Mentre nella maggioranza imperversa una crisi senza precedenti, sulla scena del maggior partito di opposizione irrompe per l'ennesima volta Veltroni, che ripropone il ritorno alla spirito del Lingotto. Bersani, da oggi, dovrà anche guardarsi dai venti di guerra che soffiano all'interno del Pd
Mentre Berlusconi si prepara a ricompattare attorno ai fatidici cinque punti del suo nuovo programma di governo le varie anime di una maggioranza dilaniata dagli scandali e squassata dai boati della crisi interna, Veltroni sembra a sua volta sul punto di lanciare una nuova offensiva volta a destabilizzare una volta per sempre la leadership di Bersani.
A meno di un anno dall'ultimo congresso nazionale, spirano nuovi venti di guerra nell'area democratica: il segretario viene accusato di avere, con la sua strategia delle alleanze di largo respiro, "tradito lo spirito originario del progetto"; di avere frettolosamente archiviato il modello di partito premiato dagli elettori nel 2008; di essere, in definitiva, caratterizzato da un profilo non compatibile con la filosofia ispiratrice del PD.
Esultano i teorici della vocazione maggioritaria, che vedono nel nuovo Ulivo una evidente sconfessione del dogma dell'autosufficienza; esultano gli ex popolari, da sempre diffidenti verso la figura di un segretario di stampo troppo post-comunista; esulta quella ristretta fetta di elettorato che - inseguendo ora la bandiera di Marino, ora quella di Renzi, ora quella di Civati - continua ad agitare affannosamente il mantra di un rinnovamento confuso e confusionario, e per questo destinato talvolta a scadere nello sfascismo più sterile. Ritorna il PD del Lingotto, e Veltroni può riprendere a studiare da candidato premier.
In verità - lungi dal costituire un momento di rottura rispetto ad un passato che forse meriterebbe di essere riletto in chiave meno critica - , il Pd del Lingotto rappresenta il punto più alto di una parabola politica avviata all'inizio degli anni '90, la parabola di un eterno predestinato della sinistra italiana specializzatosi, con l'andare del tempo, nell'arte dell'eterno ritorno. Da alfiere della svolta della Bolognina a direttore de L'Unità, da esperto di cinema a vicepremier, da segretario dei DS a sindaco di Roma, da leader del Pd a capo dell'opposizione interna: è la parabola del "I care" e della "politica lieve", della sconfitta di Bologna nel 1999 e della beatificazione delle "notti bianche", del "si può fare" e dei "ma anche". E' la parabola politica di Walter il predestinato, dell'americano a Roma che pretendeva di trapiantare il modello - Obama nella patria di Berlinguer.
Gli effetti della strategia del partito gazebo, della Forza Italia di stampo riformista, della politica deideologizzata imperniata sul mantra delle primarie ad ogni costo (debitamente corrette dall'odioso artificio delle liste bloccate) sono sotto gli occhi di tutti: in un colpo solo, il predestinato ha recitato il de profundis per il governo-Prodi, ha privato la sinistra diffusa di un referente credibile sulla scena istituzionale, ha consegnato senza colpo ferile al Cavaliere le chiavi di Palazzo Chigi, per poi essere costretto ad abbandonare in fretta e furia il loft con vista sui Fori Imperiali, lasciando a Franceschini e a Bersani l'ingrato compito di rimettere insieme i cocci di un partito mai nato.
La musica si abbassa, scorrono i titoli di coda: la parabola veltroniana ha finalmente conosciuto il suo epilogo? A quanto pare, no: ci sono ancora i teorici della vocazione maggioritaria, gli ex popolari e i pasdaran del rinnovamento sfascista. C'è un segretario da sfiduciare, un partito da riconquistare, una leadership da ricostruire: Walter scrive un altro libro, e nel frattempo studia da candidato premier, cercando di non pensare a Bologna e a Guazzaloca, al falco Calearo ed alla silente Marianna Madia.
Intanto, Bersani si rimbocca le maniche e attraversa l'Italia piazza dopo piazza, per denunciare la regressione democratica che Berlusconi ha imposto al Paese, per spiegare alla gente che la creazione di una coalizione ampia, aperta a tutte le forze democratiche, riformiste e di sinistra che si riconoscono nei valori consacrati nella Carta Fondamentale costituisce l'unica soluzione percorribile per contrastare l'incedere di un regime putiniano. Bersani si rimbocca le maniche e dimostra di avere un progetto: criticabile, di difficile realizzazione, pieno di punti oscuri, ma un progetto.
Da oggi, nella attuazione di questa sua strategia, non dovrà però soltanto fronteggiare le difficoltà collegate alla frammentarietà di un quadro politico eterogeneo all'inverosimile; non dovrà solamente imprimere al partito una linea politica chiara, al fine di restituire fiducia ad una base stomacata dai troppi tentennamenti manifestati dai Democratici in ordine ai fondamentali temi della legalità e della questione morale. Dovrà anche guardarsi dai venti di guerra che imperversano nel centro sinistra italiano: Walter il predestinato prepara il suo eterno ritorno, e il popolo progressista inizia a sentire, neanche tanto lontano, l'odore inconfondibile dell'ennesima sconfitta annunciata.
Mentre Berlusconi si prepara a ricompattare attorno ai fatidici cinque punti del suo nuovo programma di governo le varie anime di una maggioranza dilaniata dagli scandali e squassata dai boati della crisi interna, Veltroni sembra a sua volta sul punto di lanciare una nuova offensiva volta a destabilizzare una volta per sempre la leadership di Bersani.
A meno di un anno dall'ultimo congresso nazionale, spirano nuovi venti di guerra nell'area democratica: il segretario viene accusato di avere, con la sua strategia delle alleanze di largo respiro, "tradito lo spirito originario del progetto"; di avere frettolosamente archiviato il modello di partito premiato dagli elettori nel 2008; di essere, in definitiva, caratterizzato da un profilo non compatibile con la filosofia ispiratrice del PD.
Esultano i teorici della vocazione maggioritaria, che vedono nel nuovo Ulivo una evidente sconfessione del dogma dell'autosufficienza; esultano gli ex popolari, da sempre diffidenti verso la figura di un segretario di stampo troppo post-comunista; esulta quella ristretta fetta di elettorato che - inseguendo ora la bandiera di Marino, ora quella di Renzi, ora quella di Civati - continua ad agitare affannosamente il mantra di un rinnovamento confuso e confusionario, e per questo destinato talvolta a scadere nello sfascismo più sterile. Ritorna il PD del Lingotto, e Veltroni può riprendere a studiare da candidato premier.
In verità - lungi dal costituire un momento di rottura rispetto ad un passato che forse meriterebbe di essere riletto in chiave meno critica - , il Pd del Lingotto rappresenta il punto più alto di una parabola politica avviata all'inizio degli anni '90, la parabola di un eterno predestinato della sinistra italiana specializzatosi, con l'andare del tempo, nell'arte dell'eterno ritorno. Da alfiere della svolta della Bolognina a direttore de L'Unità, da esperto di cinema a vicepremier, da segretario dei DS a sindaco di Roma, da leader del Pd a capo dell'opposizione interna: è la parabola del "I care" e della "politica lieve", della sconfitta di Bologna nel 1999 e della beatificazione delle "notti bianche", del "si può fare" e dei "ma anche". E' la parabola politica di Walter il predestinato, dell'americano a Roma che pretendeva di trapiantare il modello - Obama nella patria di Berlinguer.
Gli effetti della strategia del partito gazebo, della Forza Italia di stampo riformista, della politica deideologizzata imperniata sul mantra delle primarie ad ogni costo (debitamente corrette dall'odioso artificio delle liste bloccate) sono sotto gli occhi di tutti: in un colpo solo, il predestinato ha recitato il de profundis per il governo-Prodi, ha privato la sinistra diffusa di un referente credibile sulla scena istituzionale, ha consegnato senza colpo ferile al Cavaliere le chiavi di Palazzo Chigi, per poi essere costretto ad abbandonare in fretta e furia il loft con vista sui Fori Imperiali, lasciando a Franceschini e a Bersani l'ingrato compito di rimettere insieme i cocci di un partito mai nato.
La musica si abbassa, scorrono i titoli di coda: la parabola veltroniana ha finalmente conosciuto il suo epilogo? A quanto pare, no: ci sono ancora i teorici della vocazione maggioritaria, gli ex popolari e i pasdaran del rinnovamento sfascista. C'è un segretario da sfiduciare, un partito da riconquistare, una leadership da ricostruire: Walter scrive un altro libro, e nel frattempo studia da candidato premier, cercando di non pensare a Bologna e a Guazzaloca, al falco Calearo ed alla silente Marianna Madia.
Intanto, Bersani si rimbocca le maniche e attraversa l'Italia piazza dopo piazza, per denunciare la regressione democratica che Berlusconi ha imposto al Paese, per spiegare alla gente che la creazione di una coalizione ampia, aperta a tutte le forze democratiche, riformiste e di sinistra che si riconoscono nei valori consacrati nella Carta Fondamentale costituisce l'unica soluzione percorribile per contrastare l'incedere di un regime putiniano. Bersani si rimbocca le maniche e dimostra di avere un progetto: criticabile, di difficile realizzazione, pieno di punti oscuri, ma un progetto.
Da oggi, nella attuazione di questa sua strategia, non dovrà però soltanto fronteggiare le difficoltà collegate alla frammentarietà di un quadro politico eterogeneo all'inverosimile; non dovrà solamente imprimere al partito una linea politica chiara, al fine di restituire fiducia ad una base stomacata dai troppi tentennamenti manifestati dai Democratici in ordine ai fondamentali temi della legalità e della questione morale. Dovrà anche guardarsi dai venti di guerra che imperversano nel centro sinistra italiano: Walter il predestinato prepara il suo eterno ritorno, e il popolo progressista inizia a sentire, neanche tanto lontano, l'odore inconfondibile dell'ennesima sconfitta annunciata.
Carlo Dore Jr. , http://www.aprileonline.it/
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