiamato immaginazione strategica, facendo eco in qualche modo alla nota “immaginazione sociologica” di Wright Mills (1999). Definita come la vivida coscienza della relazione tra l’esperienza e l’insieme della società”, l’immaginazione sociologica richiede quindi uno sguardo aperto e spregiudicato alla società. L’immaginazione strategica necessita di una mentalità simile. Suppone l’attitudine e la capacità di pensare strategicamente da un punto di vista autoriflessivo, permanentemente innovatore, e con un indomabile e insaziabile volontà di ricerca di possibilità inedite per trasformare il mondo. Così concepita la strategia della rivoluzione è anche una rivoluzione della strategia. Comporta una prospettiva spazio-temporale ampia, cioè allo stesso tempo storica e geografica, in cui tirare le lezioni pertinenti delle esperienze, fallite o riuscite, passate o contemporanee, è sempre una base fondamentale nell’apprendimento strategico e nell’ampliamento delle frontiere dell’immaginazione. E' qui che si custodiscono breve e lungo termine, esperienza concreta e conoscenza comparata.
3. Strategia integrale. Una forza politica deve operare in molteplici dimensioni, tante quante ne presenta la vita sociale stessa. Per cambiare il mondo ci vuole un “lavoro quotidiano su tutti i terreni” riprendendo un’espressione di Lenin (1920). Nessun angolo vi sfugge. Né politico, né economico, né ideologico. Nessun aspetto può rimanere trascurato. Tutti i dettagli contano. Tutti i lati sono importanti per non lasciare nessun punto strategicamente cieco da dove possano affiorare vulnerabilità impreviste e lentezza nei riflessi.
Un progetto politico di emancipazione richiede fondamentalmente ciò che chiameremo una strategia integrale, per analogia con il concetto gramsciano di Stato integrale, che Gramsci (2009: p.325 3 214) sintetizzò nelle formule “Stato nel significato integrale: dittatura più egemonia” e “Stato = società politica + società civile, cioè egemonia corazzata di coercizione”. Non è questo il luogo per discutere le virtù e i problemi della concezione gramsciana dello Stato né le controversie interpretative sulla sua opera. Semplicemente conviene ricordare, seguendo Thomas (2010: p.137) che con la concezione di Stato integrale Gramsci cercava di analizzare “l’interpenetrazione e il mutuo rafforzamento tra “società politica” e “società civile” (che si distinguono l’una dall’altra metodologicamente ma non organicamente) dentro una forma di stato unificato (e indivisibile)”. Lo Stato integrale allora disegna “un’unità dialettica dei momenti della società civile e della società politica” in cui si combatte su tutti i terreni nel quadro di una strategia unificata e indivisibile.
4. Ritmi variabili del tempo e scala mobile degli spazi. Ogni strategia integrale contiene la sfida di governare in modo pertinente il tempo e lo spazio. Due variabili in cui opera inevitabilmente qualsiasi politica e che sono permanentemente ridefinite dalla logica dello sviluppo capitalistico (Harvey, 1996).
L’attività politica, come ogni processo sociale, non ha un carattere lineare. Svilupparsi strategicamente implica comprendere ciò che potremmo chiamare i ritmi variabili del tempo. Il tempo politico è “un tempo rotto” e “pieno di nodi e di trappole, di accelerazioni repentine e di frenate sofferte, di salti in avanti e di salti indietro, di sincopi e di contrattempi” nell’espressione di Bensaid (2008: 274). Saper sempre cambiare il ritmo diventa allora la chiave di un buon pensiero strategico e di una buona esecuzione tattica. Né sprint corto e veloce, né maratona a ritmo lento, la lotta politica sembra piuttosto una corsa cross-country, su un terreno irregolare pieno di dislivelli, fango e pozzanghere, che costringe a un cambio costante di ritmo insieme a una buona capacità di endurance, in cui corto, medio e lungo termine sono sempre sovrapposti. E’ da qui che viene la metafora bensaidiana del partito come “cambio di velocità” (Bensaid, 2010: p.158).
A mo’ di scorciatoia attraverso lo spazio e il tempo, le crisi aprono fori che permettono di arrivare dove prima sembrava impossibile. Ogni partito (o organizzazione), se non comprende la natura di una situazione di crisi, rischia di entrare in un processo di routine strategica che diventa un vera zombificazione strategica quando lo scarto tra la sua teoria e la sua pratica da una parte e i cambi bruschi del mondo reale dall’altra si ampliano senza soluzione. Business as usual ad mortem. Le crisi comportano una crisi di strategia e la necessità di una strategia di crisi. Leggere le mutazioni brusche della situazione per rivoluzionarla e destabilizzare l’avversario è, in tempi di crisi, un elemento fondamentale. E’ proprio in questo che è consistito il lancio di Podemos che come un lampo, “l’immagine dialettica” per antonomasia secondo Benjamin (2013: p.762) ha scosso il panorama politico dello Stato spagnolo. Benjamin stesso (2016: p.764) captava bene la combinazione tra crisi e temporalità rotta quando scrisse: “La catastrofe: il fatto di aver sprecato l’occasione”.
Il dominio dello spazio è l’altra parte di ogni strategia politica anche se, come rimarcava Harvey (1989), spesso tende a rimanere dimenticato, come riflesso delle stesse pratiche sociali che condussero alla sua subordinazione rispetto al tempo. Vera sfida, lo spazio si è dimostrato sempre scivoloso per il movimento operaio e i movimenti popolari, sempre più a loro agio, come ci indica di nuovo Harvey (2003), nel controllo del posto che dello spazio. Il concetto di scala mobile degli spazi, avanzato da Bensaid (2009) affronta strategicamente la molteplicità di livelli di scala dello spazio politico ai tempi del capitalismo globale. “Esercitarsi in una palestra strategica che permette di intervenire simultaneamente a vari livelli” (Bensaid 2009: p.262) è un modo per evitare i localismi senza uscita, i potenti ripiegamenti nazional-statali e gli internazionalismi astratti e sradicati.
5. Stato e (contro)poteri sociali. Dispiegare una strategia integrale suppone sintetizzare adeguatamente la relazione tra il politico e il sociale, in modo da “politicizzare il sociale e socializzare il politico” (prendo la formula di un intervento orale di Miguel Romero in una giornata di dibattito a Barcellona nel 2002). Non ogni politicizzazione del sociale né ogni socializzazione del politico serve, ma bensì quelle che cercano di rompere con lo sfruttamento e l’oppressione e di tessere alleanze tra i subalterni di ogni condizione in base a una cultura di lotta e di conflitto antagonista.
Il politico e il sociale funzionano con logiche specifiche. Tra i due esiste una de-sincronizzazione, uno scarto e un cammino pieno di buche, curve e biforcazioni, che segnala una relazione caotica e tormentosa, con sbocchi esplosivi. Come insisteva tanto Bensaid (2009 e 2010) il politico non è un mero riflesso meccanico del sociale ma possiede i propri codici, ritmi e linguaggi. Questo non equivale però a postulare una relazione contingente tra il politico e il sociale, in cui il primo sarebbe costruito quasi indipendentemente dal secondo sulla scia dell’approccio del segretario politico di Podemos, Inigo Errejon. Un determinato processo sociale apre molteplici e contrapposte possibilità politiche, la cui materializzazione non è garantita in anticipo. E’ qui che interviene l’opera della strategia. Però questa non opera in un ambito politico isolato, ma su un terreno politico che interagisce con il sociale e su un terreno sociale che interagisce con il politico.
L’articolazione strategica tra il politico e il sociale necessita di una buona comprensione della natura dello Stato per poter definire una relazione con esso, in particolare nella sua accezione ristretta di tessuto istituzionale, che schivi il grande problema dei partiti politici (e di altre organizzazioni come quelle sindacali) del secolo scorso e di adesso: la loro integrazione istituzionale, che assume lo Stato come leva fondamentale per cambiare il mondo. L'illusione opposta, quella di una esternità pura rispetto allo Stato, sia nella sua versione anarchica che autonoma, inverte semplicemente il problema senza risolverlo. Né un estremo né l’altro, “la politica degli oppressi”, ricorda Bensaid, “deve mantenersi a prudente distanza dallo Stato. Ma questa distanza continua ad essere una relazione, non un’esternità o una indifferenza assolute.” (2009: p.345)
Tessere una solida rete di poteri alternativi, come un sistema di fortificazioni proprie che certificano la conquista provvisoria di posizioni su un terreno ostile, è fondamentale per avere un appoggio per qualsiasi assalto elettorale al potere politico e per implementare una politica di trasformazione una volta ottenuta una qualche responsabilità di governo (locale, regionale, o nazional-statale). “La classe operaia non può limitarsi semplicemente a prendere in possesso la macchina dello Stato così com’è, e a servirsene per i propri fini” constatava Marx (1871) nel suo bilancio della Comune di Parigi.
6. Radicalità e realtà. Un programma e una strategia rivoluzionari e emancipatori partono dall’esigenza di radicalità e dall’obiettivo di raggiungerla. Ispirandoci a Marx possiamo intendere “radicalità” in un doppio senso complementare. Il primo è la sua conosciuta affermazione che “essere radicale è prendere la cosa alla sua radice” (Marx 2014 (1844)-p.60) e quindi andare oltre la superficie. Il secondo è quello della “critica spietata di tutto l’esistente”, usando la formula che utilizza in una lettera a Arnold Ruge, in cui difende come compito del momento “la critica spietata di tutto l’esistente, spietata tanto nel senso di non temere i risultati ai quali conduca quanto di non temere il conflitto con coloro che detengono il potere” (Marx 1843).
Questo contrasta con l’asseverazione del segretario generale di Podemos che la radicalità in politica si misura dalla radicalità dei risultati, non dai principi. (Iglesias 2014: p.29). Anche se contiene una parte di verità, opponendo la radicalità dei principi a quella dei risultati egli dimentica che senza i primi (“la critica spietata dell’esistente”), con ogni probabilità i secondi saranno magri. Senza la radicalità dei principi non ci sarà la radicalità dei risultati.”Bisogna sempre cercare di essere tanto radicale quanto la realtà”, consigliava Lenin al giovane poeta rumeno Valeriu Marcu (Marcu 1943) in una conversazione durante la guerra mondiale. E’ allora che i risultati possono essere all’altezza delle esigenze stesse della realtà.
7. Transizione e orizzonte regolatore. Ogni partito per l'emancipazione ha bisogno di un “orizzonte regolatore”. Averlo è strategico e ogni strategia lo richiede. “Orizzonte strategico regolatore”, così sintetizza l’equazione Bensaid (1997: p.291). Questo concetto, se si coniuga in chiave di cambio sociale radicale, si posa su due gambe: la nozione della rivoluzione o della rottura e l’idea-forza di un altro modello di società. Ossia rispettivamente il come e il cosa. Un orizzonte regolatore che si appoggia solo su una delle due gambe, perché è carente dell’altra o perché è mal definito, zoppica politicamente. Sbagliare cammino e/o meta equivale a perdersi in qualche momento del tragitto.
Questo doppio orizzonte regolatore è oggi scomparso dall’immaginario politico-strategico dei partiti del “cambio”. Insieme a esso sparisce la nozione stessa di transizione. Non c’è una prospettiva di transizione né nel senso di una definizione programmatica che cerchi, nel percorso verso il potere, di connettere le rivendicazioni quotidiane con lo sguardo verso un’altra società, né nel senso di intraprendere, una volta conquistato il potere, la ripida strada della trasformazione sociale in direzione di un altro modello. Il “cambio” rimane allora impreciso nei suoi obiettivi e diffuso nel suo itinerario.
Di fronte a questo, ci si pongono due compiti.
Primo, sviluppare un programma adeguato alla radicalità della realtà. Non affrontare i nodi gordiani del cambiamento del mondo, come se non esistessero, non elimina il problema. Non è il programma che fa la realtà ma la realtà che fa il programma.
Secondo, riabilitare l’idea stessa dell’”alternativa”, che “un altro mondo è possibile”. Qui il lavoro si colloca a più livelli: programmatico, culturale, di mobilitazione e di pratica. Immaginare le cose in un altro modo, contribuire con piccole esperienze così come vengono e ottenere vittorie che aumentano le aspettative, sono modi per rendere credibile l’idea che il mondo possa effettivamente diventare differente. L’utopia ha un lascito ambiguo, constata Jameson (2009: p.8), per chi in un contesto di crisi della prospettiva socialista, comunista o dell’orizzonte rivoluzionario, “non ha alternativa all’utopia”. La sfida consiste, aggiungeremmo noi, nella capacità di sintetizzare l’immaginazione utopica e la strategia, di rendere strategica l’utopia per trascenderne i limiti, a partire dalle sue possibilità.
8. Democrazia e militanza. Condizione necessaria, ma non sufficiente, la democrazia interna è imprescindibile per arrivare a destinazione e non vedere l’orizzonte dell’emancipazione sabotato dal gremlin burocratico la cui crescita è strettamente legata alla caduta della mobilitazione sociale e all’istituzionalizzazione di qualsiasi partito. Implica la formazione di uno strato (“casta”?) interno con interessi parzialmente differenziati a quelli dei militanti e l’autonomizzazione dell’apparato. “Il problema della burocrazia nel movimento operaio si pone, nella sua forma più immediata, come il problema dell’apparato delle organizzazioni operaie”, ricordava Mandel (1969) a suo tempo. Presente in qualsiasi fase della lotta, l’ombra sinistra della burocrazia si amplifica quando si accede a responsabilità di governo che fanno scattare quello che Rakovski (1928), commentando la degenerazione del partito comunista nell’Urss, chiamava “i pericoli professionali del potere”. Ai quali bisogna contrapporre una strategia antiburocratica anticipatoria.
La democrazia nell’organizzazione e l’esorcismo della burocrazia hanno bisogno non solo di una cultura di partecipazione e del controllo della direzione e degli incarichi, ma anche di una lotta senza sosta contro la divisione sociale e sessuale del lavoro e contro ogni tipo di disuguaglianza presente nella società che penetra inevitabilmente in ogni organizzazione. Il vecchio mondo si incrosta sempre in tutte le germinazioni del nuovo, che siano strumenti di lotta o esperimenti di cambiamento. Nello stesso tempo la democrazia presuppone saper gestire la contraddizione irrimediabile tra le esigenze della temporalità esterna, incalzante e piena d’urgenze, e di quella interna, contraddistinta dai ritmi lenti della discussione e della deliberazione. Il tempo rotto e sincopato della politica entra in tensione con quello della democrazia e dell’ingranaggio organizzativo. La militanza della democrazia è l’altra faccia della democrazia della militanza.
La democrazia implica centralizzazione o decentralizzazione politico-organizzativa? Un eccesso della prima comporta vari problemi: concentra il potere in poche mani; induce a errori o semplicemente al “sacrificio” di interessi locali o regionali a favore di necessità generali; e asfissia il potenziale dei quadri locali e regionali, il cui destino dipende dalla direzione centrale onnipotente. Troppa decentralizzazione invece, crea contrattempi opposti: diluisce il senso stesso del partito e indebolisce la sua capacità di intervento in momenti decisivi; propizia dinamiche centrifughe; facilita, come ricorda Martin (2016), la creazione di feudi e di meccanismi autoritari mascherati da una retorica basista-assemblearista. Né un estremo né l’altro, la formula algebrica utilizzata da Daniel Bensaid (1981: p.281) di “tanta decentralizzazione quanto possibile, tanta centralizzazione quanto necessaria” sembra un buon modo per orientarsi dialetticamente in questo campo.
9. Militanza e vita. Trasformare il mondo è un compito militante. Rivendicare la militanza è imprescindibile di fronte ad ogni intento di trasformare l’impegno politico in un attivismo narcisistico à la carte o, peggio ancora, in una questione di carrierismo professionale a la Podemos. All’opposto di un partito elettorale-professionale dall’affiliazione passiva, nella sua versione tradizionale socialdemocratica o in quella populista elettronico-plebiscitaria, ogni partito per l'emancipazione deve essere un’organizzazione militante. Ma con una concezione della militanza priva di ogni feticismo dalle connotazioni quasi militari o di devozione religiosa. L’immaginazione strategica militante-vitale suppone saper gestire l’irrisolvibile tensione tra gli imperativi della vita politica, la sua dinamica assorbente e le sue responsabilità infinite e le altre sfere dell’esistenza, per evitare sia le discriminazioni fondate su genere, età e professione, di chi dispone di meno tempo per fare politica,... sia un certo isolamento attivista rispetto alla società.
La politica militante non è per gli eroi “ma per la gente comune, ribelle, di strada“ poiché “una rivoluzione può solo trionfare se la capisce e la fa propria la gente comune”, ricordava Miguel Romero (2010: p.87). Questo vuol dire che la militanza e la politica devono essere in permanente relazione con gli altri aspetti della vita che formano anch'essi parte della lotta politica ma hanno una loro logica e entità proprie, a maggior ragione in un periodo di precarizzazione degli itinerari biografici e di individualizzazione sociale. “La politica rivoluzionaria” deve dunque essere una passione, ma non deve essere l’unica” (2010: p.87). La passione per la politica è anche passione per la vita. La vita della militanza è la militanza della vita. “Trasformare il mondo, diceva Marx, trasformare la vita, diceva Rimbaud: questi due slogan sono uno solo per noi” proclamava André Breton nel suo discorso al Congresso degli Scrittori per la libertà e la cultura in giugno 1935 (1973: p.126). Fusione di prospettive politico-vitali quindi.
10. La legge della vita. “Il dovere di un rivoluzionario è sempre la lotta, la lotta fino all’estinzione” scrisse nella sua Istruzione per una presa d'armi Augusto Blanqui, emblema del movimento operaio novecentesco e “la cui voce di bronzo scosse il XIX secolo” ricordò Benjamin (2003 (1940): p.126) nelle sue Tesi. La lotta quindi. Ma pensata strategicamente e concepita a partire da una visione globale dell’esistenza e in intima relazione con essa. Se no rischia di finire per essere il frutto di un impegno militante tanto lodevole quanto sterile, tanto epico quanto insostenibile, tanto coraggioso quanto povero di sfaccettature.
Lottare e farlo a tutto campo. “La lotta” è ciò a cui allude Marx in quella che è la sua ultima intervista conosciuta, realizzata in settembre 1880 dal giornalista del New York Sun, John Swinton. Swinton spiega che, durante la conversazione, gli fece una domanda rispetto alla suprema legge dell’esistenza, alla quale Marx rispose solennemente: “la lotta”. Swinton aggiunge che all’inizio credeva di aver sentito l’eco della disperazione; però per fortuna, era la legge della vita.
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