Schiacciato,
in Italia, tra due uscite cinematografiche di cui si è parlato forse
anche troppo (“Quo vado?” – 1 gennaio – e “Revenant” – 16 gennaio) il
film di Adam McKay “La grande scommessa” (7 gennaio) ha
ricevuto meno attenzioni di quelle che sicuramente avrebbe meritato e
merita. Certo, il film è candidato per interpretazione, regia,
sceneggiatura e molto altro ancora a quasi tutti i premi cinematografici
disponibili sul mercato americano, a partire proprio dagli Oscar, ma
non sono queste candidature e nemmeno la magistrale recitazione di
alcuni interpreti (Steve Carell e Christian Bale su tutti) a far sì che
questo film valga la pena di essere visto e recensito.
Già altri
ne hanno segnalato la valenza puramente filmica e morale delle immagini,
del ritmo narrativo serratissimo, degli sguardi e dei dialoghi. Ma non
si tratta solo di questo. No, perché ci troviamo di fronte ad uno dei
più determinati, feroci e limpidi attacchi contro il capitalismo
finanziario, la sua alterigia, la sua crudeltà, la sua spietatezza e,
soprattutto, la totale incompetenza dei suoi manager e dirigenti che
siano mai comparso sugli schermi. Non soltanto americani.
Non si
fanno sconti nel film. I personaggi sono reali, così come i nomi delle
banche e delle società finanziarie coinvolte nella catastrofe che ci
perseguita a partire dal 2008. Merrill Lynch, Moody’s, Morgan Stanley,
Deutsche Bank, Chase Manhattan Bank, JPMorgan, Lehman Brothers sono
soltanto alcune (anche se tra le più pericolose) delle associazioni a
delinquere in guanti bianchi che compaiono nel corso delle vicende
narrate.
Adam McKay, noto principalmente come regista del Saturday Night Live (dal 1995 al 2001) e di varie commedie oltre che come produttore cinematografico,1 basandosi sul best seller di Michael Lewis,2
pubblicato negli USA nel 2010, ricostruisce le vicende che, tra il 2006
e la fine del 2007, portarono all’esplosione della gigantesca bolla
speculativa ed immobiliare venutasi a creare negli Stati Uniti a causa
della diffusa abitudine di concedere mutui per l’acquisto di una casa
senza badare alla solvibilità dei contraenti.
Le conseguenze di
tutto ciò si misurarono in sei milioni di americani che persero la casa e
in otto milioni di disoccupati in più soltanto sul territorio
statunitense, mentre l’onda lunga dello tsunami finanziario si sarebbe
propagata sull’intera economia mondiale con le conseguenze sociali,
economiche, politiche ed occupazionali che ancora tutti ben conosciamo.
Raccontare
qui le vicende di come alcuni broker si fossero resi conto della
catastrofe imminente e della autentica truffa contenuta negli swap
(strumenti derivati della finanza utili a facilitare lo scambio di
crediti o la loro assicurazione contro eventuali rischi di default) e
nei pacchetti obbligazionari venduti da banche e società di brokeraggio
come sicuri, ma in realtà strapieni di titoli spazzatura, non avrebbe
senso. Così come non lo avrebbe sottolineare la presunta moralità o meno
dei principali protagonisti della vicenda: Michael Burry (Christian
Bale), Mark Baum, basato su Steve Eisman un manager di fondi
speculativi, (Steve Carell) e Jared Vennet, personaggio basato sul
trader della Deutsche Bank Greg Lippmann (Ryan Gosling). Perché, al di
là delle necessità di narrazione filmica, il loro intento non è morale
ed ognuno di loro acquisirà, all’esplodere della crisi, un guadagno
colossale. Sulla pelle di milioni di cittadini, lavoratori e piccoli
proprietari di immobili e pacchetti finanziari.
A differenza, però, di un altro bel film su quella/questa crisi (Margin Call
di J.P. Chandor – 2011) il lungometraggio di McKay, che ne è anche lo
sceneggiatore, non si limita a suggerire un giudizio, ma espone
esplicitamente la sua tesi: non ci troviamo di fronte all’avidità di
alcuni oppure alla mancanza di scrupoli morali ed etici di alcune banche
o società. E non ci troviamo neppure davanti ad un piano ben congegnato
di cui soltanto alcuni sono al corrente mentre la stragrande
maggioranza dei comuni mortali è distratta da altro o ad altri interessi
affaccendata.
No, niente Trilateral, niente Club Bilderberg:
siamo davanti al capitalismo nella sua età finale, puramente
speculativa, avida, imbecille. In cui le società di rating non fanno
altro che attribuire triple A o doppie B, o qualsiasi altro tipo di
giudizio, non sulla base di ragionate ed approfondite analisi delle
situazioni finanziarie oggettive, delle esposizioni e degli asset di
color che lo richiedono, ma sulla base degli interessi del momento, di
certezze e assunti mai testati e comprovati o, ancor peggio, soltanto
per interessi di bottega o per la necessità di strappare clienti agli
altri concorrenti. Mentre anche coloro che dirigono le banche centrali,
si tratti dl Alan Greenspan (esplicitamente e ripetutamente citato) o
dei funzionari di Bruxelles, sembrano brillare per incompetenza e
superficialità al di sopra di tutti gli altri, già scadenti, comprimari.
Un’idra tentacolare ma priva di testa, la cui unica funzione cerebrale sembra essere quella ereditata dai rettili, dedita principalmente a soddisfare gli istinti primari e in cui l’aggressività svolge un ruolo fondamentale.
Un’idra tentacolare ma priva di testa, la cui unica funzione cerebrale sembra essere quella ereditata dai rettili, dedita principalmente a soddisfare gli istinti primari e in cui l’aggressività svolge un ruolo fondamentale.
Un mostro acefalo e caotico che sembra trovarsi più a
suo agio ad un tavolo di roulette che non a quello di una seria
riflessione ed analisi della situazione economica e sociale. Non a caso
il climax del film è ambientato proprio a Las Vegas, nel casinò di quel
Caesar’s Palace che sembra riassumere in sé tutte le illusorie promesse e
tutte le follie del capitalismo dell’azzardo finanziario. In cui i
gettoni persi oppure vinti e accumulati non sono costituiti da altro che
dalle vite di milioni di cittadini comuni e dai loro risparmi ed averi.
Un
film che, anche se dovesse essere premiato agli Oscar, non potrebbe
nemmeno suscitare le simpatie dei vari populismi grillini e leghisti. E’
un film schierato, antagonista. E la società dello spettacolo, non
potendolo ignorare, farà di tutto per digerirlo e renderlo innocuo.
Probabilmente senza riuscirci, poiché il messaggio di cui è portatore è
troppo chiaro (sintetizzando: il capitalismo è un misto di avidità, di
truffe e di merda), così come sembra essere confermato dalle più recenti
statistiche sulla concentrazione della ricchezza mondiale in pochissime
mani (meno dell’1% della popolazione).3
La
straordinaria forza comunicativa del film, però, non è solo nella
ricostruzione minuziosa e a tratti rocambolesca degli eventi. E’
l’autentico detournement di stampo situazionista che viene operato
attraverso le immagini a determinarne, in alcuni momenti, la novità e
l’efficacia. Se è da antologia la scena in cui una lap dancer,
volteggiando sul palo, spiega a Mark Baum come si trovi ad essere
intestataria di mutui per cinque ville, altrettanto valide sono quelle
in cui Margot Robbie (in una vasca da bagna piena di schiuma e drink in
mano) e Selena Gomez (ad un tavolo da gioco di Las Vegas) ci mettono la
faccia, oltre che il nome, e spiegano agli spettatori i meccanismi
finanziari messi in atto da Wall Street per accumulare profitti
colossali sulle spalle degli ignari risparmiatori. Senza dimenticare il
cuoco-scrittore Anthony Bourdain che affettando un pesce, ormai non più
fresco, spiega come trasformarlo in una magnifica e costosa zuppa di
pesce ovvero come titoli spazzatura e crediti inesigibili possano essere
trasformati in “solidi” pacchetti obbligazionari. Se per caso ancora
non vi fosse chiaro il linguaggio, qui espressamente semplificato,
pensate pure a Banca Etruria e alle altre tre banche coinvolte
nell’ultimo scandalo bancario italiano e ai risparmiatori rovinati.
Ecco, ci siete arrivati? Proprio così.
Sì,
perché il film ci lascia con un’unica certezza: da allora nulla è
cambiato e nessuno ha pagato, se non i lavoratori e i risparmiatori che
continuano a camminare sul filo del vuoto, senza alcuna speranza legale
di veder risarciti i propri diritti o i propri risparmi. Ma anche su
questo punto il film non scade mai nel populismo: il meccanismo funziona
perché la gente ci vuole credere. Tutti vogliono la casa di proprietà e
tutti sperano di arricchirsi facilmente con i pochi risparmi a
disposizione. Punto. Ora tutti a casa.
Ma non prima di essere
rimasti seduti fino al termine dei titoli di coda per ascoltare i Led
Zeppelin interpretare il brano più adatto a concludere il film: When The Levee Breaks, un blues scritto ed interpretato per la prima volta nel 1929 da Kansas Joe McCoy e da sua moglie Memphis Minnie. Quando il pranzo di gala finisce,
appunto. Come in quell’altra “grande crisi” degli anni trenta di cui,
inevitabilmente, si parla molto nel film, soprattutto attraverso i
dialoghi di Mike Burry/Christian Bale.
- Uno degli ultimi film prodotti è stato Duri si diventa di Etan Cohen, 2015
- The Big Short – Il grande scoperto, Rizzoli 2011
- http://vocidallestero.it/2015/10/18/theguardian-la-meta-della-ricchezza-mondiale-nelle-mani-dell1-della-popolazione/
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