Il governo Renzi vuole mettere le mani sulle pensioni di
reversibilità? Le smentite di Poletti e Padoan non tranquillizzano
perché i contenuti della legge delega per il contrasto alla povertà che
il governo vuole approvare lasciano la porta aperta a questa
possibilità. Nel testo si parla infatti di risorse che vanno a
finanziare il fondo per il contrasto alla povertà e che devono
derivare da non meglio definite operazioni di “razionalizzazione” sulle
prestazioni assistenziali, comprese quelle di natura previdenziale. Da qualche parte dunque si taglierà.
Un intervento sulle pensioni di reversibilità sarebbe inaccettabile,
come lo è la politica del governo nel contrasto alla povertà, non a caso
improntata al cosiddetto “universalismo selettivo” richiamato dalla
legge delega: l’orrendo ossimoro con cui si è teorizzato nei decenni
scorsi che il welfare non poteva coprire tutti e che dunque non si
trattava più di promuovere diritti universali ma al massimo prestazioni
“caritatevoli” per le povertà estreme.
Di seguito una breve scheda per fare il punto su quello che il
governo ha messo in campo sulle povertà, sul perché sarebbe gravissimo
il taglio delle pensioni di reversibilità e sull’inaccettabilità della
logica che continuamente il governo mette in campo: quella della guerra
tra poveri, che mette in conflitto ultimi e penultimi, invece di
intervenire sulle grandi disuguaglianze e mettere in campo politiche
realmente redistributive.
1. E’ inaccettabile il modo in cui si interviene sulle povertà.
Gli interventi per il contrasto alle povertà previsti dalla legge di
stabilità 2016 sono totalmente inadeguati rispetto alla situazione di
sofferenza sociale cresciuta esponenzialmente in questi anni.
Secondo i dati Istat relativi al 2014, infatti, sono 1 milione e 470
mila le famiglie in condizione di povertà assoluta, per un totale di 4
milioni 102 mila persone, 7 milioni 815 mila persone sono invece in
condizione di povertà relativa. I dati sono stabili rispetto all’anno
precedente e concentrati geograficamente: la povertà assoluta si attesta
al 4,2% al Nord, al 4,8% al Centro e all’8,6% nel Mezzogiorno. A fronte
di questa situazione il governo ha stanziato 600 milioni aggiuntivi per
il 2016 portando le risorse complessive a 1,6 miliardi e 1 miliardo per
il 2017 portando le risorse complessive per quell’anno a 1,5 miliardi.
Dei 600 milioni aggiuntivi 220 sono destinati a finanziare l’Asdi,
l’assegno di disoccupazione, e 380 il Sia (Sostegno per l’inclusione
attiva, misura attivata dal governo Letta e rivolta esclusivamente ai
nuclei familiari con un minore). Il finanziamento complessivo per il
Sia raggiunge complessivamente la cifra di 750 milioni per il 2016 (tra
quanto era stato già stanziato e le nuove risorse) e di 1 miliardo per
il 2017. Se fossero distribuiti sulla sola platea dei poveri
assoluti, non dando nessuna risposta alla condizione di povertà
relativa, le risorse stanziate dal governo comporterebbero 15 euro lorde
mensili, conteggiando invece la sola platea dei nuclei familiari in
povertà con un minore che sono circa 600.000, questo significa 104 euro
mensili lorde per nucleo familiare. Va ricordato che la proposta di
reddito di inclusione sociale avanzata dall’Alleanza contro la Povertà
(Acli e Caritas) prevede risorse per 7 miliardi, mentre il reddito di
dignità sostenuto da Libera per quanto non quantificato precisamente,
nel prendere a riferimento le proposte esistenti in Parlamento (quella
del Movimento 5 Stelle e quella di iniziativa popolare proposta da Bin,
Sel, Prc ed altri, quantificate dall’Istat rispettivamente in 14,9 e
23,5 miliardi) si situa approssimativamente sulla cifra di 20 miliardi.
La legge delega ipotizza un ampliamento degli interventi contro la
povertà modesto, dopo il 2017, e finanziato dal taglio delle misure
assistenziali e previdenziali vigenti.
2. Non si può usare nuovamente il sistema previdenziale per fare cassa.
Le pensioni di reversibilità, che già oggi vengono erogate in misura
differenziata a seconda del reddito del coniuge superstite e delle
diverse condizioni dei figli o dei congiunti, sono finanziate dai contributi versati.
Come abbiamo sottolineato più volte sono le pensioni a finanziare le
casse dello stato e non viceversa, e questo accade dal 1996.
Riportiamo i dati tratti dal Rapporto sullo Stato Sociale 2015
relativi al complesso del sistema previdenziale. La spesa per il 2013
per le prestazioni IVS (invalidità-vecchiaia-superstiti) è stata di
201,6 miliardi. I contributi versati sono stati pari a 181,2 miliardi.
Le risorse rientrate nelle casse dello stato attraverso le tasse sono
stare 41, 3 miliardi. In sostanza il rapporto tra cioè che è uscito
dalle casse dello stato in termini di pensioni erogate e ciò che vi è
entrato per i contributi e le tasse, è in attivo di 21 miliardi pari
all’1,3% del PIL.
E’ dunque inaccettabile che si intervenga nuovamente usando le
pensioni come un bancomat, quando invece va rimessa radicalmente in
discussione la controriforma Fornero.
3. Il governo incrementa le disuguaglianze e poi interviene con una partita di giro interna alla riduzione del sistema di welfare.
Va ricordato che nella legge di stabilità per il 2016 il governo
Renzi ha eliminato le tasse sulle prime case dei ricchi, cioè sugli
immobili di pregio, misura che da sola è costata 1,5 miliardi, favorito
l’evasione fiscale con le norme sul contante, regalato una quantità
stratosferica di risorse alle imprese (nel 2015 per effetto della
precedente legge di stabilità si è trattato di circa 8 miliardi tra
Irap, decontribuzione ed altre misure, che crescono nel 2016 e 2017, per
ulteriori interventi, tra cui la riduzione della tassa sui profitti,
cioè dell’Ires a partire dal 2017).
Parallelamente sempre nella Legge di Stabilità i tagli previsti sono
di oltre 8 miliardi per il 2016 prevalentemente su sanità, regioni,
servizi pubblici.
Tutto questo avviene in una situazione in cui la ricchezza è sempre più concentrata in poche mani.
Secondo il rapporto OCSE del maggio scorso (e i dati sono
coincidenti, con poche e irrilevanti differenze, con quelli di altri
istituti statistici) l’1% più ricco della popolazione italiana detiene
il 14,3% della ricchezza nazionale netta, praticamente il triplo
rispetto al 40% più povero, che ne detiene solo il 4,9%. 600.000 persone
possiedono il triplo della ricchezza di 24.000.000 di persone.
Il 20% più ricco (primo quintile) detiene il 61,6% della ricchezza, e
il 20% appena al di sotto (secondo quintile) il 20,9%. Il restante 60%
si deve accontentare del 17,4% della ricchezza nazionale, con appena lo
0,4% per il 20% più povero. Il rapporto tra il primo e l’ultimo quintile
è di 154 a 1.
Diciamo no a qualsiasi ulteriore riduzione delle prestazioni
previdenziali. Rilanciamo l’iniziativa per rimettere radicalmente in
discussione la controriforma Fornero sulle pensioni, per istituire il
reddito minimo come misura di reale contrasto alla povertà, per una
politica redistributiva a partire dall’istituzione di un’imposta
patrimoniale sulle grandi ricchezze.
Scheda a cura di Roberta Fantozzi – Febbraio 2016
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