Luca Ciarrocca, I padroni del mondo. Come la cupola della finanza mondiale decide il destino dei governi e delle popolazioni, Chiarelettere, Milano 2013, pp. 242, euro 13,90
Il
libro di Ciarrocca, giornalista che ha vissuto per molti anni a New
York, dove ha fondato il sito indipendente di economia, finanza e
politica Wall Street Italia, è interessante
per almeno due motivi. Il primo è sicuramente costituito dalla mole di
dati riguardanti l’attuale crisi economica, esposti con chiarezza e
semplicità (doti di cui quasi tutti gli analisti economico/finanziari
sono generalmente sprovvisti). Il secondo dal fatto di essere un testo
(inconsapevolmente?) contraddittorio. Molto.
Ma procediamo con ordine.
Ma procediamo con ordine.
Il testo, pur inserendosi nell’attuale dibattito sull’utilità o meno
dell’euro e delle scelte governative ad esso collegate, evita i toni
della campagna anti-europeista ed anti-euro che rappresenta, nella
confusione generale odierna, la panacea universale per molte, troppe
forze politiche.
Inoltre, nonostante il titolo e i riferimenti ad una “cupola” finanziaria, l’opera non si occupa di ipotesi complottistiche né, tanto meno, del solito, strombazzatissimo dai poveri di spirito, Club Bilderberg.
Inoltre, nonostante il titolo e i riferimenti ad una “cupola” finanziaria, l’opera non si occupa di ipotesi complottistiche né, tanto meno, del solito, strombazzatissimo dai poveri di spirito, Club Bilderberg.
Parla invece, e molto, di concentrazione finanziaria ed economica.
“La
cupola non è il risultato di una colossale cospirazione di illuminati
attuata con diabolica strategia, quanto un corollario oggettivo di
decisioni che si producono per via di un’interazione parcellizzata di
migliaia di interessi utilitaristici” (pag. 126).
Accumulando dati su dati e seguendo, anche se forse l’autore non vorrebbe sentirselo dire, quel lavoro iniziato nel 1916 da Lenin con “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”. Tanto che, per fare un esempio, Deutsche Bank costituisce un elemento di continuità tra i due libri così distanti nel tempo e dal punto di vista ideologico, mentre i processi di concentrazione finanziaria e bancaria degli ultimi decenni fanno impallidire i già significativi dati riportati all’epoca dal rivoluzionario russo.
Protagonisti indiscussi dell’opera sono i cosiddetti banksters
(banchieri gangster) che si muovono a capo degli organismi finanziari
più potenti e più ricchi, almeno sulla carta, della maggioranza delle
nazioni del globo. Quegli organismi che oggi sono definiti come Too Big To Fail (troppo grandi per poter fallire), in gergo Tbtf.
E che per questo motivo non si accaparrano soltanto i profitti
prodotti dal sudore e dal lavoro di decine di milioni di lavoratori, ma
anche gli aiuti degli stati, di cui, naturalmente, finiscono col
dettare la politica.
“Sarebbero
in tutto una cinquantina, le mega aziende internazionali (in
maggioranza istituti finanziari e banche Tbtf) che, attraverso un
complicato incrocio proprietario, controllano il 40 per cento del
valore economico e finanziario di 43.060 multinazionali globali. E’ qui
il vero cuore dell’economia occidentale [...] Tra le prime venti ci
sono tutte le più note Tbtf, tra cui, ai primi posti, Barclays Bank,
JPMorgan Chase, Goldman Sachs. L’unica italiana è UniCredit, in 43esima
posizione” (pp. 121 – 123).
Mentre, si può aggiungere, sulla base dei dati forniti, Deutsche Bank Ag si trova al dodicesimo.
Ma la concentrazione finanziaria, tipica della progressione imperialistica, non si ferma lì.
“Lo
ha spiegato bene James Petras, professore di sociologia all’Università
di Binghamton (New York), in un articolo dal titolo eloquente Who Rules America?,
pubblicato nel novembre del 2007 sul suo sito web: « Oggi, secondo
alcuni calcoli, il 2 per cento delle famiglie controlla l’80 per cento
dell’intero patrimonio mondiale» [...] Questi gruppi, secondo Petras,
premono sui governi per salvare banche e aziende in bancarotta o
fallite, spingono perché si arrivi al pareggio di bilancio tagliando la
spesa sociale e il welfare” (pag. 121).
Naturalmente, oltre che determinare i governi e le loro scelte, i
Tbtf sono anche coinvolti in vere proprie truffe finanziarie e in
operazioni di riciclaggio oltre che protagonisti dei più clamorosi casi
di evasione fiscale, ma gli istituti Too big to fail sono anche Too big to jail (troppo grandi per essere condannati ed andare in prigione).
“Il
6 marzo 2013, nel corso di una testimonianza in un’audizione alla
Commissione Giustizia del Senato al Congresso di Washington, Eric Holder
(procuratore generale degli Stati Uniti) ha dichiarato: «Le dimensioni
delle più grandi istituzioni finanziarie hanno fatto sì che per il
dipartimento di Giustizia fosse difficile proporre l’azione penale e un
processo per reati criminali. L’accusa – che potrebbe minacciare
l’esistenza della banca stessa – nel caso degli istituti più grandi può
anche mettere a repentaglio l’economia nazionale e quella globale, per
via delle dimensioni e delle interconnessioni» Le grandi banche
costituiscono dunque il vero «nocciolo duro» del potere politico ed
economico su cui poggia il moderno capitalismo” (pag. 42)
“I megaistituti di credito del mondo hanno asset1 complessivi per un totale di 47 trilioni di dollari2 “ (pag. 24). Mentre “James Henry, ex-capo economista della società di consulenza aziendale McKinsey, nel suo studio condotto nel 2012 The Price of Offshore revisited,
sostiene che i patrimoni dei super ricchi di tutto il mondo occultati
in circa ottanta paradisi fiscali ammontano a 21.000 miliardi di
dollari. Anzi, in realtà la cifra potrebbe addiritura salire a 32.000
miliardi, dal momento che l’esperto nella sua analisi ha monitorato e
preso in considerazione solo i depositi bancari e gli investimenti
finanziari, tralasciando beni e proprietà come case, appartamenti,
ville, yacht e collezioni d’arte. Una cifra spropositata, che in termini
nominali è superiore al Pil di Stati Uniti, Giappone e Germania messi
insieme [...] Scrive Henry: «Le mancate entrate fiscali che risultano
dalle nostre stime sono enormi. Abbastanza da cambiare le finanze di
molti paesi. Il tutto costituisce un enorme buco nero nell’economia
mondiale»” (pp. 58 – 59)
Non occorre qui dilungarsi oltre sulla mole enorme di dati che
l’autore porta ancora sui fenomeni di riciclaggio di denaro sporco,
sull’autentico gioco d’azzardo costituito dagli investimenti e dalle
speculazioni sui diversi tipi di autentica spazzatura finanziaria
(derivati e altro) che “animano” bolle speculative e mercati azionari.
Anche per non togliere il “piacere della scoperta” ai futuri lettori
del libro. Ma una cosa è certa:
“la
speculazione ha nomi e volti. Sono i grandi player della finanza che
si indebitano per moltiplicare le loro scommesse sui mercati,
affiancati dagli hedge fund, che dipendono direttamente dalle banche
per linee di credito e operatività, e infine dalle grandi multinazionali, la cui attività sui mercati è spesso più redditizia e importante di quella produttiva” (pag. 97)
Alla fine della lettura del testo risulta dunque che la rovina di un
sistema economico e finanziario sempre più vicino alle regole del
gioco d’azzardo e dei casinò è stata soltanto procrastinata dal 2008 in
poi. L’azzardo sui derivati ha gonfiato a dismisura il valore nominale
del capitale circolante.
“I
numeri parlano chiaro, lo squilibrio è stupefacente anche per i non
addetti ai lavori: questi prodotti nel mondo valgono in totale 637
trilioni di dollari, cioè circa dieci volte il Pil mondiale [...] Non
abbiamo mai assistito a nulla di simile nella storia del mondo.
Soprattutto se pensiamo che il Pil globale si attesta a 71,6 trilioni
di dollari (dati del 2012), mentre è intorno ai 190 trilioni la
dimensione approssimativa del valore totale del debito pubblico e
privato in tutto il mondo” (pp.102-103)
“E’
un tavolo del casinò truccato, dove il banco vince sempre. La vera
corruzione risiede nel fatto che, se la scommessa funziona, l’istituto
di credito guadagna, in caso contrario, le perdite vengono socializzate.
Un espediente diabolico in cui tutti noi ormai siamo vittime in prima
persona, in quanto il nostro tenore di vita, di singoli e di paese,
continua a calare” (pag. 113)
“Il
meccanismo è perverso e totalmente fuori controllo. Un intreccio
malsano tra debiti governativi e passivo del bilancio delle banche che
continuerà a pesare per decenni sulle spalle dei cittadini inermi,
vessati da classi politiche miopi se non corrotte. E’ scandaloso che per
il solo saldo di interessi su debiti che crescono a dismisura, e non
saranno mai estinti, le economie nazionali come quella greca o italiana
siano ingabbiate nella non crescita e le popolazioni debbano
sopportare una micidiale doppietta di tasse alte e di tagli dei servizi
essenziali” ( pag. 109).
Un debito che non potrà mai essere pagato, basti pensare alla
situazione italiana in cui la crescita esponenziale del debito pubblico
è dovuta principalmente alla crescita dei titoli emessi per ripagare
annualmente gli interessi su quelli emessi precedentemente
richiederebbe manovre dell’ordine degli 80 – 90 miliardi di euro
all’anno, porterà inevitabilmente ad un’ulteriore catastrofe economico
finanziaria. Che l’autore, insieme a numerosi altri esperti
interpellati o intervistati, situa, al più tardi, intorno al 2018. A
meno che non siano prese drastiche, rigorose ed autoritarie misure tese
a limitare decisamente lo strapotere dei banksters e dei loro
istituti.
Ma qui si apre anche l’altra parte del libro, quella più
contraddittoria, in cui Ciarrocca tenta di delineare un progetto di
uscita dal disastro senza dover per forza modificare le regole del modo
di produzione capitalistico e della società mercantile basata sulla
circolazione delle merci e del denaro. Una proposta comunque di
difficile attuazione poiché, come dice ancora lo stesso autore:
“se
avessimo a che fare con uomini intelligenti e lungimiranti e non con
personaggi dominati dall’avidità, forgiati dalla cultura del profitto
avvallata da imponenti studi legali, governi e banche dovrebbero
puntare a una graduale riduzione della leva (leverage), la
perpetuazione di rischi fondata sull’indebitamento, sull’uso dei
derivati e sul sistema bancario ombra. Invece i banksters non
accetteranno nulla che ridimensioni il loro potere, a meno che non
venga imposto loro con la forza. Perché non è nel loro interesse” (pag. 107).
Nella proposta di cambiamento, basata su una diversa offerta di
denaro, non più soggiogata e determinata dai colossi del credito, e su
una svalutazione dell’euro, Marx non viene mai preso in considerazione,
così come non lo è, sicuramente, la lotta di classe e il suo diverso
punto di vista prospettico sull’antagonismo sostanziale e irriducibile
tra lavoro e capitale mentre l’attenzione è ancora rivolta alle
difficoltà, anzi all’autentica scomparsa, della classe media.
“La
politica ha continuato a fare il suo gioco, truccato, succhiando
dall’economia reale le poche risorse ancora disponibili. Risultato: la classe media, acquirente e consumatrice dei beni prodotti e immessi sul mercato dalle quarantamila multinazionali della «cupola», annaspa, alla ricerca di un benessere perduto che non troverà mai più.
Con diverse declinazioni: l’Asia cresce (anche se a ritmi rallentati);
gli Stati Uniti riemergono, ma con rischi sistemici latenti e
irrisolti. L’Europa arretra e si impoverisce” (pag. 128).
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