domenica 16 marzo 2014

Nel baratro di Sandro Moiso, Carmillaonline.com

Luca Ciarrocca, I padroni del mondo. Come la cupola della finanza mondiale decide il destino dei governi e delle popolazioni, Chiarelettere, Milano 2013, pp. 242, euro 13,90
Il libro di Ciarrocca, giornalista che ha vissuto per molti anni a New York, dove ha fondato il sito indipendente di economia, finanza e politica Wall Street Italia, è interessante per almeno due motivi. Il primo è sicuramente costituito dalla mole di dati riguardanti l’attuale crisi economica, esposti con chiarezza e semplicità (doti di cui quasi tutti gli analisti economico/finanziari sono generalmente sprovvisti). Il secondo dal fatto di essere un testo (inconsapevolmente?) contraddittorio. Molto.

Ma procediamo con ordine.
Il testo, pur inserendosi nell’attuale dibattito sull’utilità o meno dell’euro e delle scelte governative ad esso collegate, evita i toni della campagna anti-europeista ed anti-euro che rappresenta, nella confusione generale odierna, la panacea universale per molte, troppe forze politiche.
Inoltre, nonostante il titolo e i riferimenti ad una “cupola” finanziaria, l’opera non si occupa di ipotesi complottistiche né, tanto meno, del solito, strombazzatissimo dai poveri di spirito, Club Bilderberg.
Parla invece, e molto, di concentrazione finanziaria ed economica. 
La cupola non è il risultato di una colossale cospirazione di illuminati attuata con diabolica strategia, quanto un corollario oggettivo di decisioni che si producono per via di un’interazione parcellizzata di migliaia di interessi utilitaristici” (pag. 126).

Accumulando dati su dati e seguendo, anche se forse l’autore non vorrebbe sentirselo dire, quel lavoro iniziato nel 1916 da Lenin con “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo”. Tanto che, per fare un esempio, Deutsche Bank costituisce un elemento di continuità tra i due libri così distanti nel tempo e dal punto di vista ideologico, mentre i processi di concentrazione finanziaria e bancaria degli ultimi decenni fanno impallidire i già significativi dati riportati all’epoca dal rivoluzionario russo.
Protagonisti indiscussi dell’opera sono i cosiddetti banksters (banchieri gangster) che si muovono a capo degli organismi finanziari più potenti e più ricchi, almeno sulla carta, della maggioranza delle nazioni del globo. Quegli organismi che oggi sono definiti come Too Big To Fail (troppo grandi per poter fallire), in gergo Tbtf. E che per questo motivo non si accaparrano soltanto i profitti prodotti dal sudore e dal lavoro di decine di milioni di lavoratori, ma anche gli aiuti degli stati, di cui, naturalmente, finiscono col dettare la politica.
Sarebbero in tutto una cinquantina, le mega aziende internazionali (in maggioranza istituti finanziari e banche Tbtf) che, attraverso un complicato incrocio proprietario, controllano il 40 per cento del valore economico e finanziario di 43.060 multinazionali globali. E’ qui il vero cuore dell’economia occidentale [...] Tra le prime venti ci sono tutte le più note Tbtf, tra cui, ai primi posti, Barclays Bank, JPMorgan Chase, Goldman Sachs. L’unica italiana è UniCredit, in 43esima posizione” (pp. 121 – 123).
Mentre, si può aggiungere, sulla base dei dati forniti, Deutsche Bank Ag si trova al dodicesimo.
Ma la concentrazione finanziaria, tipica della progressione imperialistica, non si ferma lì.
Lo ha spiegato bene James Petras, professore di sociologia all’Università di Binghamton (New York), in un articolo dal titolo eloquente Who Rules America?, pubblicato nel novembre del 2007 sul suo sito web: « Oggi, secondo alcuni calcoli, il 2 per cento delle famiglie controlla l’80 per cento dell’intero patrimonio mondiale» [...] Questi gruppi, secondo Petras, premono sui governi per salvare banche e aziende in bancarotta o fallite, spingono perché si arrivi al pareggio di bilancio tagliando la spesa sociale e il welfare” (pag. 121).
Naturalmente, oltre che determinare i governi e le loro scelte, i Tbtf sono anche coinvolti in vere proprie truffe finanziarie e in operazioni di riciclaggio oltre che protagonisti dei più clamorosi casi di evasione fiscale, ma gli istituti Too big to fail sono anche Too big to jail (troppo grandi per essere condannati ed andare in prigione).
 
Il 6 marzo 2013, nel corso di una testimonianza in un’audizione alla Commissione Giustizia del Senato al Congresso di Washington, Eric Holder (procuratore generale degli Stati Uniti) ha dichiarato: «Le dimensioni delle più grandi istituzioni finanziarie hanno fatto sì che per il dipartimento di Giustizia fosse difficile proporre l’azione penale e un processo per reati criminali. L’accusa – che potrebbe minacciare l’esistenza della banca stessa – nel caso degli istituti più grandi può anche mettere a repentaglio l’economia nazionale e quella globale, per via delle dimensioni e delle interconnessioni» Le grandi banche costituiscono dunque il vero «nocciolo duro» del potere politico ed economico su cui poggia il moderno capitalismo” (pag. 42)
I megaistituti di credito del mondo hanno asset1 complessivi per un totale di 47 trilioni di dollari2 “ (pag. 24). Mentre “James Henry, ex-capo economista della società di consulenza aziendale McKinsey, nel suo studio condotto nel 2012 The Price of Offshore revisited, sostiene che i patrimoni dei super ricchi di tutto il mondo occultati in circa ottanta paradisi fiscali ammontano a 21.000 miliardi di dollari. Anzi, in realtà la cifra potrebbe addiritura salire a 32.000 miliardi, dal momento che l’esperto nella sua analisi ha monitorato e preso in considerazione solo i depositi bancari e gli investimenti finanziari, tralasciando beni e proprietà come case, appartamenti, ville, yacht e collezioni d’arte. Una cifra spropositata, che in termini nominali è superiore al Pil di Stati Uniti, Giappone e Germania messi insieme [...] Scrive Henry: «Le mancate entrate fiscali che risultano dalle nostre stime sono enormi. Abbastanza da cambiare le finanze di molti paesi. Il tutto costituisce un enorme buco nero nell’economia mondiale»” (pp. 58 – 59)
Non occorre qui dilungarsi oltre sulla mole enorme di dati che l’autore porta ancora sui fenomeni di riciclaggio di denaro sporco, sull’autentico gioco d’azzardo costituito dagli investimenti e dalle speculazioni sui diversi tipi di autentica spazzatura finanziaria (derivati e altro) che “animano” bolle speculative e mercati azionari. Anche per non togliere il “piacere della scoperta” ai futuri lettori del libro. Ma una cosa è certa:
la speculazione ha nomi e volti. Sono i grandi player della finanza che si indebitano per moltiplicare le loro scommesse sui mercati, affiancati dagli hedge fund, che dipendono direttamente dalle banche per linee di credito e operatività, e infine dalle grandi multinazionali, la cui attività sui mercati è spesso più redditizia e importante di quella produttiva” (pag. 97)
Alla fine della lettura del testo risulta dunque che la rovina di un sistema economico e finanziario sempre più vicino alle regole del gioco d’azzardo e dei casinò è stata soltanto procrastinata dal 2008 in poi. L’azzardo sui derivati ha gonfiato a dismisura il valore nominale del capitale circolante.
I numeri parlano chiaro, lo squilibrio è stupefacente anche per i non addetti ai lavori: questi prodotti nel mondo valgono in totale 637 trilioni di dollari, cioè circa dieci volte il Pil mondiale [...] Non abbiamo mai assistito a nulla di simile nella storia del mondo. Soprattutto se pensiamo che il Pil globale si attesta a 71,6 trilioni di dollari (dati del 2012), mentre è intorno ai 190 trilioni la dimensione approssimativa del valore totale del debito pubblico e privato in tutto il mondo” (pp.102-103)
E’ un tavolo del casinò truccato, dove il banco vince sempre. La vera corruzione risiede nel fatto che, se la scommessa funziona, l’istituto di credito guadagna, in caso contrario, le perdite vengono socializzate. Un espediente diabolico in cui tutti noi ormai siamo vittime in prima persona, in quanto il nostro tenore di vita, di singoli e di paese, continua a calare” (pag. 113)
“Il meccanismo è perverso e totalmente fuori controllo. Un intreccio malsano tra debiti governativi e passivo del bilancio delle banche che continuerà a pesare per decenni sulle spalle dei cittadini inermi, vessati da classi politiche miopi se non corrotte. E’ scandaloso che per il solo saldo di interessi su debiti che crescono a dismisura, e non saranno mai estinti, le economie nazionali come quella greca o italiana siano ingabbiate nella non crescita e le popolazioni debbano sopportare una micidiale doppietta di tasse alte e di tagli dei servizi essenziali” ( pag. 109).
Un debito che non potrà mai essere pagato, basti pensare alla situazione italiana in cui la crescita esponenziale del debito pubblico è dovuta principalmente alla crescita dei titoli emessi per ripagare annualmente gli interessi su quelli emessi precedentemente richiederebbe manovre dell’ordine degli 80 – 90 miliardi di euro all’anno, porterà inevitabilmente ad un’ulteriore catastrofe economico finanziaria. Che l’autore, insieme a numerosi altri esperti interpellati o intervistati, situa, al più tardi, intorno al 2018. A meno che non siano prese drastiche, rigorose ed autoritarie misure tese a limitare decisamente lo strapotere dei banksters e dei loro istituti.
Ma qui si apre anche l’altra parte del libro, quella più contraddittoria, in cui Ciarrocca tenta di delineare un progetto di uscita dal disastro senza dover per forza modificare le regole del modo di produzione capitalistico e della società mercantile basata sulla circolazione delle merci e del denaro. Una proposta comunque di difficile attuazione poiché, come dice ancora lo stesso autore:
se avessimo a che fare con uomini intelligenti e lungimiranti e non con personaggi dominati dall’avidità, forgiati dalla cultura del profitto avvallata da imponenti studi legali, governi e banche dovrebbero puntare a una graduale riduzione della leva (leverage), la perpetuazione di rischi fondata sull’indebitamento, sull’uso dei derivati e sul sistema bancario ombra. Invece i banksters non accetteranno nulla che ridimensioni il loro potere, a meno che non venga imposto loro con la forza. Perché non è nel loro interesse” (pag. 107).
Nella proposta di cambiamento, basata su una diversa offerta di denaro, non più soggiogata e determinata dai colossi del credito, e su una svalutazione dell’euro, Marx non viene mai preso in considerazione, così come non lo è, sicuramente, la lotta di classe e il suo diverso punto di vista prospettico sull’antagonismo sostanziale e irriducibile tra lavoro e capitale mentre l’attenzione è ancora rivolta alle difficoltà, anzi all’autentica scomparsa, della classe media.
La politica ha continuato a fare il suo gioco, truccato, succhiando dall’economia reale le poche risorse ancora disponibili. Risultato: la classe media, acquirente e consumatrice dei beni prodotti e immessi sul mercato dalle quarantamila multinazionali della «cupola», annaspa, alla ricerca di un benessere perduto che non troverà mai più. Con diverse declinazioni: l’Asia cresce (anche se a ritmi rallentati); gli Stati Uniti riemergono, ma con rischi sistemici latenti e irrisolti. L’Europa arretra e si impoverisce” (pag. 128).
Ma questa sembra essere la condanna di questa nuova età di mezzo in cui ci troviamo a vivere: la certezza del disastro accompagnata dall’insicurezza e dalla debolezza delle proposte di coloro che ancora rifiutano l’ipotesi, classista e rivoluzionaria, dell’esproprio e della ridistribuzione della ricchezza socialmente prodotta in nome di valori identitari che sono già storicamente e definitivamente morti (nazione, patria e patrimonio famigliare).



  1. Asset (in italiano cespite), è un termine usato per indicare i valori materiali e immateriali a utilità pluriennale facenti capo ad una proprietà. Nello stato patrimoniale sono parte delle attività  
  2. Un trilione equivale a mille miliardi  

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