Il declino ed il degrado dell’Italia sono evidenti, così come l’inutile galleggiamento della politica. Eppure, a parte qualche strillo in salsa grillina, tutto tace e perfino la rabbia diffusa pare cristallizzata. Ad altre latitudini, in nazioni conciate sotto taluni aspetti meno peggio di noi, si scende in piazza. Come scelta fisiologica per dare una scossa o la spallata finale a chi governa. Da noi, invece, non abbiamo nemmeno più voglia di emettere un rutto di disgusto per una pseudo-classe dirigente cialtrona che ci ha portato alla rovina.
In tutto ciò ci sono precise responsabilità collettive, prima ancora che della politica, troppo spesso indicata come unica colpevole. Alludo innanzitutto alle giovani generazioni – a cui mi ascrivo, nonostante abbia da poco superato i 40 anni – che paiono non avere sufficiente consapevolezza di come il Paese abbia ormai fottuto loro il futuro.
La maggior parte di noi assiste passiva al corso degli eventi. I più coraggiosi e capaci vanno all’estero e da là non tornerebbero per nessuna ragione al mondo. Ne ho avuto ulteriore conferma alcuni giorni fa, incontrando, a Londra, una “rappresentanza” della nutrita comunità italiana presente (i nostri connazionali registrati ufficialmente sono 500 mila!). Alla domanda “hai rimpianti?” tutti rispondono di no. Perché all’estero hanno trovato una sorta di paradiso terrestre, una realtà il più delle volte accogliente e comunque pronta a valorizzare meriti e competenze. E questo spiega perché molti italiani, a Londra, così come in tante altre città estere, occupano ruoli chiave.
Qui da noi sarebbero precari, ancora a farsi foraggiare dai genitori, in attesa del calcio nel sedere buono, sottopagati-utilizzati e con l’idea, comune a tanti della mia stessa generazione post-giovane, di aver buttato anni ed anni di studi e specializzazioni.
Ma la più grande e grave colpa va attribuita alla nostra borghesia. Che di illuminato, da decenni, ha ben poco. L’abbiamo vista all’opera negli ultimi 20 anni, la “buona” borghesia italiana. In particolare quella del nord del Paese. Che nel caso dei benpensanti con la puzza sotto il naso di “sinistra” ha assistito, con atteggiamento indolente, al tracollo istituzionale e morale. Incoraggiando finanche lo spolpamento di campioni nazionali per mano dei famigerati “capitani coraggiosi”.
In tanti altri casi, la nostra borghesia ha contribuito a depauperare quello che di buono era stato costruito in vari comparti dell’industria. Ed a saccheggiare i patrimoni famigliari. Ha abbracciato, in modo volgare, la finanziarizzazione dell’economia. Ha osannato Berlusconi. Si è in parte gettata nelle braccia del becero celodurismo leghista. Si è prostituita al cospetto del governo di turno pur di portare a casa un piatto di lenticchie.
Ha usato la politica per difendere la propria rendita di posizione, per ottenere aiuti, sussidi. Come i 15 miliardi a pioggia che ogni anno vanno agli amici di Confindustria e che nessuno osa tagliare. Ha inventato Monti – e qui alludo a tanti amici milanesi – pensando fosse una sorta di Berlusconi illuminato. Ed ora, in parte, pare strizzare l’occhiolino a Renzi, “perché – come mi ha detto pochi giorni fa un amico advisor – comunica bene ed è culturalmente attrezzato a dialogare con la finanza che conta”.
Quella italica è una borghesia che non fa neppure finta di essere liberale. Ed invece di denunciare la mostruosa concentrazione di potere nelle mani di pochi, se ne compiace. E che non ha nemmeno un rigurgito di coscienza per dire quanto possa fare male all’Italia un simile conflitto di interesse che si sta configurando in capo alla famiglia Agnelli. È quella borghesia che osanna figure come Lapo Elkann, che si dimena per partecipare agli aperitivi o alle cene di gala con questo o quel personaggio. Invece che spremersi la meningi per tracciare una nuova visione, o almeno per fare da “concimatore”di un progetto-paese. Con cui almeno provare a cavalcare gli stravolgimenti globali in atto, senza esserne solo travolti come sta accadendo.
La nostra è una borghesia ridicola, salottiera, con orizzonti mentali sempre più angusti. Per giunta molto presuntuosa. E, ingabbiata nella sua presunzione, non comprende ciò che è patrimonio culturale della borghesia di altri paesi: la coincidenza tra il proprio destino e l’interesse generale del Paese.
Tutto quuesto per dire che la battaglia per cambiare l’Italia – o la ribellione, che tanti evocano – , incomincia da un cambio di pelle della nostra borghesia, prima ancora che da cortei e tumulti nelle piazze.
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