E lo chiamano accordo storico. Al contrario, la linea adottata da Marchionne e dalla Fiat e sottoscritta dai novelli sindacati gialli Uil e Cisl è una scelta anti-storica che rischia di condannare il nostro paese alla marginalità economica, politica e sociale.
Quello che giornalisti maldestri, politici incapaci (quando va bene) e commentatori prezzolati cercano di farci credere è che l'unica maniera per competere nel mondo globalizzato sia ridurre i privilegi (!) dei lavoratori che sono il vero handicap del sistema produttivo italiano. La bella storiella va avanti descrivendo la Fiom come un sindacato conservatore legato a logiche antiquate e Marchionne come moderno eroe, disposto a fare investimenti in Italia nonostante sia più conveniente investire in Serbia ed in Polonia.
La realtà è assai diversa. Cominciamo innanzittutto ad intenderci sul linguaggio di cui, negli ultimi decenni, si sono appropriati astutamente liberisti e padronato. I privilegi che vogliono essere cancellati sono in realtà diritti fondamentali - come il diritto di sciopero che non è disponibile e non può essere modificato attraverso contratti privati - o conquiste storiche del movimento dei lavoratori - pause e malattia - che sono costati lacrime e sangue e sono parte fondamentale di quel contratto sociale che ha permesso alle economie europee di diventare, nel corso degli ultimi sessant'anni, più floride e più giuste. Marchionne non è un innovatore, anzi, è un reazionario della peggior specie ed adotta un modello di relazioni industriali che non ha nulla di nuovo e di moderno. E' il modello dei padroni del vapore dell'Ottocento che pensano che i lavoratori non siano esseri umani, ma semplicemente fattori di produzione, da spremere, sfruttare e buttar via quando obsoleti o danneggiati. E ci viene pure a raccontare che la lotta di classe non esiste più! La Fiom forse difenderà modelli contrattuali che risalgono a vent'anni fa, ma Marchionne vuol tornare indietro di quasi un secolo. Chi è il vero modernizzatore?
Il problema, però, va oltre i cancelli di Mirafori ed investe l'intero sistema paese. Il modello Fiat è un sistema di ricatto (investimenti in cambio di repressione del movimento dei lavoratori) tipico delle grandi multinazionali, come infatti l'industria torinese sta cercando di diventare.
Il modello classico di globalizzazione degli ultimi trent'anni si è basato sullo strapotere del grande capitale che si presentava ai paesi in via di sviluppo con progetti di investimento accompagnati da una serie di clausole capestro: niente scioperi, salari bassi, facilitazioni fiscali. In caso di titubanze del paese ospite, le multinazionali ritiravano l'offerta e sceglievano un paese più malleabile. Era la gara a trovare il paese più schiavo, il famoso dumping sociale che ha caratterizzato lo sviluppo economico diseguale di tanti paesi del terzo mondo.
Una gara che ora coinvolge anche alcuni dei paesi una volta definiti ricchi che si trovano ora davanti ad una scelta dirimente. Accettare il nuovo modello di contratto sociale imposto dal capitalismo internazionale - quello che ha portato alla crisi degli ultimi anni - o rilanciare un approccio diverso, democratico e partecipativo allo sviluppo economico, sociale ed ecologico. I paesi che si danno una prospettiva storica di crescita e che vogliono far parte dell'elite economica e politica mondiale nei prossimi decenni non accettano la competizione sul prezzo, sullo sfruttamento, sulla riduzione dei diritti. Per quella strada non c'è futuro, esisterà sempre qualche centinaio di milioni di indiani e cinesi pronti a ridursi il salario e a rinunciare allo sciopero, alle pause e ai giorni di malattia.
La realtà è assai diversa. Cominciamo innanzittutto ad intenderci sul linguaggio di cui, negli ultimi decenni, si sono appropriati astutamente liberisti e padronato. I privilegi che vogliono essere cancellati sono in realtà diritti fondamentali - come il diritto di sciopero che non è disponibile e non può essere modificato attraverso contratti privati - o conquiste storiche del movimento dei lavoratori - pause e malattia - che sono costati lacrime e sangue e sono parte fondamentale di quel contratto sociale che ha permesso alle economie europee di diventare, nel corso degli ultimi sessant'anni, più floride e più giuste. Marchionne non è un innovatore, anzi, è un reazionario della peggior specie ed adotta un modello di relazioni industriali che non ha nulla di nuovo e di moderno. E' il modello dei padroni del vapore dell'Ottocento che pensano che i lavoratori non siano esseri umani, ma semplicemente fattori di produzione, da spremere, sfruttare e buttar via quando obsoleti o danneggiati. E ci viene pure a raccontare che la lotta di classe non esiste più! La Fiom forse difenderà modelli contrattuali che risalgono a vent'anni fa, ma Marchionne vuol tornare indietro di quasi un secolo. Chi è il vero modernizzatore?
Il problema, però, va oltre i cancelli di Mirafori ed investe l'intero sistema paese. Il modello Fiat è un sistema di ricatto (investimenti in cambio di repressione del movimento dei lavoratori) tipico delle grandi multinazionali, come infatti l'industria torinese sta cercando di diventare.
Il modello classico di globalizzazione degli ultimi trent'anni si è basato sullo strapotere del grande capitale che si presentava ai paesi in via di sviluppo con progetti di investimento accompagnati da una serie di clausole capestro: niente scioperi, salari bassi, facilitazioni fiscali. In caso di titubanze del paese ospite, le multinazionali ritiravano l'offerta e sceglievano un paese più malleabile. Era la gara a trovare il paese più schiavo, il famoso dumping sociale che ha caratterizzato lo sviluppo economico diseguale di tanti paesi del terzo mondo.
Una gara che ora coinvolge anche alcuni dei paesi una volta definiti ricchi che si trovano ora davanti ad una scelta dirimente. Accettare il nuovo modello di contratto sociale imposto dal capitalismo internazionale - quello che ha portato alla crisi degli ultimi anni - o rilanciare un approccio diverso, democratico e partecipativo allo sviluppo economico, sociale ed ecologico. I paesi che si danno una prospettiva storica di crescita e che vogliono far parte dell'elite economica e politica mondiale nei prossimi decenni non accettano la competizione sul prezzo, sullo sfruttamento, sulla riduzione dei diritti. Per quella strada non c'è futuro, esisterà sempre qualche centinaio di milioni di indiani e cinesi pronti a ridursi il salario e a rinunciare allo sciopero, alle pause e ai giorni di malattia.
Col modello Marchionne, in realtà, si lastrica la strada del sottosviluppo e della povertà, mascherandolo con investimenti che porteranno denaro solo nelle casse del capitale, distruggendo nel frattempo lo stato sociale, la contrattazione nazionale, i diritti dei lavoratori, quegli elementi che hanno caratterizzato la crescita nei decenni di benessere ed hanno attutito l'impatto del declino economico italiano negli ultimi vent'anni.
L'alternativa alla guerra tra vecchi e nuovi poveri è un sistema economico che punti sull'innovazione, sul sostegno alla domanda interna, sul riequilibro tra redditi da capitale e redditi da lavoro. Nei paesi dell'Europa centrale, ricordiamolo, gli operai guadagnano il doppio che in Italia, ricerca e sviluppo assorbono una parte importante della quota di investimento industriale e i padroni del vapore alla Marchionne sono stati messi alla porta senza molti complimenti, come è successo in Germania nei mesi scorsi. In Italia, invece, non solo abbiamo un governo che ha fatto della macelleria sociale il suo tratto caratterizzante e che quindi trova nell'ad della Fiat il suo migliore campione, ma abbiamo pure la maggiore forza di opposizione incapace di cogliere la vera natura del problema e che nella sostanza fiancheggia Marchionne, assumendosi una responsabilità storica non solo davanti ai lavoratori, ma al paese intero.
Il problema del lavoro, del modello di sviluppo, del futuro del paese rappresentano scelte dirimenti in cui il balbettio e l'ignavia non sono ammessi. Lo scontro tra Marchionne e la Fiom impone una scelta chiara: o di quà o di là, tertium non datur. La sinistra italiana riparta dalla Fiom e dal suo coraggio e su questa pietra miliare ponga le basi per la sua rinascita politica. Alleanze e compromessi, su questi punti, non se ne possono fare.
di Nicola Melloni, Liberazione
L'alternativa alla guerra tra vecchi e nuovi poveri è un sistema economico che punti sull'innovazione, sul sostegno alla domanda interna, sul riequilibro tra redditi da capitale e redditi da lavoro. Nei paesi dell'Europa centrale, ricordiamolo, gli operai guadagnano il doppio che in Italia, ricerca e sviluppo assorbono una parte importante della quota di investimento industriale e i padroni del vapore alla Marchionne sono stati messi alla porta senza molti complimenti, come è successo in Germania nei mesi scorsi. In Italia, invece, non solo abbiamo un governo che ha fatto della macelleria sociale il suo tratto caratterizzante e che quindi trova nell'ad della Fiat il suo migliore campione, ma abbiamo pure la maggiore forza di opposizione incapace di cogliere la vera natura del problema e che nella sostanza fiancheggia Marchionne, assumendosi una responsabilità storica non solo davanti ai lavoratori, ma al paese intero.
Il problema del lavoro, del modello di sviluppo, del futuro del paese rappresentano scelte dirimenti in cui il balbettio e l'ignavia non sono ammessi. Lo scontro tra Marchionne e la Fiom impone una scelta chiara: o di quà o di là, tertium non datur. La sinistra italiana riparta dalla Fiom e dal suo coraggio e su questa pietra miliare ponga le basi per la sua rinascita politica. Alleanze e compromessi, su questi punti, non se ne possono fare.
di Nicola Melloni, Liberazione
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