di Nicola Melloni
- Negli ultimi anni, un po’ in tutto il mondo, sono tornati alla
ribalta movimenti popolari che puntano, a volte con successo, a volte
meno, a rovesciare tiranni, regimi, e governi. La stampa occidentale –
insieme a gran parte dei politologi e dell’establishment – ha subito
cercato di trovare una matrice comune, rievocando immediatamente l’89 e
la scomparsa dei regimi socialisti. Il sottinteso è che un po’ ovunque i
popoli oppressi, presto o tardi, si ribellano, e che la democrazia –
quella occidentale, ovviamente – è un ideale a cui tutti tendono. In
pratica una rilegittimazione – per mano altrui – di un modello che
l’attuale crisi economica sembra mettere in discussione.La realtà, però,
è assai diversa da quel che traspare sui media. Un po’ per ignoranza e
impreparazione, un po’ per interessi strategici e geopolitici, queste
rivolte sono state descritte, appunto, come democratiche. Rivoluzioni,
addirittura. Si tratta di ben altro.Per prima cosa, non è possibile
generalizzare: l’Egitto è diverso dalla Libia, e la Siria dall’Ucraina,
tanto per fare qualche esempio. L’unica genuina rivoluzione che abbiamo
visto in questi anni è quella di Piazza Tahrir, al Cairo. In quel caso
si trattava davvero di una massa di diseredati, di sconfitti di un
trentennio di regime di Mubarak, uniti a quella parte dell’elite
economica egiziana in difficoltà a seguito delle riforme economiche
neoliberali che hanno aperto il mercato alle multinazionali occidentali.
La richiesta di democrazia delle masse egiziane, però, aveva ben poco a
che fare con la voglia di Occidente, come ci avevano fatto credere in
un primo momento. Il regime dittatoriale di Mubarak è stato sostituito
da un governo filo-islamico, democraticamente eletto. E quando questo è
caduto sotto i colpi dei militari, non si sono sentiti, in Occidente,
gli alti lai di sdegno dei difensori della democrazia. Quella, in fondo,
va bene solo se serve i nostri interessi. La bandiera della libertà è
stata però sventolata in Libia e Siria, due feroci dittature da sempre
non ben viste in Occidente. Peccato che, in questo caso, le rivolte non
avessero nulla, o quasi, di democratico, trattandosi in realtà di
scontri intestini tra diverse fazioni. In Libia, quella che era a tutti
gli effetti una lotta di clan rivali, si è risolta, grazie
all’intervento Occidentale, con la caduta del regime di Gheddafi,
seguita però non certo da una svolta democratica quanto piuttosto dalla
fine dello stato libico, al momento dominato da una guerra per bande, in
una situazione totalmente anarchica. In Siria, dove si era provato a
seguire una linea simile a quella libica, con tanto di intervento
anglo-francese-americano, ci si è poi resi conto che i ribelli
anti-Assad erano egemonizzati da gruppi di estremisti islamici. E dopo
due anni di propaganda pro-democratica, la Siria è sparita da quasi
tutti i media. In Ucraina ed in Venezuela, poi, la situazione è
completamente diversa. Se in Medio-Oriente la lotta della piazza era
comunque contro regimi dittatoriali, i leader di Ucraina e Venezuela son
stati democraticamente eletti. Sì, democraticamente: a Kiev le elezioni
furono giudicate dall’Ocse come democratiche, a Caracas, addirittura,
l’ex presidente americano Jimmy Carter dichiarò che «il processo
elettorale in Venezuela è il migliore del mondo». Nessuno nega i
problemi dei due governi: quello ucraino, sicuramente corrotto e inetto;
ed anche in Venezuela, dove, come in ogni paese in via di sviluppo, le
fratture sociali sono spesso insanabili. In entrambi i casi, però, si
tratta senza dubbio di governi e parlamenti eletti, e le rivolte di
piazza tese a rovesciare il governo non possono certo essere definite
democratiche. In entrambi i casi, però, ci fa comodo definirle in questo
modo perché Maduro e Yanukovich hanno scelto politiche non accomodanti
per l’Occidente. Nessuno, sia chiaro, mette in discussione la libertà di
manifestare delle opposizioni. Bisogna però chiarire bene la
situazione: a Kiev la piazza era dominata da gruppi paramilitari
fascisteggianti che rifiutavano ogni compromesso per ribaltare, con la
violenza, il governo eletto. Addirittura, come risulta da una telefonata
intercettata tra il rappresentante europeo, Lady Ashton, e il ministro
degli esteri estone, i cecchini che sparavano sulla folla – la pistola
fumante contro Yanukovich – sarebbero stati membri dell’opposizione,
incuranti di versare sangue pur di screditare il governo. Una notizia
clamorosa, ma ignorata ad arte dai nostri giornali. In Venezuela,
invece, la protesta dei cosiddetti studenti – in realtà giovani rampolli
dell’alta borghesia, iscritti alle scuole private – è capeggiata da un
golpista, già implicato in un precedente colpo di stato contro Chavez.
Questi sono gli alfieri della democrazia occidentale, tanto osannati
dalle nostre parti.No, non si tratta di rivolte democratiche, ed in
fondo, a noi, nemmeno interessa più di tanto. L’importante è la caduta
di regimi ostili all’Occidente. Se poi ci ritroveremo a fronteggiare
nazionalisti ucraini e jihadisti siriani, poco male, l’orizzonte
temporale della nostra politica estera svanisce ogni giorno al tramonto.
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