In questi giorni abbiamo assistito al tentativo, condotto senza esclusione di colpi, anche portati deliberatamente sotto la cintura, di mettere il Prc, la Federazione della sinistra fuori da ogni gioco politico. Per la verità, l’oscuramento mediatico era, come ognuno ha potuto constatare, già in corso da tempo.
Ma l’eventualità delle elezioni anticipate e la proposta di una larga alleanza democratica per cacciare Berlusconi, avanzata in tempi non sospetti da Paolo Ferrero ed ora fatta propria da Pierluigi Bersani, ha rimesso tutte le bocce in movimento, suscitando allarme in coloro che grazie all’attuale legge elettorale e alla torsione bipolare del sistema politico erano riusciti ad espellere la sinistra dal Parlamento, cancellando dalla rappresentanza istituzionale le sole forze non omologate alla cultura mercatista.
Così, nei giorni scorsi, nell’intento di scoraggiare qualsiasi intesa con la Fed, il Corriere della sera non ha esitato ad inventarsi la fola di una cooptazione di Ferrero e Diliberto nelle liste del Pd, generando sconcerto a dritta e a manca. La smentita, da parte di tutti gli interessati, è stata pronta e netta, ma intanto la bufala ha viaggiato, secondo un ben collaudato modello di disinformazia. Repubblica è invece ricorsa ad un espediente più sofisticato: nella pubblicazione dell’ultimo sondaggio (che come tutte le esplorazioni della pubblica opinione è sempre saggio maneggiare con prudenza) ha del tutto omesso la Fed, in ragione di una stima che la vorrebbe sotto il 2% e ha sommato quella percentuale a quella attribuita ad altri “cespugli”, tutti classificati sotto la generica e indifferenziata denominazione di “altri”, accreditando dunque la percezione di una inesorabile marginalità della sinistra comunista e anticapitalista.
Piccoli trucchi, dove la rappresentazione “fotografica”, istantanea, di una tendenza elettorale si salda con la pratica dell’obiettivo, una sorta di profezia che si autodetermina. Come a dire: chi mette lì il suo voto lo investe in nulla, lo butta via. Il perimetro “interessante” - si suggerisce - è quello che arriva fino a Sel, della quale si dà evidentemente per scontata l’irrecuperabilità ad una coalizione unitaria di sinistra, autonoma e indipendente dal Pd. Tutti i riflettori vengono così proiettati sul cerchio più stretto della proposta di Bersani, sulla coalizione di governo, sul Nuovo Ulivo e sulla prossima disfida fra quanti si candidano a guidarlo nella contesa elettorale che, prima o poi, verrà. Il tema dell’alleanza democratica non ottiene invece la dovuta attenzione. Viene così messo in secondo piano l’obiettivo più importante e preliminare, quello di liberare il Paese dalla cancrena che sta divorando la democrazia e le istituzioni repubblicane, prima che la necrosi diventi irreversibile; quello cioè di lavorare alla più ampia convergenza di tutte le forze, pur di diverso orientamento politico, che tuttavia condividono la necessità di ripristinare la legalità costituzionale travolta dal golpismo del caudillo di Arcore e del suo corrotto sultanato.
La questione del governo, dell’omogeneità programmatica delle forze che lo compongono deve venire dopo che sia stata affrontata e vinta questa battaglia, vera e propria emergenza democratica. Tuttavia converrà venire in chiaro anche su questo punto ed è bene farlo subito per evitare che si trascinino equivoci e per rendere trasparente il rigore di un ragionamento politico. Che è - per chi scrive - il seguente.
L’esperienza del governo Prodi è lì a ricordarci che se stai al governo del Paese lo devi fare in ragione della effettiva possibilità di cambiare le cose, di compiere passi che facciano percepire il cambiamento come reale, come processo che muta e mugliora, nella materialità dei rapporti sociali, la vita delle persone. Quando questo non accade, come non è accaduto nel passato, si produce un distacco che nel tempo diventa frattura con la tua base sociale, tanto più grave quanto forte era l’aspettativa che avevi suscitato. E se malgrado tutto perseveri nel mantenere responsabilità di governo quando la rotta è palesemente diversa da quella per cui ti eri battuto e che era stata tracciata, allora si genera la convinzione che lo fai per te stesso: il rapporto tra mezzi e fini si rovescia, la tua credibilità va in frantumi e ne paghi, come è giusto che sia, tutti i prezzi. E’ già successo con effetti devastanti e duraturi. Non deve più succedere. Questo vuol dire che la sinistra non può, in linea di principio, entrare in una coalizione di governo con forze moderate? O che questo sia possibile solo a condizione che la propria impostazione politica entri di peso, tale e quale, nelle linee programmatiche dell’esecutivo? No, non vuol dire questo. Vuol dire però che la presenza al governo deve comportare alcuni evidenti tratti di discontinuità in assenza dei quali è bene distinguere, piuttosto che confondere, le responsabilità.
Provo a farmi capire meglio con alcuni esempi. Si può stare in un governo che continui a partecipare attivamente ad una guerra di occupazione, come quella in corso in Afghanistan, in flagrante violazione dell’articolo 11 della Costituzione? E’ tollerabile che mentre la scure dei tagli si abbatte violentemente sulla scuola pubblica, mentre il welfare viene ridotto ad un colabrodo, mentre un esercito di disoccupati involontari viene privato di qualsiasi sostegno al reddito, si perseveri nel finanziare con 3 milioni di euro quotidiani quella missione militare? E’ pensabile che un governo imperniato sul Pd revochi la spinta agli armamenti che sta divorando 30 miliardi per dotare il nostro arsenale bellico di 131 cacciabombardieri F35, 130 caccia Eurofighters, 100 elicotteri NH90, 10 fregate Fremm? E’ disposto un governo neo-ulivista a promuovere una legge che ostacoli e penalizzi fiscalmente le delocalizzazioni industriali combattendo apertamente politiche imprenditoriali che speculano sul dumping di manodopera e contrappongono lavoro a diritti? Può il Pd, con i suoi potenziali alleati, sostenere una legge che permetta di verificare la reale rappresentanza dei sindacati e che riconosca ai lavoratori il diritto di legittimare attraverso il voto referendario ogni atto negoziale sottoscritto in loro nome? Vogliono il Pd e la coalizione su di esso imperniato introdurre un reddito di cittadinanza, portare l’imposizione tributaria sulle rendite finanziarie a livelli europei, colpire le transazioni speculative attraverso l’introduzione di una Tobin tax, imporre una tassa sui patrimoni mobili e immobili nel solco di una riforma fiscale capace di produrre una politica di redistribuzione della ricchezza? Si può avere ragionevole certezza che quella coalizione difenderebbe i beni comuni, a partire dalla integrale proprietà pubblica dell’acqua e dei servizi idrici? E ancora: è realisticamente immaginabile che in quel programma di governo trovino spazio i pacs o il testamento biologico?
Si potrebbe continuare a lungo. Ma possono bastare questi pochi esempi. Nessuno degli interventi elencati, si badi bene, scuoterebbe la società capitalistica nei suoi fondamenti e, purtuttavia, ciò rappresenterebbe un mutamento vero e percepibile. Che, vorremmo essere smentiti, non è dato attendersi, considerati i paralizzanti equilibri che ingessano i democratici, che ne disegnano il tratto politico e culturale e che nessun esito delle primarie potrebbe sconvolgere. Si ritiene che non sia così? Allora, giù le carte. L’indisponibilità dichiarata dalla Fed a sedersi al tavolo dell’Ulivo non è frutto di un pregiudizio ideologico, di un arroccamento identitario, di una scelta aprioristica per l’opposizione, ma il risultato di una precisa e concreta analisi dei fattori e degli attori in campo, della loro natura, insieme ad una realistica consapevolezza della impossibilità, qui ed ora, di mutarne il segno e l’indirizzo politico di fondo. Di qui la proposta di un’alleanza delle forze di sinistra, autonoma e indipendente dal Pd, impegnata a ricostruire lavoro sociale, coesione politica e massa critica, riconquistando, per questa via, anche quella rappresentanza parlamentare di cui oggi è orba. Viceversa, se l’adesione all’Ulivo è considerata da una parte della sinistra una scelta aprioristica, disancorata da un progetto politico, coltivata nell’illusione che chi vince una consultazione primaria di coalizione possa plasmarne a propria immagine il profilo, credo si andrà incontro a qualche cocente delusione, frutto di quello strabismo politico che attribuisce virtù taumaturgiche ai condottieri di partiti personali.
Dino Greco, direttore di Liberazione
Ma l’eventualità delle elezioni anticipate e la proposta di una larga alleanza democratica per cacciare Berlusconi, avanzata in tempi non sospetti da Paolo Ferrero ed ora fatta propria da Pierluigi Bersani, ha rimesso tutte le bocce in movimento, suscitando allarme in coloro che grazie all’attuale legge elettorale e alla torsione bipolare del sistema politico erano riusciti ad espellere la sinistra dal Parlamento, cancellando dalla rappresentanza istituzionale le sole forze non omologate alla cultura mercatista.
Così, nei giorni scorsi, nell’intento di scoraggiare qualsiasi intesa con la Fed, il Corriere della sera non ha esitato ad inventarsi la fola di una cooptazione di Ferrero e Diliberto nelle liste del Pd, generando sconcerto a dritta e a manca. La smentita, da parte di tutti gli interessati, è stata pronta e netta, ma intanto la bufala ha viaggiato, secondo un ben collaudato modello di disinformazia. Repubblica è invece ricorsa ad un espediente più sofisticato: nella pubblicazione dell’ultimo sondaggio (che come tutte le esplorazioni della pubblica opinione è sempre saggio maneggiare con prudenza) ha del tutto omesso la Fed, in ragione di una stima che la vorrebbe sotto il 2% e ha sommato quella percentuale a quella attribuita ad altri “cespugli”, tutti classificati sotto la generica e indifferenziata denominazione di “altri”, accreditando dunque la percezione di una inesorabile marginalità della sinistra comunista e anticapitalista.
Piccoli trucchi, dove la rappresentazione “fotografica”, istantanea, di una tendenza elettorale si salda con la pratica dell’obiettivo, una sorta di profezia che si autodetermina. Come a dire: chi mette lì il suo voto lo investe in nulla, lo butta via. Il perimetro “interessante” - si suggerisce - è quello che arriva fino a Sel, della quale si dà evidentemente per scontata l’irrecuperabilità ad una coalizione unitaria di sinistra, autonoma e indipendente dal Pd. Tutti i riflettori vengono così proiettati sul cerchio più stretto della proposta di Bersani, sulla coalizione di governo, sul Nuovo Ulivo e sulla prossima disfida fra quanti si candidano a guidarlo nella contesa elettorale che, prima o poi, verrà. Il tema dell’alleanza democratica non ottiene invece la dovuta attenzione. Viene così messo in secondo piano l’obiettivo più importante e preliminare, quello di liberare il Paese dalla cancrena che sta divorando la democrazia e le istituzioni repubblicane, prima che la necrosi diventi irreversibile; quello cioè di lavorare alla più ampia convergenza di tutte le forze, pur di diverso orientamento politico, che tuttavia condividono la necessità di ripristinare la legalità costituzionale travolta dal golpismo del caudillo di Arcore e del suo corrotto sultanato.
La questione del governo, dell’omogeneità programmatica delle forze che lo compongono deve venire dopo che sia stata affrontata e vinta questa battaglia, vera e propria emergenza democratica. Tuttavia converrà venire in chiaro anche su questo punto ed è bene farlo subito per evitare che si trascinino equivoci e per rendere trasparente il rigore di un ragionamento politico. Che è - per chi scrive - il seguente.
L’esperienza del governo Prodi è lì a ricordarci che se stai al governo del Paese lo devi fare in ragione della effettiva possibilità di cambiare le cose, di compiere passi che facciano percepire il cambiamento come reale, come processo che muta e mugliora, nella materialità dei rapporti sociali, la vita delle persone. Quando questo non accade, come non è accaduto nel passato, si produce un distacco che nel tempo diventa frattura con la tua base sociale, tanto più grave quanto forte era l’aspettativa che avevi suscitato. E se malgrado tutto perseveri nel mantenere responsabilità di governo quando la rotta è palesemente diversa da quella per cui ti eri battuto e che era stata tracciata, allora si genera la convinzione che lo fai per te stesso: il rapporto tra mezzi e fini si rovescia, la tua credibilità va in frantumi e ne paghi, come è giusto che sia, tutti i prezzi. E’ già successo con effetti devastanti e duraturi. Non deve più succedere. Questo vuol dire che la sinistra non può, in linea di principio, entrare in una coalizione di governo con forze moderate? O che questo sia possibile solo a condizione che la propria impostazione politica entri di peso, tale e quale, nelle linee programmatiche dell’esecutivo? No, non vuol dire questo. Vuol dire però che la presenza al governo deve comportare alcuni evidenti tratti di discontinuità in assenza dei quali è bene distinguere, piuttosto che confondere, le responsabilità.
Provo a farmi capire meglio con alcuni esempi. Si può stare in un governo che continui a partecipare attivamente ad una guerra di occupazione, come quella in corso in Afghanistan, in flagrante violazione dell’articolo 11 della Costituzione? E’ tollerabile che mentre la scure dei tagli si abbatte violentemente sulla scuola pubblica, mentre il welfare viene ridotto ad un colabrodo, mentre un esercito di disoccupati involontari viene privato di qualsiasi sostegno al reddito, si perseveri nel finanziare con 3 milioni di euro quotidiani quella missione militare? E’ pensabile che un governo imperniato sul Pd revochi la spinta agli armamenti che sta divorando 30 miliardi per dotare il nostro arsenale bellico di 131 cacciabombardieri F35, 130 caccia Eurofighters, 100 elicotteri NH90, 10 fregate Fremm? E’ disposto un governo neo-ulivista a promuovere una legge che ostacoli e penalizzi fiscalmente le delocalizzazioni industriali combattendo apertamente politiche imprenditoriali che speculano sul dumping di manodopera e contrappongono lavoro a diritti? Può il Pd, con i suoi potenziali alleati, sostenere una legge che permetta di verificare la reale rappresentanza dei sindacati e che riconosca ai lavoratori il diritto di legittimare attraverso il voto referendario ogni atto negoziale sottoscritto in loro nome? Vogliono il Pd e la coalizione su di esso imperniato introdurre un reddito di cittadinanza, portare l’imposizione tributaria sulle rendite finanziarie a livelli europei, colpire le transazioni speculative attraverso l’introduzione di una Tobin tax, imporre una tassa sui patrimoni mobili e immobili nel solco di una riforma fiscale capace di produrre una politica di redistribuzione della ricchezza? Si può avere ragionevole certezza che quella coalizione difenderebbe i beni comuni, a partire dalla integrale proprietà pubblica dell’acqua e dei servizi idrici? E ancora: è realisticamente immaginabile che in quel programma di governo trovino spazio i pacs o il testamento biologico?
Si potrebbe continuare a lungo. Ma possono bastare questi pochi esempi. Nessuno degli interventi elencati, si badi bene, scuoterebbe la società capitalistica nei suoi fondamenti e, purtuttavia, ciò rappresenterebbe un mutamento vero e percepibile. Che, vorremmo essere smentiti, non è dato attendersi, considerati i paralizzanti equilibri che ingessano i democratici, che ne disegnano il tratto politico e culturale e che nessun esito delle primarie potrebbe sconvolgere. Si ritiene che non sia così? Allora, giù le carte. L’indisponibilità dichiarata dalla Fed a sedersi al tavolo dell’Ulivo non è frutto di un pregiudizio ideologico, di un arroccamento identitario, di una scelta aprioristica per l’opposizione, ma il risultato di una precisa e concreta analisi dei fattori e degli attori in campo, della loro natura, insieme ad una realistica consapevolezza della impossibilità, qui ed ora, di mutarne il segno e l’indirizzo politico di fondo. Di qui la proposta di un’alleanza delle forze di sinistra, autonoma e indipendente dal Pd, impegnata a ricostruire lavoro sociale, coesione politica e massa critica, riconquistando, per questa via, anche quella rappresentanza parlamentare di cui oggi è orba. Viceversa, se l’adesione all’Ulivo è considerata da una parte della sinistra una scelta aprioristica, disancorata da un progetto politico, coltivata nell’illusione che chi vince una consultazione primaria di coalizione possa plasmarne a propria immagine il profilo, credo si andrà incontro a qualche cocente delusione, frutto di quello strabismo politico che attribuisce virtù taumaturgiche ai condottieri di partiti personali.
Dino Greco, direttore di Liberazione
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