di Fancesco Gesualdi
Ci sono due modi di fare politica a sinistra: facendo cambiare le cose con
l’obiettivo di fare avanzare un progetto alternativo o cercando di
correggere solo gli aspetti più odiosi, accettando il sistema com’è. Nel
900 il partito comunista faceva la politica del primo tipo, giusto o
sbagliato che fosse il progetto. Poi è caduto il muro di Berlino e
facendosi più realista del re ha deciso di imboccare la strada del
pragmatismo fino a diventare il più strenuo sostenitore del liberismo.
La fine fatta dal Pd è sotto gli occhi di tutti.
A sinistra molti criticano il Pd solo per avere perso totalmente l’anima sociale, ma ne condividono l’impostazione di fondo: il sistema è questo, non solo non si può cambiare, ma va bene così:
bisogna solo porgli qualche regola affinché non si incagli nelle sue
contraddizioni e bisogna rafforzare i paracaduti sociali per soccorrere
le vittime che inevitabilmente produce. Non a caso la nuova parola
d’ordine è diventata “sinistra di governo”, che meglio di ogni altra espressione ne racchiude il concetto.
In
controtendenza, io penso che oggi più che mai la sinistra ha bisogno di
un progetto alternativo perché questo sistema ci è nemico
nell’impostazione di fondo. Cercare
di correggere gli aspetti più odiosi è una regola di sopravvivenza, ma
farlo senza intervenire sul senso di marcia è come preoccuparsi della
tappezzeria in un treno che va verso il baratro. Tradizionalmente il
tema forte della sinistra è la distribuzione, le
correnti più moderate accontentandosi di spostare quote crescenti di
reddito a vantaggio dei salari e della collettività; le correnti più
radicali pretendendo di destinare tutto a salari e collettività non
riconoscendo diritto di cittadinanza al profitto. Da cui i sistemi
socialisti, ormai tramontati per varie cause che nessuno ha ancora
studiato in tutti gli aspetti. Ma questa impostazione, per così dire
distributivista, ha portato la sinistra a condividere la stessa matrice
capitalista di adulazione della ricchezza.
Per entrambi, la ricchezza è un valore.
Il capitalismo vuole produrne sempre di più per garantire alle imprese
merci crescenti finalizzate al profitto; la sinistra vuole produrne
sempre di più per creare nuove opportunità di lavoro e migliorare le
condizioni di vita dei lavoratori e delle loro famiglie. Del resto c’è
un detto classico nella sinistra: “Non si può distribuire la miseria: prima si produce la ricchezza, poi la si distribuisce”. Ed è così che anche a sinistra c’è una forte febbre produttivista:
laddove più si riesce ad estrarre, più si riesce ad asfaltare e
cementificare, più si riesce a manipolare la natura, più si riesce ad
accrescere la tecnologia, in una parola più si riesce ad innalzare il Pil, meglio si sta. Una
concezione un po’ antiquata che configura il benessere solo con la
quantità di cose che siamo capaci di buttare nel carrello della spesa,
dimenticando che prima di tutto abbiamo
bisogno di una buona aria e che oltre alle esigenze del corpo abbiamo
anche quelle psichiche, affettive, spirituali, sociali.
La questione della qualità della vita e la questione ambientale,
hanno l’aria di essere temi ancora estranei alla sinistra. Ma se
nell’ottocento potevano essere ignorati perché altre erano le priorità
ed altro era il contesto ambientale, oggi la distruzione della casa
comune rappresenta il tema che condiziona ogni altro aspetto sanitario,
sociale, economico. Il concetto che più di ogni altro siamo costretti a rimettere in discussione è quello di crescita
e benché sappiamo che varie attività consentono spazi di crescita senza
maggior consumo di risorse e senza maggior produzione di rifiuti, il
problema è il paradigma.
Sappiamo che trattando in maniera più intelligente i rifiuti,
ricorrendo di più all’agricoltura biologica, potenziando i servizi alla
persona, si può creare Pil e occupazione sostenibile, ma
per fare pace con la natura dovremmo annientare, o giù di lì,
l’industria dell’automobile, dovremmo cambiare totalmente il sistema
distributivo per ridurre al minimo gli imballaggi, dovremmo smetterla di
creare nuovi bisogni. In definitiva dovremmo chiudere
per sempre con un sistema che ha fatto dell’aumento delle vendite il suo
cuore pulsante. E se razionalmente sentiamo che questa è la strada da
battere, dall’altra siamo bloccati per la disoccupazione che ne può
derivare. Preoccupazione più che legittima in un sistema che ci offre
l’acquisto come unica via per soddisfare i nostri bisogni e ci offre il
lavoro salariato come unica via per accedere al denaro
utile agli acquisti. Per questo il lavoro è diventato una questione di
vita o di morte e in suo nome siamo tutti diventati partigiani della
crescita.
L’unico modo per uscirne è smettere di concentrarci sul lavoro e concentrarci sulle sicurezze. La
domanda giusta da porci non è come creare lavoro, ma come garantire a
tutti la possibilità di vivere dignitosamente utilizzando meno risorse
possibile, producendo meno rifiuti possibile e lavorando il meno
possibile. Cambiando
prospettiva ci renderemo conto che il mercato non è l’unico modo per
soddisfare i nostri bisogni, né il lavoro salariato l’unico modo per
produrre ciò che ci serve. I due grandi canali, se non alternativi, sicuramente complementari, sono il fai da te e l’economia comunitaria che hanno il vantaggio della gratuità e della piena inclusione lavorativa senza bisogno della crescita dei consumi.
La costruzione di una società che finalmente sappia mettere la persona al centro della sua attenzione e
sappia porsi come obiettivo, non già l’offerta di lavoro, ma la
garanzia a tutti, donne e uomini, giovani e vecchi, abili e inabili, di
una vita sicura dalla culla alla tomba, nella piena soddisfazione di
tutte le dimensioni umane e nel rispetto dei limiti del pianeta,
dovrebbe essere il vero progetto politico della sinistra perché tiene insieme tutti i valori che la contraddistinguono: equità, rispetto, sostenibilità, solidarietà, autonomia.
Un progetto che, certo, ci costringe a
ripensare tutto, dal senso e la funzione del lavoro ai tempi di vita,
dal modo di produrre ciò che ci serve all’uso e il governo del denaro,
dal ruolo del mercato al ruolo dell’economia collettiva, dal
modo di concepire la tecnologia al modo di partecipare all’economia
collettiva. Ma è ciò di cui abbiamo bisogno in un momento che il sistema
di mercato sta mettendo in evidenza tutto il suo fallimento umano,
sociale, ambientale, financo economico.
Con
un progetto di società, non solo potremmo riaccendere la passione per
la politica nei milioni di cittadini che oggi vivono ai margini perché
stanchi e delusi, ma potremmo tornare al ruolo di forza con un’agenda
da perseguire, non più costretta a giocare perennemente in difesa.
Finalmente smetteremmo di correre dietro alle falle che crea il sistema e
metteremmo a punto il nostro piano strategico di trasformazione della
società, con
proposte per tutti i livelli: da quello personale a quello comunale, da
quello regionale a quello nazionale, da quello europeo a quello
mondiale. Perché un’altra certezza è che la costruzione di un’altra
società esige non solo una nuova visione dell’economia e della società, ma anche una nuova concezione del modo di fare politica.
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