Tra le numerose critiche che
abbiamo sollevato al primo decreto Lavoro dell’era Renzi-Poletti ("Diamo
credito a Renzi?" e "Errori
e illusioni della Renzinomics"), vogliamo qui ritornare su una che ci
sembra di particolare rilevanza per i deleteri effetti che la liberalizzazione dei
contratti a termine rischia di produrre nel medio-lungo periodo per l’economia
italiana ed il lavoro in particolare.
Si tratta degli effetti sulla produttività del lavoro. È talmente noto il declino della produttività italiana che sembra quasi inutile ritornarvi, ma siamo costretti a farlo proprio a causa di questo “malefico” decreto.
Guardiamo i grafici che seguono, tratti dal recente volume di Comito, Paci e Travaglini (Un paese in bilico, Ediesse 2014, pp.55-56).
Il primo grafico dipinge in modo impietoso la dinamica della produttività del lavoro italiana negli ultimi trent’anni. Da metà degli anni novanta abbiamo ridotto la crescita della produttività di quattro volte, dall’1,65% allo 0,39%. Un tracollo ben noto per tutti coloro che studiano di produttività, competitività e
salari.
tasso di
accumulazione del capitale, fisico ed immateriale, ovvero il suo tasso di
crescita, si è ridotto di ben otto volte, come la seconda figura accanto
mostra. Siamo passati da una crescita poco sotto il 4%, ad un misero 0,5%, con
una prima fase al 2,6% annuo per poi crollare dagli anni novanta all’1,5%
annuo, prima che la crisi ci portasse al disastro dello 0,5
L’altra faccia della medaglia di queste dinamiche è ben raccontata dal terzo grafico, che rappresenta il tasso di crescita dell’intensità di capitale, ovvero del rapporto capitale/lavoro. Nei trent’anni lo abbiamo dimezzato da una media del 2,1% annuo sino a metà anni novanta, ad un misero 0,96% dei giorni nostri.
Queste dinamiche negative della produttività del lavoro, degli investimenti realizzati dalle imprese, e del rapporto capitale/lavoro, sono poi risultati in un annullamento della
L’altra faccia della medaglia di queste dinamiche è ben raccontata dal terzo grafico, che rappresenta il tasso di crescita dell’intensità di capitale, ovvero del rapporto capitale/lavoro. Nei trent’anni lo abbiamo dimezzato da una media del 2,1% annuo sino a metà anni novanta, ad un misero 0,96% dei giorni nostri.
Queste dinamiche negative della produttività del lavoro, degli investimenti realizzati dalle imprese, e del rapporto capitale/lavoro, sono poi risultati in un annullamento della
crescita della
produttività totale dei fattori, il fattore di avanzamento tecnologico per
eccellenza, che è passata da un modesto 1% annuo nella prima fase, ad un
pressoché 0% nella seconda fase, con un tracollo negativo negli anni della
crisi, come ci racconta il quarto grafico.
Cosa è avvenuto di così eclatante
a cavallo degli anni novanta e successivamente sino ai giorni nostri da indurre
le imprese a smettere di investire sia sulla qualità del lavoro che
sull’avanzamento tecnologico? Tra le tante cose avvenute, due sono quelle per noi
più rilevanti. La moderazione salariale e la flessibilità del mercato del
lavoro.
Nel 1993 è stato firmato dalle parti sociali ed il governo un accordo
importante che ha riformato la contrattazione definendo i due livelli
contrattuali, quello nazionale e quello aziendale o decentrato. Mentre con il
primo si doveva assicurare una dinamica salariale compatibile con la riduzione
dell’inflazione (inflazione programmata), con il secondo si sarebbe dovuto
avviare un percorso virtuoso e partecipativo con i lavoratori per far crescere
assieme produttività e salari reali, innovando in tecnologie, organizzazione
del lavoro e prodotti innovativi. Il governo avrebbe dovuto sostenere questo
cambiamento con politiche macroeconomiche e microeconomiche, politiche per l’innovazione
e politiche industriali.
Sappiamo poi come la storia si è risolta . La moderazione salariale è stata
realizzata, l’inflazione è stata ridotta, l’Italia è rientrata nel parametro tasso d’inflazione
previsto da Maastricht e ciò ci ha permesso di entrare a far parte
dell’Eurozona, anche se con uno “spiacevole” effetto collaterale, ovvero una
perdita di 10 punti percentuali della quota del lavoro sul reddito complessivo,
a vantaggio di profitti e rendite (soprattutto queste).
Anzi, come abbiamo spiegato nel nostro lavoro "Lavoro, contrattazione, Europa"
(Ediesse, 2013), ciò che è avvenuto dagli anni novanta, dalle Legge Treu
“iniziazione alle liberalizzazioni” del 1997 per passare a quella Biagi
“supermarket dei contratti” del 2003 per finire con la contraddittoria Legge
Fornero “buona e cattiva flessibilità” del 2012, è stata una progressiva
deregolamentazione per favorire la flessibilizzazione del mercato del lavoro
che ha avuto proprio l’obiettivo di creare con interventi al margine un mercato
del lavoro duale, quello precario, da affiancare a quello in cui le tutele
sarebbero state poi ridotte in tempi successivi, come in effetti è avvenuto (ad
esempio con l’introduzione dell’art.8, legge 148/2011, e con la quasi
eliminazione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori nel 2012)[1].
Questa “deriva” ha indotto ancor più le imprese ad affidarsi a lavoro precario,
poco retribuito, e poco produttivo, sostituendolo a lavoro stabile, invece di
fare innovazione nei luoghi di lavoro, di investire risorse in ricerca, in
formazione, in capitale umano, supportate da uno Stato che da un lato
deregolamentava il lavoro e dall’altro evitava di assumersi qualsiasi
responsabilità di politica industriale per modificare il nostro apparato
produttivo verso settori a più elevato contenuto tecnologico e di sostenibilità
economica ed ambientale. Non solo, ma ha anche contribuito a spiazzare le
imprese che avrebbero potuto o voluto muoversi su un sentiero innovativo, in
virtù della concorrenza a basso tasso di tutele del lavoro praticate da quelle
che grazie alla flessibilità del lavoro potevano sopravvivere sul mercato.
Crescita annua della produttività del lavoro per ora lavorata, 2000-2012 (Oecd Statistics)
Purtroppo, sembra che chi ci
governa non impari nulla. Cambiano le maggioranze, cambiano i Primi Ministri,
cambiano i Ministri del Lavoro, ma l’unica ricetta a cui questi riescono a
pensare è la “agognata” flessibilità del lavoro. Ora è il turno del duo
Renzi-Poletti, che folgorati sulla via di Damasco, ci raccontano la favola
della “precarietà espansiva”, e ci vendono la loro ricetta da “piazzisti” per
farci credere che con ancora un poco più di flessibilità e semplificazione
delle norme le imprese ricominceranno ad assumere, riconquisteranno
competitività, e faranno magari crescere anche la produttività perché i
lavoratori avranno più certezze di essere stabilizzati, così ci ha narrato
Giuliano Poletti [2].
Il rischio è invece che dopo il declino, questi signori ci conducano
direttamente dentro il baratro. Siamo alla soglia decennale di “zero” crescita
della produttività, un altro passo ed inauguriamo la fase “renzian-polettiana”
di crescita “sotto zero” della produttività. La fase della glaciazione, la
dovremo chiamare.
Post scriptum: Il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ieri al convegno Confindustria a Bari su “Il capitale sociale: la forza del paese” ha esternato: “Il miglioramento della competitività delle imprese passa in misura importante attraverso la valorizzazione e lo sviluppo del capitale umano di cui dispongono, anche in collaborazione con il sistema di istruzione e di ricerca. A questo riguardo, studi della Banca d’Italia mostrano come rapporti di lavoro più stabili possano stimolare l’accumulazione di capitale umano, incentivando i lavoratori ad acquisire competenze specifiche all’attività dell’impresa. Si rafforzerebbero l’intensità dell’attività innovativa e, in ultima istanza, la dinamica della produttività.” (corsivo nostro)
Lo avranno ascoltato in sala i numerosissimi presenti, oppure il vento della flessibilità del lavoro ha portato via le sue parole prima che giungessero alle orecchie degli interessati?
Post scriptum: Il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, ieri al convegno Confindustria a Bari su “Il capitale sociale: la forza del paese” ha esternato: “Il miglioramento della competitività delle imprese passa in misura importante attraverso la valorizzazione e lo sviluppo del capitale umano di cui dispongono, anche in collaborazione con il sistema di istruzione e di ricerca. A questo riguardo, studi della Banca d’Italia mostrano come rapporti di lavoro più stabili possano stimolare l’accumulazione di capitale umano, incentivando i lavoratori ad acquisire competenze specifiche all’attività dell’impresa. Si rafforzerebbero l’intensità dell’attività innovativa e, in ultima istanza, la dinamica della produttività.” (corsivo nostro)
Lo avranno ascoltato in sala i numerosissimi presenti, oppure il vento della flessibilità del lavoro ha portato via le sue parole prima che giungessero alle orecchie degli interessati?
NOTE
[1] L’Italia è per l’Ocse il paese che ha maggiormente flessibilizzato il mercato del lavoro tra i paesi industriali, riducendo le tutele senza conseguire alcun incremento di produttività, anzi accompagnando la riduzione di tutele a dinamiche della produttività sempre peggiori (http://keynesblog.com/2013/03/20/produttivita-e-regimi-di-protezione-del-lavoro/).
[2] “È chiaro che, se un periodo di 36 mesi ci sono 6 persone che si danno il cambio, credo sia meglio avere la possibilità che su quei 36 mesi ci sia la proroga del contratto alla stessa persona. Alla fine dei 36 mesi è più ragionevole immaginare che venga assunta una persona che è stata lì 36 mesi, piuttosto che una, a sorte, su quelle sei che ci sono state prima. Come si possa sostenere che questo aumenta la precarietà, secondo me è in contrasto coi numeri” (Giuliano Poletti, Rainews, 27 marzo 2014).
[1] L’Italia è per l’Ocse il paese che ha maggiormente flessibilizzato il mercato del lavoro tra i paesi industriali, riducendo le tutele senza conseguire alcun incremento di produttività, anzi accompagnando la riduzione di tutele a dinamiche della produttività sempre peggiori (http://keynesblog.com/2013/03/20/produttivita-e-regimi-di-protezione-del-lavoro/).
[2] “È chiaro che, se un periodo di 36 mesi ci sono 6 persone che si danno il cambio, credo sia meglio avere la possibilità che su quei 36 mesi ci sia la proroga del contratto alla stessa persona. Alla fine dei 36 mesi è più ragionevole immaginare che venga assunta una persona che è stata lì 36 mesi, piuttosto che una, a sorte, su quelle sei che ci sono state prima. Come si possa sostenere che questo aumenta la precarietà, secondo me è in contrasto coi numeri” (Giuliano Poletti, Rainews, 27 marzo 2014).
Nessun commento:
Posta un commento
Di la tua