Chi con entusiasmo e chi con rabbia, tutti prendono atto del mutamento di scenario determinato dallo strappo storico di Federmeccanica. Non cambiano soltanto le relazioni sindacali in Italia, in gioco c'è, più in generale, il sistema di relazioni sociali. Il «recesso» del contratto nazionale formalizza un processo di restaurazione iniziato da tempo che coinvolge, a partire dalla politica, l'intera società. Si profila un nuovo modello sociale i cui tratti appaiono inquietanti perché puntano al ribaltamento dei valori generali. Per non restare nel generico, proviamo a fare qualche esempio, sollecitati della nuda cronaca di questi giorni.Ieri, intervenendo al comitato centrale della Fiom, uno dei tre operai licenziati da Marchionne a Melfi ha raccontato un paradosso di cui è involontario attore: «La Fiat ha deciso di pagarci lo stipendio impedendoci però di lavorare - ha detto Giovanni Barozzino - e al tempo stesso si rifiuta di acquistare un defibrillatore che consenta di salvare un lavoratore colpito da infarto». Demagogia? Solo cronaca, appena qualche settimana fa un operaio è morto a Melfi ucciso da un infarto. Forse il defibrillatore avrebbe potuto salvarlo e forse no, ma il defibrillatore non c'era perché la Fiat non vuole spendere i soldi per acquistarlo.Sulla stessa lunghezza d'onda si collocano alcuni dei punti su cui si fonda il nuovo «contratto» nella fabbrica di Pomigliano e che diventeranno regole per tutti i metalmeccanici con la cancellazione del contratto unitario e con le deroghe a quello separato non firmato dalla Fiom e non votato dai lavoratori. Un operaio vincolato alla linea di montaggio non potrà più spezzare le otto ore con 30 minuti di pausa mensa, ma sarà costretto a rinviare la pausa a fine turno, e potrà mangiare e non lavorare solo se non ci saranno richieste di straordinari da parte dell'azienda. Al tempo stesso, quell'operaio non potrà più godere di almeno 11 ore di riposo tra un turno e l'altro: se finirà il turno serale alle 22, dovrà iniziare quello del mattino alle 6. E ancora, se si ammalerà non riceverà lo stipendio per i primi tre giorni di assenza.Qual è la società, quali i rapporti che hanno in mente Marchionne e tutti i suoi fans, industriali, politici e sindacali? Lo spiegò, al tempo dell'accordo con Chrysler, lo stesso Ad della Fiat all'ex capo del sindacato americano Uaw, Ron Gettelfinger, dicendo che avrebbe dovuto accettare una «cultura della povertà» abbandonando la «cultura dei diritti acquisiti», partendo da pensioni e sanità. Gettelfinger sarà costretto ad abbassare la testa (prendere, o lasciare e perdere diritti e lavoro), non prima di aver risposto a Marchionne: «Perché non viene a sedersi con me e racconta a una vedova di 75 anni che non è operabile e che lei le ha ucciso il marito?».La cultura della povertà, dice Marchionne. Ma che modello sociale è, quello che prevede un salario dell'amministratore delegato Fiat di 4-500 volte superiore allo stipendio di un suo operaio? Se lo chiede insistentemente e giustamente Gad Lerner nei suoi articoli su Repubblica, precisando che Valletta guadagnava 20 volte più dei suoi dipendenti (aggiungiamo noi che Olivetti riteneva che il divario non potesse superare il livello di 5 a 1)? E qual è l'etica a cui risponde la decisione, presa quest'anno in piena crisi, di distribuire gli utili agli azionisti e cancellare il premio di produzione a chi ha già un salario falcidiato dalla cassa?C'è un modello vincente di società a cui lavorano sia Berlusconi e i suoi ministri che Marchionne e la Confindustria. È un modello che prevede leggi ad personam (ad aziendam) e leggi con la possibilità di deroghe per impedirne l'applicazione. O si cancellano le leggi «dannose», o se ne fanno di personalizzate, o si sterilizzano quelle esistenti. Ormai dimenticata la fraternità, via anche l'eguaglianza, del trinomio della rivoluzione francese resta solo la libertà: il Partito delle libertà.
Loris Campetti, Il Manifesto
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