Ieri, Francesco Forte - al quale non fa difetto la chiarezza, e questo è un merito di fronte alla palude ipocrita dei professionisti del "ma anche" - imperversava sulla stampa italiana, da Il Giornale a Il Foglio, somministrando giudizi e ricette più o meno su tutto. In particolare sul quotidiano di Giuliano Ferrara, l'ex ministro craxiano ha tirato fuori il meglio di sé in un articolo che è già tutto riassunto nel titolo, a metà tra l'invocazione e l'ordine perentorio: «Marchionizzare l'Italia».
Dove il sugo, depurato del troppo e del vano, sta nella rivendicazione, esplicita e senza bardature retoriche, della primazia del capitale, della dittatura dell'impresa proposta, senza infingimenti, come l'espressione del bene, contro il vecchiume passatista e paralizzante delle ideologie che ancora si attardano a parlare di una lotta di classe «morta e sepolta». Marchionne - per il nostro - ha ragione. Su tutto. Soprattutto quando, da moderno demiurgo, vuole rifondare - pardon, riscrivere - l'intero sistema dei rapporti sociali secondo lui ingessati dentro un involucro concertativo che ha inesorabilmente fatto il suo tempo.
Forte va subito al nocciolo della questione che è quanto e come si sgobba. La storiella secondo cui il fattore lavoro vale il 10 per cento dei costi di produzione importa poco, perché è proprio «con quel 10 per cento che si fa lavorare (si mette a profitto, ndr) il 90 per cento che è capitale fisso e circolante e se si lavora tutto il tempo, e non solo di giorno, nei giorni feriali, e ci sono poche assenze, quel 90 per cento è pienamente utilizzato». In altri termini, ma la chiosa è forse superflua, più spremi l'olio di gomito, più spezzi le ossa a chi lavora, più inchiodi alla catena anche i malati, più sbaragli quei noiosi (e costosi) intralci che si chiamano diritti, e più metti a profitto l'investimento industriale: come si vede siamo prossimi alla genialità e dobbiamo essere grati a Francesco Forte per questo innovativo contributo alla teoria economica e alla politica sociale.
Ma il bello viene adesso. Sentite: «Compito dei sindacati è quello di generalizzare lo schema di Mirafiori e di Pomigliano». E chi non ci sta? Chi ha rifiutato di firmare e sottoscrivere questa allegra prospettiva? Semplice: quel sindacato non ha alcun diritto alla rappresentanza in azienda, perché «cosa ci fa lì dentro?» Evidentemente «è là per piantare grane o è là per dire "vorrei ma non posso"». Meglio, dunque, metterlo nelle condizioni di non nuocere, perchè le classi sono sì scomparse, ma non si sa mai.
Ecco dunque il modello di relazioni industriali praticato da Marchionne e mirabilmente tradotto in prosa dall'editorialista de Il Foglio: una Confindustria trasformata in «associazione fra operatori economici dotati di libertà di contratto» e un sindacato che si acconcia ad assecondarne i desideri, fungendo da ammortizzatore delle tensioni che, fatalmente, un modello del tutto autocentrato sull'impresa genererebbe.
Poi ce n'è anche per la politica, che se deve stare alla larga dai rapporti sociali (perché - in coerenza il modello di Marchionne - occorrono «più contratti di diritto privato e meno di diritto pubblico»), deve tuttavia fare una cosa importantissima, vale a dire «tassare meno i profitti, non soltanto quelli reinvestiti, ma anche quelli che vanno in dividendi, perché anche questi - secondo il nostro ineffabile commentatore - attirano il nuovo capitale».
Ecco dunque il modello di relazioni industriali praticato da Marchionne e mirabilmente tradotto in prosa dall'editorialista de Il Foglio: una Confindustria trasformata in «associazione fra operatori economici dotati di libertà di contratto» e un sindacato che si acconcia ad assecondarne i desideri, fungendo da ammortizzatore delle tensioni che, fatalmente, un modello del tutto autocentrato sull'impresa genererebbe.
Poi ce n'è anche per la politica, che se deve stare alla larga dai rapporti sociali (perché - in coerenza il modello di Marchionne - occorrono «più contratti di diritto privato e meno di diritto pubblico»), deve tuttavia fare una cosa importantissima, vale a dire «tassare meno i profitti, non soltanto quelli reinvestiti, ma anche quelli che vanno in dividendi, perché anche questi - secondo il nostro ineffabile commentatore - attirano il nuovo capitale».
Non fa niente, come la storia di questi trent'anni ci ha insegnato, se ogni regalo fiscale ai profitti si è tradotto in investimenti speculativi che nulla hanno portato alla competitività d'impresa e men che meno alle retribuzioni e ai redditi da lavoro rimasti da decenni al palo.
Poi, il botto conclusivo, un sublime cammeo, l'invito rivolto agli intellettuali italiani ad «abbandonare sia il pensiero debole, sia le astrazioni (…) e a guardare non all'America di Barack Obama, ma a quella dei Tea Party di Sarah Palin, per quanto sgradevole». Complimenti!
Ecco, se questo è il giro del fumo, se le cose stanno come con crudezza le descrive Francesco Forte, viene da esclamare, con Mario Monicelli, «Facciamo la rivoluzione».
Dino Greco, Liberazione
Poi, il botto conclusivo, un sublime cammeo, l'invito rivolto agli intellettuali italiani ad «abbandonare sia il pensiero debole, sia le astrazioni (…) e a guardare non all'America di Barack Obama, ma a quella dei Tea Party di Sarah Palin, per quanto sgradevole». Complimenti!
Ecco, se questo è il giro del fumo, se le cose stanno come con crudezza le descrive Francesco Forte, viene da esclamare, con Mario Monicelli, «Facciamo la rivoluzione».
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