GRAMSCI E
L'UNIONE EUROPEA:
"esiste oggi una coscienza culturale
europea ed esiste
una serie di
manifestazioni di intellettuali e uomini
politici che sostengono
la necessità di
una unione europea: si può anche
dire che il processo storico
tende a
questa unione e che esistono molte
forze materiali che solo in questa
unione potranno svilupparsi: se
ra X anni questa unione sarà
realizzata la
parola «nazionalismo»
avrà lo stesso valore archeologico
che l’attuale
«municipalismo»"
(Quaderni del carcere, p. 748).
Sollecitato al dibattito da un mio caro amico, dico la mia qua
brevemente (rinviando una trattazione più sostanziosa in altre sedi e
con altre forme) su un tema molto caro oggi al composito e
contraddittorio movimento sovranista italiano, all’interno del quale
l’eclettica interpretazione di Gramsci di Diego Fusaro trova un certo
diritto di cittadinanza: la convinzione di poter risolvere molti degli
attuali propri problemi attraverso il protezionismo e la semplice
riaffermazione della propria sovranità nazionale minacciata.
Una risposta comprensibile, visti gli effetti sismici di questa
lunghissima “crisi organica” ancora in corso, ma appena una pia
illusione astrattamente politica, che poco tiene conto di come è
strutturata l’economia mondiale di oggi, tanto più per un Paese come il
nostro, storicamente privo di materie prime.
Tutta questa enfasi sulle
relazioni commerciali, prescindendo dal modello di sviluppo, dal come,
perché e per chi produrre quanto meno insospettisce. La stessa
strumentalità dei liberisti globalisti di moda qualche anno fa sembra
riemergere oggi, con un segno opposto e speculare ma con la stessa
struttura ideologica. Pensare di risolvere l’attuale crisi mondiale con
il protezionismo o rilanciando il liberoscambio, tralasciando la
centralità del conflitto capitale lavoro e mantenendo immutati gli
attuali rapporti sociali di produzione e (soprattutto) distribuzione
della ricchezza è segno o di superficialità o, in alcuni attori sociali,
di malafede. L’unica alternativa valida alle contraddizioni del
capitalismo resta il socialismo. In quanto tale, non è progressivo né il
protezionismo né il liberoscambismo.
Oltre a questo penso ci sia una buona dose di smemoratezza o poca
conoscenza di cosa ha rappresentato il protezionismo nella storia
d’Italia, al punto da attribuirgli potenzialità taumaturgiche e
progressive. In questa contraddizione vedo una parte delle
incomprensioni di Fusaro sull’eredità del pensiero gramsciano, dalla
quale deriva la sua aspirazione a far cadere ogni barriera tra fascismo e
anti-imperialismo servendosi proprio di Gramsci.
In tutta Europa (dalla
Grecia alla Francia, dall’Est europeo alla Germania) abbiamo la
riemersione di gruppi che si richiamano in forme larvate, dissimulate o
palesi al fascismo (con una forza elettorale inedita rispetto a tutto il
dopoguerra), capaci di conquistare consensi crescenti nelle periferie,
tra i lavoratori e i ceti popolari, eppure per alcuni il tema
dell’antifascismo sarebbe chincaglieria da museo non al passo con i
tempi. Anzi, secondo loro bisognerebbe chiedere ai rappresentanti di
questi movimenti di appoggiare la clava per discutere assieme di
anticapitalismo e sovranità nazionale. Di fronte a questo analfabetismo
politico di ritorno, alimentato ad arte dall’ambiguità di chi continua
ad ammiccare a quel mondo, per fare da ponte con l’altro, “mettere i
puntini sulle i” non è esercizio sterile.
Gramsci criticò sempre duramente il protezionismo, perché dietro
intravvedeva la moneta di scambio e il fondamento organico su cui si
reggeva il Blocco storico tra la borghesia industriale del Nord e i ceti
arretrati della proprietà terriera del Sud, con tutte le sue forme
insane di dominio e sfruttamento inumano della miseria agraria. Gli
equilibri passivi e conservatori dell’Italia, dall’Unità sino al
fascismo, si basavano proprio su questa santa alleanza parassitaria tra
le classi dirigenti nazionali responsabile del drenaggio permanente di
quote enormi di ricchezza prodotta per sostenere intere stratificazioni
di classi improduttive.
Nelle note su “Americanismo e Fordismo” Gramsci
descrive l’essenza della società meridionale proprio per la
sopravvivenza di classi generate dalla ricchezza e complessità della
storia passata, che aveva lasciato un mucchio di sedimentazioni passive
attraverso i fenomeni di saturazione e fossilizzazione del personale
statale e degli intellettuali, del clero e della proprietà terriera, del
commercio di rapina e dell’esercito
Il compromesso tra industriali e agrari, reso possibile dal
protezionismo, attribuiva alle masse lavoratrici del Mezzogiorno la
stessa posizione delle popolazioni coloniali; per esse il Nord
industrializzato era come la metropoli capitalistica per la colonia; le
classi dirigenti del Sud (grandi proprietari e media borghesia)
svolgevano la stesa funzione delle categorie sociali delle colonie
alleate con i coloni per mantenere la massa del popolo soggetta al
proprio sfruttamento. Tuttavia, nella prospettiva storica, questo
sistema di compromesso si rivelò inefficace perché si risolveva in un
ostacolo allo sviluppo dell’economia industriale e di quell’agraria. Ciò
ha determinato in diverse fasi livelli molto acuti di lotta tra le
classi e quindi la pressione sempre più forte ed autoritaria dello Stato
sulle masse.
L’egemonia del Nord sul Sud, si legge nel Quaderno 1,
avrebbe potuto assolvere una funzione positiva e progressiva se
l’industrialismo si fosse posto l’obiettivo di ampliare la sua base di
nuovi quadri, incorporando, non dominando, le nuove zone economiche
assimilate. In tal senso l’egemonia del Nord sarebbe stata espressione
di «una lotta tra il vecchio e il nuovo, tra il progressivo e
l’arretrato, tra il più produttivo e il meno produttivo». Una dinamica
di questo tipo avrebbe potuto innescare o favorire una rivoluzione
economica con carattere nazionale, al contrario l’egemonia non ebbe
carattere inclusivo, ossia finalizzata a far venir meno quella
distinzione, ma «permanente», «perpetua», nel senso di reggersi su
un’idea di sviluppo diseguale tale da rendere la debolezza del Sud un
fattore, indeterminato nel tempo, funzionale alla crescita industriale
del Nord, come se il primo fosse una appendice coloniale del secondo.
Questo vincolo organico, questa alleanza innaturale, impedì la
dialettica (caratteristica delle forme classiche di capitalistico) tra
due classi che non dovrebbero essere permanentemente alleate, ma
contrapposte, salvo congiunture particolari. In Gran Bretagna dalla
dialettica tra industriali e agrari si è originata anche la storia dei
partiti e quella parlamentare. In Italia non esisteva la rotazione su
base parlamentare, la formazione delle classi dirigenti avveniva per
assorbimento e cooptazione fiduciaria, tramite il trasformismo, di
singole personalità negli equilibri passivi del Blocco storico. Ciò per
Gramsci accadde con i democratici mazziniani, durante e dopo il
Risorgimento, quindi si ripeté con i riformisti, il mondo cattolico e
infine con il fascismo.
Per questo, infatti, ciclicamente tutte alle più gravi crisi del
giovane Stato unitario (governo Crispi, crisi di fine secolo, ingresso
nella prima guerra mondiale, avvento del fascismo) si rispondeva
anzitutto con soluzioni extra o antiparlamentari. Senza il
protezionismo, dunque, non si spiega la Questione meridionale, né si
comprendono le forme di assoggettamento coloniale del Nord verso il Sud.
Non casualmente la guerra doganale con la Francia colpì proprio le
realtà più dinamiche, le produzioni più qualificate (non assimilate
quegli equilibri passivi tradizionali e dunque non protette)
dell’economia meridionale. Nella Sardegna, in particolare, il
protezionismo coincise con il crollo del suo sistema bancario, la
creazione dei monopoli caseari, la gestione schiavista e coloniale delle
risorse minerarie. In definitiva, negli degli anni Ottanta e Novanta
dell’Ottocento, nel vivo della guerra commerciale con la Francia, la
regione in cui nacque (1891) e si formò Gramsci, ridusse le proprie
esportazioni del 70% trovandosi in una delle sue fasi storiche di
maggior crisi e miseria (prolungatasi nell’inizio del nuovo secolo).
Senza il protezionismo non si spiega nemmeno la funzione storica del
fascismo: garantire la sopravvivenza di due classi improduttive
altrimenti destinate ad essere spazzate via dallo sviluppo
capitalistico: la piccola borghesia e gli agrari, vera base sociale del
movimento di Mussolini.
Pensiamo veramente che le classi dirigenti di oggi (politica e
imprenditoriale) siano molto più progressive e meno parassitarie
rispetto a quelle di allora, ossia capaci di ragionare come “classe
nazionale”, non incline a lucrare con brama speculativa sulle
opportunità offerte dal protezionismo economico? Guardandomi intorno, io
qualche dubbio lo nutrirei.
Con tutto questo non intendo riaffermare i valori del liberoscambio,
come soluzione rivoluzionaria dei nostri problemi di oggi, ci
mancherebbe, semmai richiamo l’attenzione su quanto, spesso, siano vuote
e poco fondate storicamente alcune parole d’ordine lanciate
strumentalmente in pasto all’opinione pubblica. Presentare il
liberoscambismo o il protezionismo come panacee di ogni male penso sia
illusorio o peggio dettato da malafede. In questo pezzo mi sono limitato
a mostrare cosa ha rappresentato il protezionismo nella storia d’Italia
(secondo Gramsci) in ragione della natura parassitaria delle sue classi
dirigenti, delle forme malsane di sfruttamento della miseria
meridionale, degli equilibri sociali passivi connaturati a questo blocco
sociale.
Il paradigma della globalizzazione, forma recente e moderna di “falsa
coscienza” della borghesia mondiale, ha prodotto in sequenza due
risposte: il movimento “No global”, nella sua fase giovanile; il
“sovranismo”, in quella senile. Al di là delle differenze in termini di
radicalità nei contenuti e nel linguaggio adoperato, entrambe recano al
proprio interno molteplici e contraddittorie influenze, alcune delle
quali riconducibili proprio alla concezione che si vorrebbe contestare.
Anzitutto la professione “anti-ideologica”, l’affermazione perentoria
sul tramonto di ogni vecchia, sorpassata e inattuale contrapposizione
ideologica, la cui traccia originaria è ben riconoscibile proprio nella
fallimentare teoria sulla “fine della storia”. Già quando definiamo non
ideologica la nostra proposta politica, in realtà, stiamo dando corso a
una chiara opera di mistificazione ideologica, tra l’altro per niente
nuova né originale. Anche il primo fascismo si presentò con questa
facciata. Non esiste prospettiva politica a-ideologica, ogni proposta
per quanto confusa e contraddittoria sostiene una concezione più ampia,
tuttavia, senza una visione organica e coerente del mondo non si va da
nessuna parte e, prima o poi, le contraddizioni non risolte o nascoste
sotto il tappeto presentano il conto. Ciò è avvenuto per il movimento No
Global, di cui oggi abbiamo solo un vago ricordo, lo stesso accadrà per
quello sovranista.
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