Si potrebbe dire che l'intera vicenda delle relazioni sindacali, e dei rapporti sociali tra lavoratori e impresa capitalista, sia leggibile attraverso la sorte toccata ad una sola parola: esigibilità.
L'esigibilità dei contratti di lavoro è stata rivendicata per un intero periodo storico dai lavoratori e dalle loro organizzazioni nei confronti dell'impresa. La ragione è evidente. Il contratto di lavoro prescriveva un miglioramento delle condizioni di lavoro, di salario e di orario a cui il padronato spesso resisteva alla sua pratica attuazione, sicché l'esigibilità è stata comprensibilmente un'istanza del mondo del lavoro. Questa istanza è stata sempre promossa attraverso un esercizio democratico e partecipato, spesso con la mobilitazione e l'azione sindacale.
Nel nuovo ciclo economico e sociale, in specie nell'era Marchionne, si è consumato il rovesciamento. L'esigibilità è diventata una richiesta padronale. La ragione è altrettanto evidente: nei casi che pretendono di fare scuola e di indicare la tendenza, il nuovo contratto è un contratto in "peius" che peggiora la condizione lavorativa. Perciò è l'impresa a pretenderne l'attuazione incondizionata ed è essa a temere una prevedibile resistenza. Ma cambiando i soggetti protagonisti, cambiano anche i metodi di azione. Se ieri l'esigibilità era rivendicata dai lavoratori con una prassi democratica, oggi l'esigibilità è pretesa dai padroni con una pratica neoautoritaria e con la sospensione della democrazia. La prima e fondamentale ragione per opporsi all'accordo tra Confindustria e Cgil, Cisl e Uil consiste proprio nel constatare come alla sua origine ci sia questo rovesciamento dei rapporti sociali che vorrebbe liberare l'impresa e imprigionare i lavoratori.
E' l'eutanasia del sindacalismo confederale, cooptato in assetto neocorporativo dominato dall'impresa e dal mercato. C'è allora una ragione di classe e una ragione democratica per rifiutare l'accordo. Il vulnus democratico è profondissimo. Richiederebbe l'indignazione di tutti i democratici. O, se il diritto al voto viene negato ai lavoratori in quanto tali, il vulnus è perciò meno grave? Per loro il principio di una testa un voto non vale, essi, come lavoratori, sono condannati ad essere esclusi dalla cittadinanza? Il voto di stato, qui il voto per organizzazione, prende il posto dell'esercizio individuale del voto. Questo accade nella definizione del contratto nazionale di lavoro che pure riguarda, anche individualmente, la lavoratrice e il lavoratore e questo viene sancito da un accordo tra le parti sociali. Non è una ragione sufficiente per indignarsi?
Giovanni Autunno è un suo compagno di lavoro, non è più iscritto al sindacato per una storia di cui non vuol più parlare. Lui sta persino peggio, rispetto alla democrazia, della sua amica Carla. Lui non è neppure considerato. I sindacati a cui non è iscritto firmano il contratto che viene a lui esteso, come un erga omnes, senza che neppure gli si chieda un parere. Pensate che con il sindacato dei consigli, Giovanni non solo votava e il suo voto contava per uno come conta quello dell'iscritto, ma poteva essere eletto delegato ed essere lui, Giovanni, a rappresentare tutti i lavoratori del gruppo, sia che fossero iscritti al sindacato sia che non lo fossero. Quel sindacato aveva l'ambizione di rappresentare tutte le lavoratrici e tutti i lavoratori, senza eccezioni. Questo sindacato, invece, nel timore di non saper dar forza alle ragioni dei lavoratori, accetta di essere legittimato non dai lavoratori, ma dal suo poter fare comunque e sempre l'accordo, tra le parti sociali anche quello richiesto dalle pure ragioni d'impresa. Il sindacato confederale ha deciso di farlo con questo accordo confederale, anche a costo di rinunciare, di fatto, al carattere unificante del contratto nazionale e anche se, per garantire questa scelta, ha dovuto accettare la soppressione della verifica del mandato dei lavoratori a stipulare gli accordi. A completare il quadro c'è l'impegno a non organizzare lo sciopero contro l'accordo, quand'anche un sindacato lo contesti.
Un vecchio riformista ci insegnò, parecchio tempo fa, che alle ingiustizie bisogna ribellarsi. E' un insegnamento ripreso in tante piazze e strade e urne in questa Europa dove sono tornati a spirare venti di democrazia partecipata e di rivolta. La risposta dell'accordo confederale è stata quella della paura di questi venti, è stata quella dell'arroccamento contro la possibilità che essi possano contagiare anche quei luoghi di lavoro, nei quali già si sono viste scelte coraggiose ed efficaci di lavoratori, come a Mirafiori o Pomigliano, e di organizzazioni, come la Fiom. Perciò l'accordo è una prigione, ma la partita resta aperta e comincia dalla democrazia.
Fausto Bertinotti
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