Dopo 25 anni di precarizzazione del lavoro e bassi salari, aumento della disoccupazione e riduzione dei diritti sociali, crack finanziari e privatizzazioni, il giocattolo si è rotto. Se ne accorgerà la sinistra?
Cos'ha in comune il no alla privatizzazione dell'acqua con la cacciata della Moratti da Palazzo Marino? E il trionfo di De Magistris con la sepoltura del nucleare e del «legittimo impedimento»? È davvero l'antiberlusconismo la cifra della possente sberla inflitta dagli italiani alla cricca governante? Forse è il momento di rompere gli schemi imposti dal discorso neoliberista e di ricominciare - direbbe qualcuno - a «parlare dei rapporti di proprietà».
Partiamo da qualche dato che aggiorna la fotografia del Paese. In tutto il mondo la crisi esplosa tre anni fa morde nella carne viva dei più poveri, costretti a pagare il «risanamento» dei bilanci pubblici dissanguati a beneficio dei privati in bancarotta. La Grecia e il Portogallo rischiano di morire strangolati per mano degli esattori del debito (Commissione europea e Bce) garanti delle banche tedesche, francesi e inglesi.
Cos'ha in comune il no alla privatizzazione dell'acqua con la cacciata della Moratti da Palazzo Marino? E il trionfo di De Magistris con la sepoltura del nucleare e del «legittimo impedimento»? È davvero l'antiberlusconismo la cifra della possente sberla inflitta dagli italiani alla cricca governante? Forse è il momento di rompere gli schemi imposti dal discorso neoliberista e di ricominciare - direbbe qualcuno - a «parlare dei rapporti di proprietà».
Partiamo da qualche dato che aggiorna la fotografia del Paese. In tutto il mondo la crisi esplosa tre anni fa morde nella carne viva dei più poveri, costretti a pagare il «risanamento» dei bilanci pubblici dissanguati a beneficio dei privati in bancarotta. La Grecia e il Portogallo rischiano di morire strangolati per mano degli esattori del debito (Commissione europea e Bce) garanti delle banche tedesche, francesi e inglesi.
Ma in questo panorama l'Italia è un caso a parte. Grazie alle innovazioni della Seconda Repubblica, siamo tra le società più ineguali e ingiuste, un paradiso per ricchi ed evasori fiscali. Negli ultimi quindici anni la distanza tra il reddito medio e quello della metà più povera della popolazione è aumentata dalle nostre parti più che in tutti gli altri Paesi Ocse. I profitti netti delle maggiori imprese sono cresciuti, tra il 1995 e il 2008, del 75,4%. I salari sono precipitati al ventitreesimo posto (su trenta). La Banca d'Italia stima che il 10% più ricco possiede oltre il 45% della ricchezza immobiliare e finanziaria, mentre il 50% più povero deve arrangiarsi con il 9,8%. Intanto l'evasione fiscale (grazie alla rendita immobiliare e al lavoro autonomo) ha superato il 17% del pil (oltre 220 miliardi di euro l'anno). Quanto all'«uomo che ha fottuto un'intera nazione», nel 2010, nel pieno della crisi, ha guadagnato 2 miliardi e mezzo di euro.
A pagare il conto di quest'orgia di iniquità è il lavoro dipendente e precario. Non solo con salari sempre più bassi, anche con il blocco della contrattazione e del turn over (che impedisce anche la stabilizzazione dei precari delle pubbliche amministrazioni) e - indirettamente - con i tagli lineari imposti da Tremonti alla spesa sociale (sanità e assistenza in primis), passata nel giro di tre anni da 2 miliardi e mezzo a poco più di 530 milioni. E non è che l'inizio. Bruxelles esige la riduzione del debito e il pareggio di bilancio nel 2014. Ciò comporterà nuovi esercizi di macelleria sociale, manovre più pesanti che nel '92 e nel '97.
Un discorso a parte merita il settore della formazione, da tutti definito «strategico» salvo poi devastarlo coi tagli più brutali. Per l'istruzione l'Europa spende in media il 5,3% del pil, l'Italia il 4,5 e scenderà al 3,7 nel triennio 2012-14. Ne è conseguita la perdita di oltre 140 mila posti nella scuola pubblica, mentre nell'università si prevede la riduzione del 10% dei docenti di ruolo di qui al 2013. La nostra «classe dirigente» punta alla stabilizzazione del declino. Lavoro dequalificato e sottopagato. Per questo, pur producendo meno laureati di tutti gli altri Paesi europei (Romania esclusa), l'Italia riesce a impiegarne appena sei su dieci (contro la media europea dell'86%).
Ha ragione chi sostiene che oggi la questione sociale coincide in larga misura con la questione giovanile. Ma questo generale processo di regressione non colpisce indiscriminatamente tutte le classi sociali e non configura - come spesso si sostiene - un generico scontro generazionale. Ha un chiaro volto di classe, se è vero che la difficoltà di trovare un impiego corrispondente al proprio livello di istruzione è maggiore nel Mezzogiorno che al centro-nord ed è ovunque inversamente proporzionale al reddito e alla posizione sociale della famiglia di provenienza. Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta i poveri di questo Paese avevano conquistato un importante traguardo di civiltà e di giustizia grazie alla riforma della scuola media, all'innalzamento dell'obbligo scolastico e all'apertura degli accessi all'università. Da vent'anni a questa parte - soprattutto in questi tristi anni nei quali si consuma il livido tramonto della satrapia berlusconiana - è in atto un processo inverso, di spossessamento delle classi lavoratrici. Che si attua non precludendo l'accesso alle scuole e all'università ai figli dei proletari e dei ceti medi impoveriti, ma svuotando di valore sostanziale (in attesa di privarli anche del valore legale) titoli di studio pagati a caro prezzo ma non spendibili sul mercato del lavoro.
Così stanno le cose, in questo desolato paesaggio è maturato lo tsunami elettorale della primavera italiana. Allora non sembra davvero azzardato pensare che a esprimersi nel voto sia stata innanzi tutto la collera popolare, un sentimento di rabbia nei confronti di una realtà percepita come profondamente ingiusta. La «gente» sopporta a lungo, spesso idolatra i potenti assumendoli a modelli, ma prima o poi si sveglia. In questo caso ci sono voluti venticinque anni di «modernità». Venticinque lunghi anni di precarizzazione del lavoro e di bassi salari, di aumento della disoccupazione e di riduzione dei diritti sociali, di grandi crack finanziari e di privatizzazione della ricchezza collettiva. Ma finalmente il giocattolo si è rotto, soprattutto per l'impaziente intransigenza dei giovani. Non è solo questione di numeri. Si può accettare di essere poveri. Si può subire di buon grado anche il peggioramento delle proprie condizioni di vita. Ciò che risulta intollerabile è la mancanza di buone ragioni alle quali imputare disagi e sacrifici. Oggi queste ragioni non sussistono. E i sacrifici hanno il ghigno di Brunetta e Calderoli, di Cicchitto e della Gelmini.
La cifra di questa primavera è la riscoperta dell'uguaglianza. Se non ci si fa più incantare dai piazzisti della libertà e dell'amore, è perché si è scoperto il carico di disprezzo che ispira la loro propaganda. A Napoli, a Milano e nella valanga di sì dei referendum si è espresso il risentimento dei delusi e degli offesi, nobile passione fondativa della democrazia moderna. Si è espressa la collera di chi non trova motivi per sopportare stenti, ansie e soprusi mentre chi ha potere fa i soldi, viola la legge e ostenta arroganza e immoralità.
Ma se questo è vero, a chi è rivolto il messaggio delle urne? Solo a Berlusconi e ai suoi alleati? Se il dominio del mercato ha informato di sé la Costituzione materiale e culturale del Paese per un'intera fase storica, questo non va imputato soltanto alla destra berlusconiana e leghista. Lo si deve in pari misura alla sinistra post-comunista convertitasi alla dogmatica neoliberista. Incompetenza del pubblico, efficienza del privato, concorrenza, equidistanza tra capitale e lavoro: queste parole d'ordine - insieme allo sdoganamento della guerra - hanno segnato anche in Italia l'«eclisse della socialdemocrazia». Chi ha mai sentito i dirigenti politici del Pd in tv parlare di giustizia sociale e di uguaglianza? A quanti amano stare sempre al passo coi tempi sembrano principi arcaici, cari a chi non ha capito che con la caduta del Muro la musica è cambiata per sempre.
Invece la musica torna su motivi classici, ammesso che li avesse davvero accantonati. E a questo punto non ascoltare sarebbe diabolico e doppiamente grave. Non solo puro autolesionismo, spreco di un consenso nuovamente maggioritario nel Paese. Anche irresponsabilità bella e buona. Con i bisogni delle persone non si può giocare, né con la sofferenza, la rabbia e la paura. Se la sinistra prenderà sul serio la lezione di questa straordinaria primavera, la storia italiana cambierà davvero. Altrimenti...
A pagare il conto di quest'orgia di iniquità è il lavoro dipendente e precario. Non solo con salari sempre più bassi, anche con il blocco della contrattazione e del turn over (che impedisce anche la stabilizzazione dei precari delle pubbliche amministrazioni) e - indirettamente - con i tagli lineari imposti da Tremonti alla spesa sociale (sanità e assistenza in primis), passata nel giro di tre anni da 2 miliardi e mezzo a poco più di 530 milioni. E non è che l'inizio. Bruxelles esige la riduzione del debito e il pareggio di bilancio nel 2014. Ciò comporterà nuovi esercizi di macelleria sociale, manovre più pesanti che nel '92 e nel '97.
Un discorso a parte merita il settore della formazione, da tutti definito «strategico» salvo poi devastarlo coi tagli più brutali. Per l'istruzione l'Europa spende in media il 5,3% del pil, l'Italia il 4,5 e scenderà al 3,7 nel triennio 2012-14. Ne è conseguita la perdita di oltre 140 mila posti nella scuola pubblica, mentre nell'università si prevede la riduzione del 10% dei docenti di ruolo di qui al 2013. La nostra «classe dirigente» punta alla stabilizzazione del declino. Lavoro dequalificato e sottopagato. Per questo, pur producendo meno laureati di tutti gli altri Paesi europei (Romania esclusa), l'Italia riesce a impiegarne appena sei su dieci (contro la media europea dell'86%).
Ha ragione chi sostiene che oggi la questione sociale coincide in larga misura con la questione giovanile. Ma questo generale processo di regressione non colpisce indiscriminatamente tutte le classi sociali e non configura - come spesso si sostiene - un generico scontro generazionale. Ha un chiaro volto di classe, se è vero che la difficoltà di trovare un impiego corrispondente al proprio livello di istruzione è maggiore nel Mezzogiorno che al centro-nord ed è ovunque inversamente proporzionale al reddito e alla posizione sociale della famiglia di provenienza. Tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta i poveri di questo Paese avevano conquistato un importante traguardo di civiltà e di giustizia grazie alla riforma della scuola media, all'innalzamento dell'obbligo scolastico e all'apertura degli accessi all'università. Da vent'anni a questa parte - soprattutto in questi tristi anni nei quali si consuma il livido tramonto della satrapia berlusconiana - è in atto un processo inverso, di spossessamento delle classi lavoratrici. Che si attua non precludendo l'accesso alle scuole e all'università ai figli dei proletari e dei ceti medi impoveriti, ma svuotando di valore sostanziale (in attesa di privarli anche del valore legale) titoli di studio pagati a caro prezzo ma non spendibili sul mercato del lavoro.
Così stanno le cose, in questo desolato paesaggio è maturato lo tsunami elettorale della primavera italiana. Allora non sembra davvero azzardato pensare che a esprimersi nel voto sia stata innanzi tutto la collera popolare, un sentimento di rabbia nei confronti di una realtà percepita come profondamente ingiusta. La «gente» sopporta a lungo, spesso idolatra i potenti assumendoli a modelli, ma prima o poi si sveglia. In questo caso ci sono voluti venticinque anni di «modernità». Venticinque lunghi anni di precarizzazione del lavoro e di bassi salari, di aumento della disoccupazione e di riduzione dei diritti sociali, di grandi crack finanziari e di privatizzazione della ricchezza collettiva. Ma finalmente il giocattolo si è rotto, soprattutto per l'impaziente intransigenza dei giovani. Non è solo questione di numeri. Si può accettare di essere poveri. Si può subire di buon grado anche il peggioramento delle proprie condizioni di vita. Ciò che risulta intollerabile è la mancanza di buone ragioni alle quali imputare disagi e sacrifici. Oggi queste ragioni non sussistono. E i sacrifici hanno il ghigno di Brunetta e Calderoli, di Cicchitto e della Gelmini.
La cifra di questa primavera è la riscoperta dell'uguaglianza. Se non ci si fa più incantare dai piazzisti della libertà e dell'amore, è perché si è scoperto il carico di disprezzo che ispira la loro propaganda. A Napoli, a Milano e nella valanga di sì dei referendum si è espresso il risentimento dei delusi e degli offesi, nobile passione fondativa della democrazia moderna. Si è espressa la collera di chi non trova motivi per sopportare stenti, ansie e soprusi mentre chi ha potere fa i soldi, viola la legge e ostenta arroganza e immoralità.
Ma se questo è vero, a chi è rivolto il messaggio delle urne? Solo a Berlusconi e ai suoi alleati? Se il dominio del mercato ha informato di sé la Costituzione materiale e culturale del Paese per un'intera fase storica, questo non va imputato soltanto alla destra berlusconiana e leghista. Lo si deve in pari misura alla sinistra post-comunista convertitasi alla dogmatica neoliberista. Incompetenza del pubblico, efficienza del privato, concorrenza, equidistanza tra capitale e lavoro: queste parole d'ordine - insieme allo sdoganamento della guerra - hanno segnato anche in Italia l'«eclisse della socialdemocrazia». Chi ha mai sentito i dirigenti politici del Pd in tv parlare di giustizia sociale e di uguaglianza? A quanti amano stare sempre al passo coi tempi sembrano principi arcaici, cari a chi non ha capito che con la caduta del Muro la musica è cambiata per sempre.
Invece la musica torna su motivi classici, ammesso che li avesse davvero accantonati. E a questo punto non ascoltare sarebbe diabolico e doppiamente grave. Non solo puro autolesionismo, spreco di un consenso nuovamente maggioritario nel Paese. Anche irresponsabilità bella e buona. Con i bisogni delle persone non si può giocare, né con la sofferenza, la rabbia e la paura. Se la sinistra prenderà sul serio la lezione di questa straordinaria primavera, la storia italiana cambierà davvero. Altrimenti...
Alberto Burgio, Il Manifesto
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