Trent’anni fa, nel luglio del 1981, il segretario del Partito comunista italiano, Enrico Berlinguer, lanciava la “questione morale” come decisiva questione politica e ne faceva l’architrave della “diversità” rispetto alla partitocrazia imperante. Il Pci non lo seguì, tre anni dopo Berlinguer morì drammaticamente e nel 2002, allo scoppio di Mani Pulite, l’ormai ex Pci si mosse in direzione opposta a quella indicata dal suo ultimo vero leader: anziché dare profondità politica alla “rivoluzione della legalità” che l’azione giudiziaria contro Tangentopoli scoperchiava come improcrastinabile, alcuni personaggi ai vertici del partito, tra una “gioiosa macchina da guerra” e un inciucio bicamerale, pensarono bene di inalberare il vessillo del “primato della politica”, guardando con malcelata ostilità alla doverosa azione dei magistrati, e finirono per intralciarla sempre più apertamente, votando infinite leggi bipartisan contro la giustizia, in amorosi sensi col berlusconismo.
Nessuno stupore, perciò, se la questione morale è diventata per il Pd un problema, a causa della corruzione che investe le seconde e terze file delle sue gerarchie. Una questione morale grande come una casa che la nomenklatura di partito nega, ma anche la base “rimuove”. Casa che non scompare e non diventa meno ingombrante accanto ai duecento piani del grattacielo di corruzione e grassazione messo in opera dal regime di Arcore e dai suoi Mackie Messer. Resta anch’essa un abuso grave poiché identici sono i meccanismi che distruggono gli anticorpi della moralità politica, che in democrazia è un dovere e una necessità, non un optional. E con una differenza semplicemente quantitativa rispetto ai miasmi del berlusconismo non si diventa certo alternativa credibile.
Possibile che nel Pd non possa diventare riflesso condizionato il semplicissimo “non rubare”? E automatismo il rompere ogni rapporto con chi, avendo un tenore di vita incompatibile con la dichiarazione dei redditi, non ne sa fornire spiegazione? Possibile che dirigenti navigati e sempre pronti a invocare il “realismo politico” continuino per anni a praticare promiscuità con figuri della P2 e di Tangentopoli? (Per non parlare dell’abrogazione delle province, promessa agli elettori ma contraddetta due giorni fa, perché alle greppie opulente non si vuole rinunciare). La questione morale, trent’anni dopo, è più che mai il banco di prova di una politica democratica. L’unica scelta vincente. Non capirlo è stupidità, come minimo.
BLOG di Paolo Flores d'Arcais
Nessuno stupore, perciò, se la questione morale è diventata per il Pd un problema, a causa della corruzione che investe le seconde e terze file delle sue gerarchie. Una questione morale grande come una casa che la nomenklatura di partito nega, ma anche la base “rimuove”. Casa che non scompare e non diventa meno ingombrante accanto ai duecento piani del grattacielo di corruzione e grassazione messo in opera dal regime di Arcore e dai suoi Mackie Messer. Resta anch’essa un abuso grave poiché identici sono i meccanismi che distruggono gli anticorpi della moralità politica, che in democrazia è un dovere e una necessità, non un optional. E con una differenza semplicemente quantitativa rispetto ai miasmi del berlusconismo non si diventa certo alternativa credibile.
Possibile che nel Pd non possa diventare riflesso condizionato il semplicissimo “non rubare”? E automatismo il rompere ogni rapporto con chi, avendo un tenore di vita incompatibile con la dichiarazione dei redditi, non ne sa fornire spiegazione? Possibile che dirigenti navigati e sempre pronti a invocare il “realismo politico” continuino per anni a praticare promiscuità con figuri della P2 e di Tangentopoli? (Per non parlare dell’abrogazione delle province, promessa agli elettori ma contraddetta due giorni fa, perché alle greppie opulente non si vuole rinunciare). La questione morale, trent’anni dopo, è più che mai il banco di prova di una politica democratica. L’unica scelta vincente. Non capirlo è stupidità, come minimo.
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