“Se
si guarda il costo del lavoro reale, salari più oneri sociali al netto
dell’inflazione, fatto 100 il 2007 ora siamo a 87. Una riduzione di 13
punti, la stessa che c’è stata in Spagna, tanto celebrata per la sua
riforma del lavoro, dove la disoccupazione è però doppia di quella
italiana. Diminuire le ore lavorate e i salari può avere un senso in un
momento di crisi, ma non consente di far ripartire la domanda interna” Enrico Giovannini, ex Ministro del Lavoro del Governo Letta, intervista a Il fatto quotidiano dell’11 febbraio 2014.
Il numero magico è 30%, questo è il livello di svalutazione salariale che ha in mente il padronato italiano, un numero che Letta non garantiva: da qui il feroce attacco di Confindustria. In termini numerici parliamo di una cifra compresa tra 30 e 35 miliardi di euro, tale da pareggiare la deflazione salariale tedesca degli ultimi 12 anni, e ridurre il gap della produttività. La cifra è stata fornita da Cottarelli, ex Fondo Monetario, incaricato di approntare la Spending Review. La guerra di Confindustria ha ormai spostato il tiro. Dopo aver massacrato le “terze persone” che si annidano nel terziario e nella rendita immobiliare, l’oggetto di attacco sono le “terze persone” che affollano la pubblica amministrazione, soprattutto i livelli medio-alti.
Facile sopprimere le Province, ora l’attacco è diretto, e fulmineo, contro le Regioni, i veri centri di spesa pubblica che dominano dal 2001, da quando cioè il centro-sinistra varò la riforma del Titolo V. Da settimane il loro organo di stampa, Il Sole 24 Ore, spara bordate pazzesche contro il federalismo, omettendo di dire che negli anni novanta furono proprio gli industriali a volerlo. Altri tempi, altri imbecilli che dirigevano Viale dell’Astronomia. Da 3 anni il centro studi è diretto da Luca Paolazzi, che sulle regioni spara da anni bordate paurose. Lo stesso, nelle sue varie Congiunture Flash, ritiene che la deflazione in corso nel nostro Paese serva per riallineare i prezzi e i salari al “core” europeo, vale a dire tedesco, e per riguadagnare “competitività”. Giovannini, ex Ocse, già Presidente dell’Istat e profondo conoscitore delle dinamiche economiche italiane, la pensava diversamente e non mancava occasione, da ministro, per accusare le imprese dei loro pluridecennali scarsi investimenti in ricerca e innovazione, vero simbolo della scarsa competitività dell’apparato manifatturiero italiano. Al suo posto va Poletti, uno che la deflazione salariale la sa applicare nelle sue cooperative. Si profila dunque il trionfo del capitale industriale associato al capitale monetario. C’è però da fare una precisazione. E’ solo una parte del capitale industriale che può cantare vittoria: settori legati alla costruzione o fortemente dipendenti dal mercato interno arretrano paurosamente, per lasciare il posto a settori dell’agroalimentare, dei macchinari, della meccanica di precisione e dell’elettrotecnica che riescono a respirare con il commercio estero, in ogni caso stazionario nel 2013. Leggendo cronache locali dei giornali del nord pare inoltre che si stia assistendo ad un parziale processo di concentrazione manifatturiera, con i piccoli divorati dalle imprese del “quarto capitalismo” o dal capitale estero, principalmente tedesco. Il modello della subfornitura pare essere giunto al tramonto definitivo, buona parte della perdita della capacità produttiva, dell’ordine del 25%, sembra addebitarsi alla loro scomparsa, seguiti in questo dalla marea di artigiani e persone legate al terziario industriale ormai massacrati, serbatoio della destra italiana futura. La parte più arretrata del settore produttivo italiano è ormai marginale, chi resiste ha come prospettiva il credit crunch, dunque una vita breve. La centrale finanziaria italiana, Banca d’Italia, ritiene che questo processo di “ristrutturazione” debba essere definitivamente completato, esortando le banche a concedere prestiti solo a chi lo “merita”, con gli imprenditori che ci mettono capitali propri. Rimane dunque il fronte d’attacco al settore pubblico per reperire quelle masse di capitali utili alla deflazione salariale e a quello che può essere ritenuto a tutti gli effetti “ protezionismo fiscale”, con la formula “più Stato per il mercato”. Alla concentrazione manifatturiera si risponde con la centralizzazione dei processi decisionali pubblici, più rispondenti alle esigenze degli industriali giacché tolgono sovrapposizioni decisionali e possono incidere maggiormente con attività di lobbying. Il numero magico da raggiungere, ripetiamo, è 30% di riduzione salariale, da una parte per via monetaria, attraverso il nuovo modello di contrattazione di secondo livello, che annulla di fatto il contratto nazionale grazie al neocorporativismo della triplice sindacale, l’altra per via fiscale, attraverso enormi masse di denaro pubblico per imprese proiettate verso il mercato mondiale: il 13%, come accennava Giovannini, è stato raggiunto, rimane un ulteriore 17%. Le fonti finanziarie sono gli incentivi a fondo perduto di gestione regionale, le spese delle regioni e i fondi strutturali europei, che verranno utilizzati per “grandi progetti” utili alle imprese ben introdotte nelle commesse pubbliche (Federica Guidi è la donna adatta a questo scopo), finendola con le migliaia di micro progetti che hanno fatto la fortuna negli ultimi vent’anni dei dirigenti delle regioni, a cui si assesterà un colpo micidiale con la riforma del “Titolo V”: e anche queste “terze persone” saranno accompagnate all’uscio per dare spazio solo i profitti industriali. Il direttore generale di Confindustria vede un altro capitolo dove trovare risorse: la lorra all’evasione fiscale. Dopo aver sbattuto fuori dall’arena le micro e piccole imprese, gli artigiani e le “terze persone” del capitale commerciale, Viale dell’Astronomia pensa di rastrellare da loro le risorse per ridurre la fiscalità del lavoro. Dunque si ripropone la lotta tra capitale industriale e capitale commerciale, in vigore dal 2008.
Da un punto di vista marxiano il capitale industriale italiano ha finora adottato tre controtendenze alla caduta del saggio di profitto: la riduzione del capitale costante, sia attraverso delocalizzazioni, sia mediante il ricorso a fornitori dei paesi emergenti, a scapito di quelli interni ( processo iniziato a partire su per giù dal 2006); la svalorizzazione della forza lavoro, che colpisce ora anche fasce medie del settore pubblico; la concentrazione manifatturiera, che dal 2013 inizia i primi passi.
Mancano all’appello il ricorso al mercato azionario e la conquista del mercato estero, due pilastri della controtendenza alla caduta del saggio di profitto in assenza dei quali, specie il primo, la strategia del capitale industriale italiano sarà fallimentare. Sempre la centrale finanziaria italiana, succursale della Bce, la Banca d’Italia, ribadisce in ogni occasione pubblica il ricorso al “mercato dei capitali”, anche attraverso emissioni obbligazionarie. E’ per tale motivo che il vice direttore Panetta lo scorso mese ha quantificato in 150 miliardi di capitali la massa che le imprese italiane dovranno reperire nei mercati azionari e obbligazionari. Qualcuno lo sta facendo, Confindustria stessa invita i suoi associati a farlo, ma detto processo non coinvolge la masse del quarto capitalismo, ragion per cui la riduzione salariale da loro prospettata si rivelerà per loro un boomerang via crollo ulteriore della domanda interna.
Il capitale industriale italiano scopiazza un po’ il marxismo e per certi versi gli riesce. Il proletariato italiano si affida invece ad un comico. La tragicommedia italiana è tutta qua.
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