Nell’analisi di Giovanni Arrighi, la spiegazione della crisi attuale. Washington non è più il centro di tutto
Sul ruolo della finanza nella genesi della crisi attuale si sono versati fiumi d’inchiostro. Purtroppo, però, ai molti facili anatemi nei confronti di banchieri e “speculatori” si sono accompagnate poche analisi serie del fenomeno della finanziarizzazione dell’economia. Che non data da pochi anni, ma abbraccia gli ultimi decenni: una ricerca della McKinsey di qualche anno fa vedeva il rapporto tra il valore complessivo degli assets finanziari a livello mondiale e il prodotto interno lordo mondiale in crescita dal 100% del 1980 al 356% di fine 2007. Non si è insomma trattato di un fenomeno contingente, ma strutturale - e che quindi richiede di essere spiegato in quanto tale.
C’è poi un secondo aspetto che merita attenzione: l’espansione dell’attività finanziaria non è affatto un fenomeno storicamente nuovo. Proprio “la scoperta della finanziarizzazione come modello ricorrente nel capitalismo storico” rappresenta uno dei principali fili conduttori della ricerca di Giovanni Arrighi. Poco noto nel nostro paese e scomparso nel 2009, Arrighi è stato tra i maggiori studiosi delle dinamiche dell’economia internazionale. Una raccolta di suoi scritti appena pubblicata, Capitalismo e (dis)ordine mondiale (Roma, manifestolibri, pp. 232), rende facilmente accessibili al lettore italiano, anche grazie all’eccellente introduzione di Giorgio Cesarale, le linee fondamentali della sua ricerca.
Secondo Arrighi la finanziarizzazione dell’economia inizia negli anni Settanta, quando, a motivo delle pressioni salariali e dell’aumento del prezzo delle materie prime, la produzione manifatturiera nei paesi capitalistici più avanzati, e in particolare negli Stati Uniti, comincia a diventare meno redditizia. Si ha insomma una crisi di sovraccumulazione, con una sovrabbondanza di capitale che non riesce a valorizzarsi adeguatamente.
A questo punto, dice Arrighi, “il capitale ha cercato di valorizzarsi in nuove direzioni”. Essenzialmente due: “da un lato, l’espansione produttiva poteva continuare in luoghi più periferici”; dall’altro “poteva interrompersi, e i profitti e gli altri surplus monetari essere investiti nella speculazione finanziaria, puntando ad acquisire, a prezzi stracciati, titoli che assicuravano rendite finanziarie e diritti sulle entrate dei governi”.
Per gran parte degli anni Settanta i due fenomeni sono andati di pari passo: in quegli anni, infatti, vi è stata un’enorme crescita dei prestiti internazionali ai Paesi del terzo mondo (e anche a quelli del cosiddetto “blocco socialista”). Negli Ottanta, invece, la musica cambia e il secondo tipo di espansione eclissa il primo. Con la violenta stretta monetaria attuata da Volcker nel 1979, che porta alle stelle i tassi d’interesse Usa, gli Stati Uniti cambiano le regole del gioco dei prestiti internazionali, costringendo i paesi del terzo mondo a pagare onerosissimi interessi sui debiti contratti e ricominciando ad attrarre nei paesi occidentali più sviluppati, a cominciare dagli stessi Stati Uniti, i maggiori flussi finanziari internazionali. Non a caso, a partire dagli anni Ottanta gli Usa conoscono una ripresa dei profitti, trainata dal settore finanziario, la cui proporzione sui profitti totali da allora crescerà progressivamente sino a raggiungere il 40% del totale nel 2007, alla vigilia della crisi attuale. In questo senso, la supremazia di Wall Street nella finanza internazionale ha consentito agli Stati Uniti, per un periodo relativamente lungo, di “volgere l’intensificazione della concorrenza per il capitale mobile a proprio vantaggio, alimentando i propri profitti e potere a spese del resto del sistema”.
Per Arrighi, però, non si tratta di una novità. Al contrario, “il gonfiarsi dei profitti e del potere statunitensi negli anni Novanta ha seguito un modello tipico del capitalismo mondiale fin dai suoi albori”. Lo stesso era avvenuto in Olanda a metà Settecento e in Gran Bretagna tra fine Ottocento e primo Novecento: anche allora, alla perdita di egemonia di questi Stati-guida del capitalismo mondiale nel settore manifatturiero, aveva fatto seguito una loro centralità nelle transazioni finanziarie internazionali. Anche se poi, precisa Arrighi, “in entrambi i casi i revival di potere, e le espansioni finanziarie che ne erano alla base, si conclusero 30 o 40 anni dopo il loro inizio, con il crollo totale dell’ordine egemonico in declino”.
La conclusione di Arrighi è assai netta. L’espansione finanziaria globale degli ultimi decenni non è né un nuovo stadio del capitalismo mondiale, né il sintomo dell’“egemonia emergente dei mercati globali”. Si tratta invece del “chiaro segnale del fatto che ci troviamo nel mezzo di una transizione egemonica analoga alle transizioni olandese-britannica e britannico-statunitense”.
In che direzione? Per intenderlo è sufficiente constatare che, se l’egemonia finanziaria britannica era stata parallela all’affermarsi degli Stati Uniti come potenza industriale, allo stesso modo negli ultimi decenni “l’espansione finanziaria imperniata sugli Stati Uniti è stata accompagnata da uno spostamento del centro di gravità dell’economia globale dal Nord America all’Asia Orientale”. Le modalità della transizione non sono meno importanti della sua direzione, se solo consideriamo che il crollo egemonico della potenza britannica fu contrassegnato da due guerre mondiali. Al riguardo Arrighi è comprensibilmente cauto nel prefigurare gli scenari futuri, pur non escludendo affatto l’ipotesi che si possa aprire una fase di “caos sistemico”.
In questo contesto, dopo il disastro della presidenza Bush, secondo Arrighi ad Obama spetta un compito tutt’altro che esaltante: quello di “gestire con intelligenza il declino, individuando politiche che si adattino al cambiamento nei rapporti internazionali”. Che si tratti anche di un compito tutt’altro che facile, è quanto ci dicono con chiarezza i risultati delle elezioni di medio termine di novembre.
Vladimiro Giacchè, Il Fatto quotidiano
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