Sanremo e Quo vado hanno in comune – oltre al successo - uno sguardo rivolto a un passato rassicurante. E’ il fil rouge di tutta la cultura, sia popolare sia alta. Ma l’Italia è capace di immaginare un futuro?
di Riccardo Manzotti
Sanremo e Quo vado, l’ultimo film di Zalone hanno una cosa in comune
oltre al successo popolare, sono rivolti al passato, un passato
rassicurante, chiuso, ripetitivo, sicuro. E questo sguardo rivolto al
passato è qualcosa che un po’ tutta la cultura italiana, sia popolare
sia più alta, ha sempre manifestato e che, come un fil rouge, si trova
in tantissimi autori italiani – nella letteratura come nel cinema, nella
musica come nel teatro. Si pensi a Mocci, Volo, Faletti, Magris,
Camilleri, Bassani, Eco, Tomasi di Lampedusa e Manzoni (!), ma anche,
sul versante cinematografico, con Salvatores, Sorrentino, Fellini,
Avati, Magni, Scola, Tornatore, Visconti e chi può ne ha ne metta … Gli
autori italiani non immaginano il futuro, analizzano il presente e lo
confrontano con il passato in una specie di eterno ritorno un po’
nostalgico e un po’ cinico.
Sanremo ci offre una rappresentazione rassicurante di un paese che
non esiste più e che ripropone i suoi campioni in una versione
neutralizzata e castigata delle passate esuberanze giovanili, ormai
ridotte a ricordo affettuoso. Pensiamo al triangolo di Renato Zero
costretto a nascondere in parole ambigue – “sono un alieno” – la sua
identità sessuale in un momento in cui il paese dovrebbe, su spinta
dell’Europa, conquistare una maturità culturale ancora lontana. Viene in
mente quando il principe di Metternich (!) scriveva a papa Benedetto XV
per esortarlo a considerare un minimo di riforme liberali.
Il rito, scriveva Robert Pirsig, ha soprattutto la funzione di negare
lo scorrere del tempo attraverso la ripetizione. In questo senso
Sanremo svolge ottimamente la sua funzione: negare il tempo e
anestetizzare il senso critico. Ma soprattuto negare che si possa
immaginare un futuro diverso dalla ripetizione del passato.
A sua volta, l’obiettivo di Zalone guarda al futuro solo come seguito
inevitabile del presente. Il film scruta molto all’indietro, alla prima
repubblica, alla sua infanzia, ai genitori, al posto fisso, il
quotidiano. Il futuro? Non è che un vago sfondo di cui altri – gli
stranieri, gli scienziati al polo nord, figure astratte e lontane – si
occuperanno.
Se si riconsiderano gli autori italiani che hanno definito il colore
di fondo della nostra cultura, si vede che, pur diversissimi, sono
accomunati dalla mancanza di qualcosa: l’incapacità o il disinteresse
per immaginare il futuro. È come se progettare il futuro fosse, per chi
appartiene alla nostra cultura, una attività vista male, qualcosa di
imbarazzante, vano, poco rispettabile e, forse, anche pericoloso. Non
voglio dare un giudizio o nemmeno trovare le cause di questa ingombrante
assenza. Mi limito ad annotarla poché, dal momento in cui la si
avverte, diventa impossibile non farci caso. Un po’ come quando, per
qualche epifania improvvisa, si percepisce la propria solitudine e, da
quel momento, ogni cosa cambia volto.
I racconti che gli italiani inventano su pellicola o su carta
guardano indietro a un passato storico o esistenziale: l’infanzia, i
genitori, i progenitori, l’Italia che fu. Non è una caratteristica
recente dei nostri artisti. È qualcosa che, con preoccupante coerenza,
ha radici antiche e diffuse. Il romanzo italiano nasce, così si racconta
a scuola, con il romanzo storico dei Promessi Sposi. Nasce guardando
indietro. Ma anche l’Ariosto, in fondo, era un nostalgico del passato
cavalleresco. E così via, scendendo, o salendo, fino ai giorni nostri.
Tommasi di Lampedusa dipinge una Sicilia già finita prima che lui
nascesse: il suo protagonista, il fatalista Gattopardo, vive prigioniero
di una presunta età dell’oro dove i leoni comandavano sulle iene.
Come i pastorelli della Roma del settecento che si aggiravano ameni
tra le rovine della città eterna vendendo vedute ai visitatori inglesi,
tedeschi e francesi, così i nostri registi spremono miele e suggestioni
dal passato più o meno remoto dello stivale. Fellini ci riporta alla
Rimini della sua infanzia, Bertolucci alla bassa padana dei primi del
novecento, Magni alla Roma risorgimentale, Salvatores all’Italia della
guerra. Addirittura, il capolavoro di Scola, “Ceravamo tanto amati”
trasforma il passato imperfetto in una nota di malinconia. Ma anche gli
autori più recenti non sono affatto diversi. Benigni torna alla seconda
guerra mondiale. Tornatore al dopoguerra. Sorrentino disegna una
capitale contemporanea che guarda al suo passato ormai incomprensibile
dove “i treni sono i migliori perché non arrivano mai da nessuna parte”.
Ecco, in questa frase c’è, in fondo, tutta la sfiducia per il futuro:
per arrivare, infatti, si deve sapere dove si vuole andare. Quo vado?
Dunque? Si deve avere, in altre parole, una meta, uno scopo, una
visione, un futuro.
In altre culture, nei prodotti di immaginazione, il futuro non è
sempre assente. Al contrario! Il futuro è un protagonista di grande
successo. Basta pensare ai film d’oltreoceano dove la fantascienza ha
nel futuro la propria riserva inesauribile di situazioni, personaggi e
riflessioni. Ma anche in altre culture, a noi geograficamente più vicine
– Francia, Spagna, Inghilterra, Germania, Russia, paesi nordici – il
futuro è una presenza prepotente: Moebius, Jodorowsky, Besson,
Tarkovskij, Moore, Houellebecq. Non faccio una questione di stili o di
valore, ma di contenuti. Quanto una cultura pensa al futuro e quanto
invece rimane dentro il proprio presente e ricade nel proprio passato.
Non voglio dare un giudizio artistico. Manzoni o Terry Gilliam sono
sullo stesso piano, ma il primo ritorna a un passato rassicurante, il
secondo concepisce inquietanti visioni del futuro. Gli autori italiani,
singolarmente, hanno fatto benissimo a scavare nel loro passato
personale, familiare e popolare. La mia domanda riguarda la nostra
cultura dell’immaginario nel suo complesso, poniamo da Manzoni a Don
Matteo: nessuno immagina un futuro possibile. Questo silenzio è, come si
suol dire, assordante.
La nostra cultura, nel suo complesso, sembra incapace di scrivere su
quello che sarà. Forse si teme di apparire ingenui, immaturi e anche un
po’ creduloni. L’Italia non ha prodotto autori che – come Giulio Verne,
Aldous Huxley, George Orwell, Phil Dick, George Lucas, Steven Spielberg,
Ridley Scott, Isaac Asimov, Haruki Murakami, Akira Toriyama, Eiichiro
Oda, Hideaki Anno, Alistair Reynolds, Ray Bradbury – hanno voluto
raccontare il futuro. Questi autori sapevano di immaginare e non
predire, ma tentato di dare ai lettori e spettatori un balcone da cui
guardare l’esistente e sognare il nuovo.
Siamo forse come i siciliani del Gattopardo, convinti di essere
troppo perfetti per metterci in gioco in un progetto rivoluzionario.
“Tanto non cambierà mai niente” e “tutto il mondo è paese” sono frasi
che ho sentito pronunciare spesso e che spengono nel ridicolo e nel
sussiego ogni desiderio e spinta a creare il nuovo. Sia chiaro, esistono
controesempi. Non voglio fare un censimento né una statistica accurata,
qualcosa si può sempre trovare, ma è la nota dominante che conta.
In Perù esiste un popolo, gli aymara, che è celebre tra gli
antropologi perché, caso unico al mondo, indica il domani buttando la
mano dietro le spalle e il passato puntando davanti a sé. Se chiedete
loro il perché di un comportamento opposto a quello del resto del genere
umano, danno una risposta logica: il futuro non si vede, invece il
passato è davanti ai nostri occhi. Quindi il passato è davanti, mentre
il futuro è alle spalle. Ecco, forse, gli antropologi dovrebbero
studiare un poco anche noi Italiani, anche noi, guardando film e
leggendo libri, sembriamo incapaci di vedere o di rappresentare il
futuro. Infatti, non lo rappresentiamo mai.
Ma forse esiste un indizio che lega realtà e finzione. Se chiedete a
un giovane (illuso e ingenuo?) americano che cosa è la cosa più
importante nella vita, vi risponderà due cose: libertà e successo. Se
ponete a molti giovani italiani (accorti e indovinati) la stessa domanda
la risposta sarà: divertimento e sicurezza. Ma la sicurezza è
soprattutto paura. Il desiderio di sicurezza è desiderio di assenza di
pericoli. Non è una spinta positiva a costruire ma l’ansia di eliminare
ogni rischio. Eppure, è proprio l’imprevedibile la stoffa di cui è fatto
il futuro ed è solo nell’incertezza di quello che sarà che si possono
trovare gli spazi per creare quello che non è ancora. Se tutto fosse
certo, il futuro sarebbe solo sterile ripetizione del passato e il
presente una finzione crudele.
Se gli Ayamara guardano al passato e gli italiani non immaginano
alcun futuro forse è perché la metafora alternativa – la freccia che dal
passato si protende ottimisticamente in avanti – è sempre un passo nel
buio, un salto dal trampolino, una scommessa da vincere. E l’Italiano ne
ha viste tante e sa che a pensare male si fa peccato ma ci si azzecca,
che sempre allegri bisogna stare e il nostro piangere fa male al re. Quo
vado?
Il posto fisso di Zalone e la “sagra” di Sanremo, presi a
quintessenza dello spirito nazionale, in fondo è proprio l’antitesi del
futuro e del cambiamento. Chi vuole che tutto resti immutato, non si
accorge che il primo a non aver spazio di esistere è proprio lui.
Anche fuori dal teatro Ariston, la musica non propone quasi nulla che
punti al domani. Anche il Blasco, dopo un sussulto futurista, è tornato
alle sue rimuginazioni esistenziali. In Italia, le canzoni affrontano
tutte le declinazioni possibili dell’amore o percorrono i labirinti
della memoria: nelle ballate struggenti di De Gregori, nelle origini
personali di Dalla, nelle favole anarchiche di De André. Paradigmatico
di questo protagonismo del passato è un autore come Guccini la cui
produzione è una vera e propria galleria del tempo che fu. Spicca come
eccezione un siciliano, Franco Battiato, che ha infranto la barriera del
tempo, collegando passati remotissimi a futuri oltre le nostre
cordinate spaziotemporali. Nel presente – Pausini, Jovannotti, Ferro,
Amoroso, Antonacci, Gazzé – lo sguardo è sulla vicenda esistenziale,
complice la necessità di rispecchiare il vissuto dei loro fan. Forse,
niente esprime meglio della vocazione al passato della trasformazione
del brano di David Bowie, Space Oddity – malinconico ma anche intriso di futuro – nella versione di Mogol: Ragazzo Solo, Ragazza sola. E sì che proprio lui insieme a Battisti ci avevano detto che dietro la collina è sempre il sole.
La televisione non è diversa. Le serie televisive di origine
nazionale, a parte la colonna portante – vetrine, cesaroni, medici,
preti e carabinieri – fatta di figure rassicuranti e sempre un po’
vintage, trovano soprattutto nella ricostruzione storica il materiale
più apprezzato, biografie e ricostruzioni di ambienti, dall’Italia del
dopoguerra agli anni di piombo. La televisione italiana non ha mai
neppure considerato di produrre serie quali il Doctor Who, Life on Mars,
The Hundred, Under the Dome, Black Mirror, Galactica che, con molto
mestiere e qualche ingenuità, sono comunque un grande affresco dei
futuri possibili. Meglio riproporre ambientazioni familiari come il
risorgimento di Noi Credevamo, la Roma di Romanzo Criminale, la Sicilia di Montalbano, la Napoli di Gomorra:
passatoo presente. Mai un passo oltre nell’ignoto che circonda il qui e
ora. Eppure si potrebbe osare, immaginare un’Italia futura popolata di
extracomunitari, interrogarsi sugli effetti delle tecnologie sul nostro
paese, costruire visionarie immagini di una Italia cambiata,
trasformata, evoluta, migliorata, peggiorata, distrutta, risorta! Quante
possibili Italia potrebbe esserci nel futuro prossimo venturo e quanto
ci servirebbe immaginarle per realizzarle o scongiurarle.
Chi non immagina il proprio futuro, subisce quello creato dagli
altri. E, infatti, anche la nostra lingua sta soffrendo per questa
mancanza di domani. Molti termini che indicano nuove professioni,
tecnologie, abitudini, arrivano dall’estero e scalzano il nostro
vocabolario familiare. La nostra lingua sta diventando la voce del
passato, dell’arte classica, della musica antica e del ricordo. Siamo
circonfusi dalla luce dorata del tramonto più che dal chiarore debole ma
promettente dell’alba. Non è sempre così, ma molto spesso lo è, e tanto
dovrebbe bastare per riflettere. La fantascienza e i romanzi utopici e
distopici ci invadono da altri paesi, forse rozzi e banali, ma spinti in
avanti mentre noi ci fossilizziamo in una difesa di principio delle
nostre immutabili bellezze, cariatidi museali da conservare sacralmente.
Steve Jobs diceva che per andare avanti si devono abbandonare le
certezze passate e avere fiducia di rischiare. E pensare che, proprio
qui, duemila anni fa o già di lì, Plinio il vecchio si meravigliava di
quanto i romani avessero già realizzato, ma ammoniva: molto di più sarà
fatto negli anni che verranno.
Qualche anno fa, alla fine della vita, un grande del cinema italiano,
Vittorio Gassman, diede alle stampe la propria autobiografia, bilancio
cinico e un po’ triste dei suoi giorni migliori, il titolo: una grande
avvenire dietro le spalle. Ecco, è proprio in questa sensazione di
futuro rubato che la cultura italiana finisce per spegnere le proprie
forze migliori. È proprio indispensabile? Dobbiamo essere il paese
dell’eterno presente su uno sfondo di splendide rovine?
Un paese che non si immagina il proprio futuro non ha futuro, perché
il futuro vive dentro l’immaginazione delle persone. Il passato è
sparpagliato qua e là e il presente è dappertutto, ma il futuro è solo
nella mente di chi ha una visione, uno scopo, una speranza. Non è un
fatto di ottimismo o pessimismo. Non è detto che si debba per forza
sperare in un futuro migliore, si può anche temere un domani peggiore.
Ma rimuovere il futuro dal proprio pensiero è qualcosa di anomalo, una
rimozione inquietante. Chi non immagina, non ha futuro. E il nostro
paese, a guardare quello che ha prodotto, lo ha immaginato veramente
poco. Quo vado? Boh …
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