In questo inizio d’anno, i figuranti dell’ennesimo Grande Fratello sembrano svaniti nella nebbia che inghiotte le città, e anche del campionato di calcio si parla meno, nei bar, malgrado il protagonismo arruffone di Moratti.
Il derby che tiene banco non è una sfida calcistica, ma una partita maledettamente più seria, una partita che si gioca davanti ai cancelli di Mirafiori, e sta dividendo l’Italia, la sua opinione pubblica, i partiti “progressisti”.
I contendenti sono quelli di sempre: da una parte il Capitale, con i suoi fiancheggiatori politici; dall’altra, il Lavoro. Ai lavoratori, oggi, resta un unico campione, la FIOM: gli altri, davanti all’offensiva di Marchionne, se la sono data a gambe, o sono passati in fretta a quello che per molti è il vincitore annunciato - del referendum, dello scontro, della guerra tra ricchi e poveri. Un’autentica Blitzkrieg, quella scatenata dall’AD Fiat: prima il fulmineo assalto a Pomigliano, poi l’assedio del Lingotto – eppure sono stati in parecchi a disapprovare non l’aggressività del supermanager, bensì la scelta, fatta dall’ultimo sindacato italiano rimasto, di opporre resistenza.
A parere di chi scrive entrare nel merito di queste critiche è utile, perché esse ci offrono spunti per un’analisi a vasto raggio. Non mi riferisco naturalmente alle frasi meschine pronunciate da qualche sindacalista giallo, od alle quotidiane sparate del minister Sacconi: parlo di obiezioni serie e argomentate apparse su numerosi quotidiani.
L’accusa principale alla FIOM è quella di combattere una battaglia ideologica, di non essere al passo con i tempi. Si afferma che a dipingere il nuovo quadro non è stato Marchionne, ma la realtà cogente della globalizzazione: o le imprese ed i lavoratori si adeguano alla concorrenza indocinese (semplifichiamo all’eccesso), oppure le prime chiudono i battenti, i secondi finiscono in strada. Insomma quella “proposta” da Marchionne è l’unica via: c’est a prendre ou a laisser.
Ai metalmeccanici di Landini si muove un ulteriore rimprovero: la FIOM ha (avrebbe) abdicato al suo ruolo sindacale, per assumerne uno marcatamente politico, anzi partitico. Le prove? L’appello alle forze del centrosinistra a schierarsi, ed il rifiuto, recentemente ribadito dal segretario, a qualsiasi ipotesi di firma “tecnica”. Non si può far politica sulla pelle dei lavoratori, li rampogna qualche commentatore ben pasciuto.
Ritengo che, entro certi limiti, questi giudizi – o perlomeno il dato di partenza – siano fondati, ma che il discorso possa essere in qualche modo capovolto: vale a dire, che quanto viene addebitato come colpa debba, al contrario, essere considerato un merito.
Mi spiego meglio.
E’ indubitabile che la FIOM sia impegnata in un confronto politico – nel senso che riguarda la comunità intera ed i suoi rapporti sociali, non solo alcune migliaia di lavoratori. La tesi del sindacato è la seguente: qui non si discute solo di turni, rappresentanza sindacale e diritti dei metalmeccanici. Se passa la linea Marchionne – già imitata, tra gli altri, da Fincantieri – viene stravolta la fisionomia complessiva della società. L’approdo è una deriva autoritaria, classista: l’approdo è l’800, secondo Landini, mentre Giorgio Cremaschi parla apertamente di “fascismo”. La dichiarazione del Presidente del Comitato centrale della FIOM ha provocato un putiferio, ma il termine, ad avviso di chi scrive, è stato scelto con cura, e l’uso non è improprio. Nell’immaginario collettivo, il fascismo si identifica con l’olio di ricino, le camicie nere ed il testone del Duce; ma la sua vera essenza furono (sono) l’autoritarismo ed il ripudio della democrazia e dei diritti.
Che Marchionne sia un tipo autoritario è fuori discussione: lo testimoniano i suoi diktat, la sua arroganza dentro e fuori le mura delle fabbriche, la sua indisponibilità al dialogo. O fate come dico io, oppure me ne vado… in Serbia, in America, su Saturno.
Ma c’è dell’altro: in quel subordinare la permanenza della Fiat a Torino (e in Italia) al risultato positivo del referendum si palesa il disprezzo del manager italo-canadese per le regole e lo spirito della democrazia. Come un personaggio de “Il Marchese del grillo”, egli sembra dire: “Io so’ io, e voi non siete un cazzo.”
E’ democratico tale atteggiamento? Evidentemente no; ma questa banalissima constatazione ci obbliga a porre un interrogativo più generale: è compatibile con la democrazia un sistema – quello capitalista, per intenderci – in cui un uomo, od una cerchia ristretta di persone, decide, senza possibilità di appello, del destino di migliaia, o addirittura di milioni di propri simili? E ancora: è ammissibile, anzi: è ragionevole, che, al netto delle stock options, il dottor Marchionne “guadagni” uno stipendio annuo di 3 milioni di euro, indipendentemente dai risultati dell’azienda Fiat? L’enorme squilibrio economico tra chi sta in testa e chi in coda non produce, a sua volta, un’inevitabile distorsione dei meccanismi democratici? La risposta, questa volta, è sì, e la dimostrazione l’abbiamo sotto gli occhi: negli USA, le banche che hanno causato la crisi sono state quasi tutte salvate con denaro pubblico, e all’indomani dell’intervento statale CEO e top managers hanno ripreso ad intascare, nonostante gli orrori commessi, bonus milionari. Nessun Obama, invece, si è interessato alla sorte dei cittadini comuni che, impossibilitati a pagare i mutui, hanno perduto le loro case, ed oggi vagano, senza prospettive di impiego, da una città all’altra. Come nel ‘300, ci sono i “vermi della terra”, e ci sono i “leoni”.
Ma allora cosa resta della nostra democrazia, se a dettare l’agenda ai governi sono sempre le elites, le lobbies, i superpoteri economici? Una vuota parodia, la grottesca commedia dell’arte che va in scena in parlamenti pieni zeppi di nullità e furbetti. La golden share della democrazia contemporanea è nelle mani di chi ha i mezzi per persuadere o costringere le masse, con la forza o il ricatto: tutto il resto è mera apparenza.
Ebbene, il grande merito della FIOM è stato quello di far sì che “i grigi” uscissero allo scoperto, con il loro codazzo di portaordini e lacchè: il velo di Maia è stato finalmente lacerato. Analisi che fino a ieri erano relegate nelle sedi polverose di partiti extraparlamentari campeggiano oggi sulle prime pagine dei giornali – ed ottenere che a mettere in discussione le fondamenta stesse del capitalismo siano personaggi del calibro di Scalfari, de Magistris e Flores d’Arcais non è stato risultato da poco.
Ma i vertici della FIOM sanno bene che la loro può essere la classica vittoria di Pirro, sanguinosa ed inutile: perciò cercano di allargare il fronte anticapitalista. Una mossa politica? Certo, ma anche l’unica possibile, in questo frangente.
La vertenze di Pomigliano prima, di Mirafiori poi, assumono un carattere esemplare, simbolico, che è evidentemente sfuggito a chi pretende una firma “tecnica” sul contratto. L’esito dello scontro non dipende neppure dal risultato del referendum, che sarà probabilmente lo stesso di Pomigliano: non si è mai troppo sereni con la pistola del licenziamento puntata alla nuca.
Ciò che importa, tuttavia, è che l’opinione pubblica si sia accorta che quella metaforica pistola esiste, è carica, e domani potrà essere usata contro chiunque non faccia parte degli eletti; quello che conforta è che molte persone distratte si siano rese conto, seguendo la vicenda, che la globalizzazione è un male oggettivo, che corrode lo Stato democratico e genera miseria; e che – per dirla con Paolo Ferrero – “il capitalismo fa schifo”.
Farà anche schifo, ma dobbiamo tenercelo – ribatte qualcuno – il processo che stiamo vivendo è irreversibile.
Questo dogma della generale validità nel tempo delle leggi economiche capitaliste è stato già smontato 150 anni orsono, da un pensatore le cui previsioni si stanno in gran parte rivelando esatte. Lo Stato sociale ha rappresentato una parentesi forse non messa in conto, ma resa possibile – e conveniente, per i poteri economici – solo dalla divisione del mondo in due blocchi, e dalla capacità di attrazione che (purtroppo immeritatamente) l’URSS esercitava sulle masse lavoratrici occidentali.
Oggi il capitale è onnipotente, o si crede tale: perciò non accetterà compromessi, né riforme che vadano in senso opposto alla precarizzazione ed alla rinuncia ai diritti acquisiti. E tuttavia la situazione è instabile, esplosiva: in tutta Europa si accendono focolai di rivolta, e anche chi non manifesta certe domande comincia a porsele, con angoscia.
La FIOM ha dato una primissima risposta: non bisogna cedere di un millimetro, è necessario dar vita, a sinistra, a un Partito del lavoro.
Come Socialisti, dobbiamo assicurare il nostro contributo, per la riuscita dell’impresa; ma nella realtà contemporanea, la lotta va fatta a livello sovranazionale, perlomeno europeo.
Le forze della Sinistra continentale debbono saldarsi il prima possibile, per costituire un unico fronte che dia voce – facendole proprie - alle rivendicazioni provenienti dalle più diverse categorie sociali: studenti, lavoratori, pensionati… perché no? anche piccoli imprenditori.
Lo scopo non può essere quello di “riformare” il Capitalismo, perché la tigre (anzi, la iena) non si addomestica: lo scopo è quello di rimpiazzare l’attuale sistema con uno ispirato ai valori del Socialismo, cioè la democrazia, la libertà – che non esiste senza sostanziale eguaglianza – il rifiuto della logica del profitto, il riconoscimento della dignità del cittadino lavoratore. L’Europa è abbastanza grande e sufficientemente sviluppata per chiudere le porte alla globalizzazione; o, meglio ancora, per farsi missionaria nel mondo di un nuovo credo sociale ed economico.
Ogni essere umano preferisce istintivamente la libertà alla servitù: ma molto spesso, avendo sperimentato soltanto la seconda, non è nemmeno in grado di concepire la prima. A noi fargliela scoprire; ma anzitutto dobbiamo conquistarcela a casa nostra.
Rivelando il moderno fascismo dei Marchionne, la FIOM ci ha insegnato che non bisogna avere paura di guardare in faccia la realtà – perché solo conoscendola è dato agli uomini cambiarla.
Non è una lezione da poco: l’auspicio è che venga appresa immediatamente.
Norberto FRAGIACOMO
VICESEGRETARIO E CAPO UFFICIO STAMPAIl derby che tiene banco non è una sfida calcistica, ma una partita maledettamente più seria, una partita che si gioca davanti ai cancelli di Mirafiori, e sta dividendo l’Italia, la sua opinione pubblica, i partiti “progressisti”.
I contendenti sono quelli di sempre: da una parte il Capitale, con i suoi fiancheggiatori politici; dall’altra, il Lavoro. Ai lavoratori, oggi, resta un unico campione, la FIOM: gli altri, davanti all’offensiva di Marchionne, se la sono data a gambe, o sono passati in fretta a quello che per molti è il vincitore annunciato - del referendum, dello scontro, della guerra tra ricchi e poveri. Un’autentica Blitzkrieg, quella scatenata dall’AD Fiat: prima il fulmineo assalto a Pomigliano, poi l’assedio del Lingotto – eppure sono stati in parecchi a disapprovare non l’aggressività del supermanager, bensì la scelta, fatta dall’ultimo sindacato italiano rimasto, di opporre resistenza.
A parere di chi scrive entrare nel merito di queste critiche è utile, perché esse ci offrono spunti per un’analisi a vasto raggio. Non mi riferisco naturalmente alle frasi meschine pronunciate da qualche sindacalista giallo, od alle quotidiane sparate del minister Sacconi: parlo di obiezioni serie e argomentate apparse su numerosi quotidiani.
L’accusa principale alla FIOM è quella di combattere una battaglia ideologica, di non essere al passo con i tempi. Si afferma che a dipingere il nuovo quadro non è stato Marchionne, ma la realtà cogente della globalizzazione: o le imprese ed i lavoratori si adeguano alla concorrenza indocinese (semplifichiamo all’eccesso), oppure le prime chiudono i battenti, i secondi finiscono in strada. Insomma quella “proposta” da Marchionne è l’unica via: c’est a prendre ou a laisser.
Ai metalmeccanici di Landini si muove un ulteriore rimprovero: la FIOM ha (avrebbe) abdicato al suo ruolo sindacale, per assumerne uno marcatamente politico, anzi partitico. Le prove? L’appello alle forze del centrosinistra a schierarsi, ed il rifiuto, recentemente ribadito dal segretario, a qualsiasi ipotesi di firma “tecnica”. Non si può far politica sulla pelle dei lavoratori, li rampogna qualche commentatore ben pasciuto.
Ritengo che, entro certi limiti, questi giudizi – o perlomeno il dato di partenza – siano fondati, ma che il discorso possa essere in qualche modo capovolto: vale a dire, che quanto viene addebitato come colpa debba, al contrario, essere considerato un merito.
Mi spiego meglio.
E’ indubitabile che la FIOM sia impegnata in un confronto politico – nel senso che riguarda la comunità intera ed i suoi rapporti sociali, non solo alcune migliaia di lavoratori. La tesi del sindacato è la seguente: qui non si discute solo di turni, rappresentanza sindacale e diritti dei metalmeccanici. Se passa la linea Marchionne – già imitata, tra gli altri, da Fincantieri – viene stravolta la fisionomia complessiva della società. L’approdo è una deriva autoritaria, classista: l’approdo è l’800, secondo Landini, mentre Giorgio Cremaschi parla apertamente di “fascismo”. La dichiarazione del Presidente del Comitato centrale della FIOM ha provocato un putiferio, ma il termine, ad avviso di chi scrive, è stato scelto con cura, e l’uso non è improprio. Nell’immaginario collettivo, il fascismo si identifica con l’olio di ricino, le camicie nere ed il testone del Duce; ma la sua vera essenza furono (sono) l’autoritarismo ed il ripudio della democrazia e dei diritti.
Che Marchionne sia un tipo autoritario è fuori discussione: lo testimoniano i suoi diktat, la sua arroganza dentro e fuori le mura delle fabbriche, la sua indisponibilità al dialogo. O fate come dico io, oppure me ne vado… in Serbia, in America, su Saturno.
Ma c’è dell’altro: in quel subordinare la permanenza della Fiat a Torino (e in Italia) al risultato positivo del referendum si palesa il disprezzo del manager italo-canadese per le regole e lo spirito della democrazia. Come un personaggio de “Il Marchese del grillo”, egli sembra dire: “Io so’ io, e voi non siete un cazzo.”
E’ democratico tale atteggiamento? Evidentemente no; ma questa banalissima constatazione ci obbliga a porre un interrogativo più generale: è compatibile con la democrazia un sistema – quello capitalista, per intenderci – in cui un uomo, od una cerchia ristretta di persone, decide, senza possibilità di appello, del destino di migliaia, o addirittura di milioni di propri simili? E ancora: è ammissibile, anzi: è ragionevole, che, al netto delle stock options, il dottor Marchionne “guadagni” uno stipendio annuo di 3 milioni di euro, indipendentemente dai risultati dell’azienda Fiat? L’enorme squilibrio economico tra chi sta in testa e chi in coda non produce, a sua volta, un’inevitabile distorsione dei meccanismi democratici? La risposta, questa volta, è sì, e la dimostrazione l’abbiamo sotto gli occhi: negli USA, le banche che hanno causato la crisi sono state quasi tutte salvate con denaro pubblico, e all’indomani dell’intervento statale CEO e top managers hanno ripreso ad intascare, nonostante gli orrori commessi, bonus milionari. Nessun Obama, invece, si è interessato alla sorte dei cittadini comuni che, impossibilitati a pagare i mutui, hanno perduto le loro case, ed oggi vagano, senza prospettive di impiego, da una città all’altra. Come nel ‘300, ci sono i “vermi della terra”, e ci sono i “leoni”.
Ma allora cosa resta della nostra democrazia, se a dettare l’agenda ai governi sono sempre le elites, le lobbies, i superpoteri economici? Una vuota parodia, la grottesca commedia dell’arte che va in scena in parlamenti pieni zeppi di nullità e furbetti. La golden share della democrazia contemporanea è nelle mani di chi ha i mezzi per persuadere o costringere le masse, con la forza o il ricatto: tutto il resto è mera apparenza.
Ebbene, il grande merito della FIOM è stato quello di far sì che “i grigi” uscissero allo scoperto, con il loro codazzo di portaordini e lacchè: il velo di Maia è stato finalmente lacerato. Analisi che fino a ieri erano relegate nelle sedi polverose di partiti extraparlamentari campeggiano oggi sulle prime pagine dei giornali – ed ottenere che a mettere in discussione le fondamenta stesse del capitalismo siano personaggi del calibro di Scalfari, de Magistris e Flores d’Arcais non è stato risultato da poco.
Ma i vertici della FIOM sanno bene che la loro può essere la classica vittoria di Pirro, sanguinosa ed inutile: perciò cercano di allargare il fronte anticapitalista. Una mossa politica? Certo, ma anche l’unica possibile, in questo frangente.
La vertenze di Pomigliano prima, di Mirafiori poi, assumono un carattere esemplare, simbolico, che è evidentemente sfuggito a chi pretende una firma “tecnica” sul contratto. L’esito dello scontro non dipende neppure dal risultato del referendum, che sarà probabilmente lo stesso di Pomigliano: non si è mai troppo sereni con la pistola del licenziamento puntata alla nuca.
Ciò che importa, tuttavia, è che l’opinione pubblica si sia accorta che quella metaforica pistola esiste, è carica, e domani potrà essere usata contro chiunque non faccia parte degli eletti; quello che conforta è che molte persone distratte si siano rese conto, seguendo la vicenda, che la globalizzazione è un male oggettivo, che corrode lo Stato democratico e genera miseria; e che – per dirla con Paolo Ferrero – “il capitalismo fa schifo”.
Farà anche schifo, ma dobbiamo tenercelo – ribatte qualcuno – il processo che stiamo vivendo è irreversibile.
Questo dogma della generale validità nel tempo delle leggi economiche capitaliste è stato già smontato 150 anni orsono, da un pensatore le cui previsioni si stanno in gran parte rivelando esatte. Lo Stato sociale ha rappresentato una parentesi forse non messa in conto, ma resa possibile – e conveniente, per i poteri economici – solo dalla divisione del mondo in due blocchi, e dalla capacità di attrazione che (purtroppo immeritatamente) l’URSS esercitava sulle masse lavoratrici occidentali.
Oggi il capitale è onnipotente, o si crede tale: perciò non accetterà compromessi, né riforme che vadano in senso opposto alla precarizzazione ed alla rinuncia ai diritti acquisiti. E tuttavia la situazione è instabile, esplosiva: in tutta Europa si accendono focolai di rivolta, e anche chi non manifesta certe domande comincia a porsele, con angoscia.
La FIOM ha dato una primissima risposta: non bisogna cedere di un millimetro, è necessario dar vita, a sinistra, a un Partito del lavoro.
Come Socialisti, dobbiamo assicurare il nostro contributo, per la riuscita dell’impresa; ma nella realtà contemporanea, la lotta va fatta a livello sovranazionale, perlomeno europeo.
Le forze della Sinistra continentale debbono saldarsi il prima possibile, per costituire un unico fronte che dia voce – facendole proprie - alle rivendicazioni provenienti dalle più diverse categorie sociali: studenti, lavoratori, pensionati… perché no? anche piccoli imprenditori.
Lo scopo non può essere quello di “riformare” il Capitalismo, perché la tigre (anzi, la iena) non si addomestica: lo scopo è quello di rimpiazzare l’attuale sistema con uno ispirato ai valori del Socialismo, cioè la democrazia, la libertà – che non esiste senza sostanziale eguaglianza – il rifiuto della logica del profitto, il riconoscimento della dignità del cittadino lavoratore. L’Europa è abbastanza grande e sufficientemente sviluppata per chiudere le porte alla globalizzazione; o, meglio ancora, per farsi missionaria nel mondo di un nuovo credo sociale ed economico.
Ogni essere umano preferisce istintivamente la libertà alla servitù: ma molto spesso, avendo sperimentato soltanto la seconda, non è nemmeno in grado di concepire la prima. A noi fargliela scoprire; ma anzitutto dobbiamo conquistarcela a casa nostra.
Rivelando il moderno fascismo dei Marchionne, la FIOM ci ha insegnato che non bisogna avere paura di guardare in faccia la realtà – perché solo conoscendola è dato agli uomini cambiarla.
Non è una lezione da poco: l’auspicio è che venga appresa immediatamente.
Norberto FRAGIACOMO
PARTITO SOCIALISTA ITALIANO - FEDERAZIONE DI TRIESTE
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