giovedì 4 luglio 2013

La crisi del lavoro e il dominio delle oligarchie di Francesco Ciafaloni, Lo Straniero



Democrazia in crisi e tracollo della sinistra
Il collasso italiano, assai più profondo della crisi mondiale di cui è parte, non è solo né soprattutto politico. Gli aspetti materiali, culturali, sociali – la scomparsa di alcuni settori portanti della nostra economia, il dissesto ambientale; la dipendenza culturale; la povertà vera, la privazione di beni e servizi indispensabili, non solo la frugalità involontaria, di molti italiani – sono certo più profondi, più sostanziali, più difficili della crisi politica, nel senso di crisi dei partiti. Ma, se non siamo, per ora, tra gli assolutamente poveri, è la condizione politica del paese che ci lascia, che mi lascia, letteralmente senza parole. Non siamo nuovi in Italia alla denuncia dell’opportunismo, della frode, della corruzione, in politica. Lungo prometter con l’attender corto è stato scritto in italiano più di sette secoli fa. La crisi della politica attuale comincia almeno trent’anni fa. Ma il balbettio, la menzogna evidente, l’equivoco verbale, il gioco di parole così rozzo da non ingannare nessuno di molti politici e antipolitici italiani, di destra e di sinistra, in questi ultimi mesi, non lo avevo mai sentito prima.

Le stesse persone che ci dicevano pochi mesi fa che bisognava allungare la vita di lavoro fin quasi a settant’anni, anche per i lavori manuali – per favorire i giovani, per equità tra le generazioni – oggi programmano part time e uscite anticipate per i vecchi, sempre per favorire i giovani, per equità tra le generazioni. Che fosse materialmente impossibile realizzare tutti i tagli previsti dal governo Monti era chiaro; ed è stato anche scritto; non sui grandi giornali. Ma che, con qualche sostituzione di persone, ora si annuncino come ovvi tagli fiscali e incentivi di certo incompatibili con i principi di ieri, forse anche con le possibilità reali, è veramente troppo. Abbiamo sopportato un governo di unità nazionale che metteva insieme partiti incompatibili, almeno a parole, nell’immagine, che avrebbe dovuto metter fine a una politica di spesa irresponsabile a vantaggio dei ricchi e dei ladri. Ha preso misure che hanno colpito molti; ma non i ricchi e i ladri.
Ora ci chiedono di sopportare – con il patrocinio dello stesso Presidente della Repubblica – un governo che sospende e promette di abolire le misure che ieri si dichiaravano indispensabili. Non si era mai visto che si proponessero candidati alla Presidenza di opposto significato e li si bocciasse senza spiegare perché. Prima proposte di alleanza a Grillo; poi la candidatura Marini; poi quella Prodi; poi il bis di Napolitano, che promuove radicali mutamenti, per vie dubbie, della Costituzione che dovrebbe difendere.

Non ne possiamo più. I partiti politici hanno la fiducia di qualche per cento degli italiani. A parte il M5S che prende voti perché è contro tutti, i partiti non hanno la fiducia neppure di chi li vota. È probabile che quello di Berlusconi torni a essere il primo partito non perché sia aumentata la fiducia in lui ma perché tutti sanno che mente, che, qualunque cosa dica, proteggerà l’illegalità, l’accaparramento, ampiamente diffusi nella società italiana. Come ci siamo ridotti così? Quali sono le cause del tracollo politico del paese, che si intreccia al tracollo morale denunciato da Gaeta sul numero precedente di “Lo straniero”? Cosa è successo nell’ultimo quarto di secolo nella politica italiana? Perché la sinistra si è disfatta così?
Credo si sia verificato, in piccolo, un fenomeno analogo a quello della fine dell’Unione sovietica. Sono sparite le idee, i principi, che tenevano in piedi il paese, e la sinistra, ma gli uomini al potere, di tutte le sfumature di potere – al governo e all’opposizione – sono rimasti gli stessi. E hanno spolpato il Paese, appropriandosi privatamente di ciò che era pubblico, in tutte le forme. In Unione sovietica è crollato il partito unico; in Italia è sparito il gruppo dei partiti maggiori. Non solo nel senso che i loro esponenti sono stati presi con le mani nel sacco, ma anche nel senso che le idee di fondo – il cattolicesimo, sociale o reazionario; varie ipotesi di socialismo – sono evaporate. Tutti o quasi tutti hanno pensato che la prosperità fosse eterna, che la politica economica fosse quella decisa dalle grandi finanziarie e dalle grandi banche, secondo l’ideologia dominante; che si trattasse solo di contendersi il primato, che non poteva che toccare ai meglio organizzati, ai più furbi.

La lotta politica si è trasformata in lotta per la presenza nei luoghi in cui si esercita il potere dello Stato, o si esercitano i poteri, economici, amministrativi, propagandistici, che possono influire sullo Stato, sul Paese. Si è trasformata in lotta per difendere o allargare la propria quota nella lottizzazione di tutto: aziende, banche, giornali, Rai, pubblicità. I partititi minori hanno puntato a esercitare un potere di condizionamento; hanno rinunciato di fatto a una possibile alternativa, che implica conoscenza della realtà, assunzione di responsabilità, senso del limite. Hanno scelto la politica del “più uno”, come si usa dire, e della difesa della loro quota di lottizzazione. Il tragico “abbiamo una banca” di Fassino potrebbe assurgere a simbolo dell’essenza, e del tracollo, del suo partito. Peccato, per lui, che gli altri avessero più banche.

Per fare politica ci vogliono idee. Senza idee – lo diceva già Tocqueville – si finisce nel “moto browniano” degli interessi particolari, individuali; o nella soggezione a un demagogo. Usano espressioni molto simili Gaeta e Leogrande. Negli ultimi venti anni le idee dominanti sono state quelle del neoliberismo trionfante, del mercato come fine e come mezzo; come spiegazione di tutto. Il mercato è rimasta l’unica idea politica, che ha inglobato le modeste varianti identitarie. C’è stata la trasformazione in azienda di tutto: ospedali, scuole, istituti di ricerca, partiti – abbiamo avuto l’azienda-partito e il blog-partito, sempre con proprietari ben definiti, come in Russia. La pubblica amministrazione ha esternalizzato qualsiasi attività configurabile come lavoro, con una netta caduta di efficienza, e ha lottizzato tutto quanto fosse decisione. Il Pubblico impiego, le aziende di Stato, si sono riempite di piccoli e grandi funzionari di partito. I grandi, che decidevano e decidono gli appalti, la spartizione dei fondi, molto ben pagati – per la necessità di far fronte alla concorrenza delle alte retribuzione dei dirigenti privati, si è detto – i piccoli, quelli che svolgono la parte non appaltabile del lavoro, per la prima volta nella storia d’Italia, lasciati a marcire: mal pagati e senza rimpiazzi, come nella scuola, negli ospedali, nelle anagrafi. Ha ragione Gaeta a citare Berlinguer e Dossetti, che sono due diversi modi di dare una dimensione sociale all’etica. Ma, se non si fa qualcosa, rischiamo di tenerci il nostro Putin locale vita natural durante. Con la differenza che qui i poteri più importanti, quello finanziario e quello militare, vengono esercitati, su scala europea e su scala planetaria, senza che ci possiamo fare nulla. Bisogna restituire qualche idea alla politica, assumendocene la responsabilità, cioè cercando di non limitarci a tirare la giacca a qualcuno.

Il movimento per l’acqua pubblica, quello per i beni comuni, in generale, questo hanno fatto. Sono riusciti a porre un problema reale a tutti, al di là delle opinioni sulla storia e sul futuro di singoli proponenti, anche importanti; a scrivere con molto rigore il quesito referendario; a ottenere il risultato; a difenderlo.

Lavoro e salari; profitti; rendite


Non bisogna arrogarsi il diritto di imporre idee a nessuno. Soprattutto idee identitarie, con storie personali e conflitti personali al seguito. Questo ci ha perduto e continua a perderci: cioè l’aver trasformato la storia propria o quella del proprio gruppetto, peggio ancora la difesa del posto e delle carriere dei propri amici, in valori assoluti, in politica. Si può sostenere che anche queste sono idee politiche; ma riguardano solo quella che chiamiamo “classe politica”. Ciascuno di noi, uno dei quaranta milioni circa di cittadini italiani adulti, ha ben il diritto-dovere di dichiarare i propri principi etici, di proporre e sostenere idee e principi politici, fondati sulla realtà sociale, senza essere accusato di leninismo.

È scomparsa per un trentennio dalla discussione politica italiana, contro la Costituzione, la centralità del lavoro. Se ne parla ora perché il lavoro non si trova, perché la disoccupazione dei giovani supera il trenta per cento e al sud si avvicina alla metà. Se ne parla come fosse un sinonimo di reddito. Il lavoro non è solo reddito. Non è neanche solo economia. Non bisogna ridurre gli uomini a lavoro anche se abbiamo fatto di peggio, perché li abbiamo ridotti a consumo. Siamo diventati, abbiamo preteso di diventare una società di rentiers; nella grande maggioranza rentiers poveri – pensionati, proprietari della casa di residenza – in qualche caso rentiers ricchi o ricchissimi, come i grandi proprietari di aree urbanizzate, i finanzieri, la “borghesia compradora” ed esportatrice di capitali all’estero, come la chiamavamo una volta e che non riconosciamo più, anche se ci governa. Berlusconi compra all’estero e vende in Italia tecnologie, formati, serie televisive, prodotti dell’ingegno altrui; e ci guadagna su anche gonfiando le fatture, sostiene la Corte d’Appello di Milano. I Riva hanno fatto soldi a miliardi, e li hanno esportati all’estero, per sé, sottraendoli all’azienda, come sostengono la Procura e i giudici di Taranto, con la probabile compiacenza di chi misurava e controllava.

Se non si ha né il monopolio della moneta del mondo, né banche più grandi dell’intero paese, né il dubbio merito di finanziare i consumi con l’evasione fiscale degli altri, come avviene in Lussemburgo, in Svizzera, in Gran Bretagna, tocca produrre per vivere. Non si possono avere le stesse percentuali di lavoro nei servizi degli stati potenti o fraudolenti perché, con l’eccezione dei servizi alle imprese, si tratta di lavoro a produttività bassa e costante. E del resto la produzione di soldi a mezzo di soldi si è inceppata per tutti. Non si possono far soldi con la scuola, o con la sanità, a meno di cambiarne completamente la natura, raddoppiandone il costo per i ricchi ed escludendone i poveri. Se imitassimo il sistema sanitario degli Stati Uniti – tre o quattro anni di attesa di vita in meno – avremmo trovato la soluzione finale del problema delle pensioni: lasciar morire i vecchi poveri.

Anche solo per analizzare le misure fiscali o i programmi economici del governo, la distinzione tra salari, profitti e rendite consente di usare criteri diversi dalla pura quadratura dei conti e del vantaggio di parte. Due esempi dalle discussioni in corso.

Togliere l’Imu, che è sempre una tassa sul patrimonio, anche se non prevede esenzioni verso il basso, e non è progressiva, sarà come ridurre la fiscalità sull’industria, che colpisce salari e profitti? Ridurre i contributi assicurativi, come più o meno velatamente si propone, quando si parla di detassare il lavoro, colpendo perciò le pensioni, che sono calcolate col metodo contributivo, sarà come tassare i profitti? Incorporare l’Imu con la tassa raccolta rifiuti non sarà confondere una patrimoniale con il pagamento di un servizio, che potrebbe, dovrebbe, dipendere dalla quantità e qualità del servizio prestato? Se la patrimoniale è separata, se la fissa e la incassa il Comune, l’elettore sa che ne risponde il sindaco; come sa che della Tarsu rispondono il sindaco e l’azienda che fa la raccolta. Mettendo tutto insieme tendiamo a precipitare verso Napoli. Che gli Agnelli facciano soldi (profitti) costruendo automobili o incassando la rendita che viene dalla edificazione sulle aree industriali dismesse è lo stesso per Torino? Chiediamolo al 12% di disoccupati, ai cassintegrati ordinari, straordinari e in deroga. Anche i soldi fatti costruendo case sono profitti; si fanno facendo lavorare i muratori. Ma i soldi che si fanno affittando le case non fanno lavorare nessuno. Ci sono altri problemi sul costruire case e produrre automobili: i limiti alla edificazione; il modo di costruire – sicuro o no, ecosostenibile o no – che rimandano a temi centrali, di cui si parla. Ma anche la distinzione tra profitto e rendita, tra guadagnare dando lavoro e far soldi e basta aiuta a ragionare.

Non basta distinguere l’alto dal basso, come pure è necessario. Tito Boeri, di recente, ha affermato in un articolo su “la Repubblica” che tassare le sale giochi e i gratta e vinci colpisce i poveri più dell’Imu e perciò non bisogna farlo. Ovviamente, i poveri che giocano d’azzardo, come gruppo, ci rimettono, e molto. Sarà vero che grattano, e non vincono, più dei ricchi, perché quelli giocano d’azzardo nella finanza, e, come gruppo, salvo periodici incidenti di percorso, vincono. Ma sarà un delitto di lesa socialità mettere a rischio l’emozione del singolo povero che rischia, e mediamente perde, un po’ di euro ogni giorno dal giornalaio o al bar? Dobbiamo incentivare i bet shops che aprono nei paesi?

Educazione e lavoro
Non riesco a fare come Gaeta, non riesco a non cercare di informarmi il più possibile, giorno per giorno, sulle decisioni economiche e politiche, pur sapendo che le informazioni importanti non si trovano sui giornali, che per un uomo della strada come me sono anche più difficili da scoprire oggi che in passato. Ma anch’io, come Gaeta, ho bisogno di ritagliarmi una sfera di critica, di intervento, che vale quello che vale, ma mantiene in vita una speranza.

Forse oggi quelli che contano chiamano “virtù la riduzione di alcune conquiste della civiltà europea” – lo ha scritto, criticamente, Marcello De Cecco su “Affari e finanza” di lunedì 13 maggio. Forse i potenti del mondo stanno riuscendo a scollarci da questa brutta abitudine di votare. Forse realizzeranno un vecchio sogno della sociologia di destra, la democrazia non partecipata. Forse la governance, cioè il governo di fatto, sostituirà il governo democraticamente eletto. Certo il governo in carica prosegue le politiche di dieci anni fa e il presidente di Confindustria Squinzi, che chiede giustamente attenzione e soldi per l’industria, dimentico delle responsabilità passate, propone come via d’uscita la riduzione dei salari e la facilità di licenziare. Non credo si tratti di una buona soluzione neppure per gli industriali, che non riusciranno a far fronte alla concorrenza asiatica impoverendo e frastornando il lavoro. Certo non è una soluzione per chi lavora.

Ma, per riprendere la strada della costruzione dei diritti del lavoro, come un secolo fa, i giovani dovranno formarsi come lavoratori e come cittadini, per necessità e per scelta. Dovremo prendere atto che la libertà non è il rifiuto di ogni regola e che la creatività ha bisogno di competenza. La crescita come condizione naturale del mondo è una illusione; la libertà di scegliere giorno per giorno l’attività preferita, senza vincoli di necessità materiali è possibile solo in una società molto bene organizzata e armonica, come la nostra è ben lontana dall’essere. Solo chi ha una famiglia ricca e potente se lo può permettere. E, in ogni caso, senza competenza, disciplina, idee, fortuna, anche i figli di ricchi e potenti restano solo dei consumatori.

L’obbedienza non è una virtù, ma la disobbedienza senza principi lo è anche meno. Che ci piaccia o no, non sarà consentita a lungo. Abbiamo bisogno di una educazione un po’ benedettina. Non è una novità. Marco Rossi Doria (e molti con lui) prova a farlo da vari decenni. Célestin Freinet e Bruno Ciari sono autori di riferimento per questa rivista e per “Gli asini”. Ma non si può dire che si tratti di comportamenti e idee maggioritari, generali. Non abbiamo bisogno di mandare più persone alle scuole di formazione professionale, che spesso sono di pessima qualità e qualche volta una vera truffa, per toglierle dagli istituti tecnici e dai licei, dove possono disturbare. Abbiamo bisogno di includere, nelle scuole migliori di ogni ordine e grado, nell’attività volontaria di educazione, la materialità del mondo, il senso del limite, il lavoro e l’autonomia che nasce dal lavoro utile: formazione al lavoro e formazione alla cittadinanza.

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