sabato 22 gennaio 2011

Gramsci e l’oggetto della politica comunista

Oggi ricorre il 120° anniversario della nascita di Antonio Gramsci.
Per ricordarlo pubblichiamo il saggio di Mimmo Porcaro apparso sul volume "Seminario su Gramsci", Punto Rosso editore che raccoglie gli atti del seminario organizzato dalla Associazione Culturale Punto Rosso e dalla rivista Essere Comunisti nel febbraio 2010



Vorrei evidenziare una tensione che esiste nel testo di Gramsci e tra il testo di Gramsci e la realtà.
Il problema da cui prende le mosse il mio contributo è quello del rapporto tra le leggi generali del modo di produzione capitalistico e le forme concrete d’esistenza di esso; nonché quello del rapporto tra quelle leggi e quelle forme da un lato e l’oggetto della politica dall’altro.
Qual è la posta in gioco “pratica” di questo problema?
Se pensiamo che l’oggetto della politica s’identifichi con le leggi generali del capitalismo, ossia se pensiamo che la politica consista nell’agire sul rapporto di lavoro salariato in generale e sulle dinamiche dell’accumulazione in generale, noi riusciamo senza dubbio ad ancorare la nostra politica su principi saldi. Ma con ciò rischia di sfuggirci la situazione concreta, ed il richiamo ai principi generali rischia di essere una fuga rispetto ai compiti specifici, ogni volta diversi, che le situazioni via via ci pongono. Ne deriva anche una posizione meccanicista, secondo cui le leggi generali spiegano tutto, e prima o poi si imporranno nella loro
nettezza attraverso la mutevole confusione dei fenomeni. Tale meccanicismo può assumere, a seconda del diverso modo in cui viene pensato il funzionamento delle leggi generali, una forma evoluzionista o crollista,
ma in ogni caso la rivoluzione nasce quasi meccanicamente dallo sviluppo o dalla crisi del capitale (da ciò, anche, il carattere spesso economicista del meccanicismo).
Al contrario, se pensiamo che l’oggetto della politica si identifichi con le sole forme concrete d’esistenza del capitalismo, riusciamo certamente ad afferrare meglio la situazione in cui ci troviamo ad agire. Ma, non ponendo il problema del rapporto tra le suddette forme concrete e le leggi generali, rischiamo di non comprendere la relazione fra gli obiettivi congiunturali e quelli di fondo; rischiamo quindi il politicismo e l’opportunismo. Althusser ha affrontato magistralmente il problema (in Leggere il Capitale, ma prima, e forse meglio, in Per Marx, in particolare nel saggio Contraddizione e surdeterminazione.) dicendo che le leggi generali (le contraddizioni generali) sono meri “oggetti di pensiero”, e che solo alla concreta congiuntura spetta lo statuto di realtà effettuale.
Con ciò ha ribadito che l’oggetto della politica è la situazione concreta, e che la politica non è il semplice rimando agli ideali o agli obiettivi finali, ma è una scelta concreta che deve essere fatta in ogni momento. Inoltre si è distanziato dall’evoluzionismo che pretende che la rottura rivoluzionaria sia matura solo quando un tipo di società ha dato tutto quello che poteva dare: la maturità della rivoluzione non sta nel grado di sviluppo delle forze produttive, ma nell’emergere della situazione rivoluzionaria (noto di passaggio che anche Gramsci accetta l’idea, criticata da Althusser, che lega la rivoluzione all’esaurimento delle capacità di sviluppo del capitalismo, ma lo fa in un contesto tutt’altro che evoluzionista).
Ma indubbiamente Althusser rischia il politicismo, ossia una mancata connessione fra l’analisi di congiuntura e le dinamiche di fondo, perché nella sua visione da un lato c’è il modo di produzione come oggetto astratto, come puro concetto, e dall’altro c’è la concreta congiuntura: in mezzo non c’è niente, non c’è la concreta formazione sociale, che è sia il modo di esistenza concreta della “struttura”, sia la matrice di formazione della variabile congiuntura.
Gramsci, sul punto è indubbiamente molto più complesso, anche perché le sue tesi vivono in una tensione che va dal giacobinismo del “forzare la situazione”, (ossia dell’egemonia come questione di direzione politica e di programma politico), all’esaltazione della guerra di posizione rispetto alla guerra di movimento, dove si è voluto leggere, e non senza fondamento, una versione culturalista e quasi evoluzionista della “conquista delle casematte”.
C’è però un punto relativamente stabile dell’analisi gramsciana, che viene ribadito anche quando la riflessione sulla guerra di posizione ha preso il posto che sappiamo, e che ci consente di abbozzare una soluzione del nostro problema generale. Questo punto è quello della tipologia dei rapporti di forza e della loro gerarchia. Per Gramsci i rapporti di forza possono essere divisi in:
- rapporti di forza obiettivi, ossia relativi al grado di sviluppo delle forze produttive ed ai rapporti generali tra le classi e tra esse e le forze produttive;
- rapporti di forza politici, attinenti al grado in cui le diverse classi divengono consapevoli di sé e del proprio ruolo generale-statuale, ed agiscono di conseguenza;
- rapporti di forza militari, attinenti al modo in cui rapporti obiettivi e quelli politici si fondono in una situazione concreta e in un concreto campo di battaglia.
Intorno a questa tripartizione Gramsci dice alcune cose assai importanti.
Prima di tutto dice che la concretezza storica non pertiene solo al terzo tipo di rapporti. I rapporti del primo tipo, quelli obiettivi, non sono effetto lineare delle leggi del capitalismo, ma ne rappresentano già una concretizzazione storica, giacché si danno in forma “nazionale”. A loro volta i rapporti del secondo tipo, quelli politici, non sono immediatamente deducibili dai primi, poiché le classi interpretano i problemi posti
dalla loro funzione “obiettiva” in maniera creativa e oltretutto lo fanno con ampi margini di errore (possono, cioè, giocare male la loro parte): da tutto ciò derivano variazioni, forme originali, concretezza e
specificità storica. Alla base del processo abbiamo quindi a che fare non con l’astrazione delle leggi generali del capitalismo, ma con una formazione sociale già specificamente determinata (i rapporti obiettivi), che a sua volta si articola con altri due livelli specificamente determinati.
Poi Gramsci dice che il momento immediatamente decisivo, in politica, è il terzo, ovvero quello dello scontro politico-militare (militare sia perché può essere letto in termini strategici e con metafore polemologiche, sia perché reca sempre con sé, pur se in gradi diversi, un elemento di forza). Si tratta di un momento logicamente derivato dagli altri, ma ciononostante capace di determinare l’efficacia reale di ogni politica.
Infine dice che in questo momento immediatamente decisivo ciò che conta realmente è da un lato l’accumulazione ordinata delle forze, e dall’altro la creatività del politico, ovvero la sua capacità di costruire, operando selezioni fra tutti gli eterogenei eventi che compongono una determinata congiuntura concreta, connessioni che non sono immediatamente evidenti, ma mostrano il rapporto tra la situazione data e le dinamiche del capitalismo e della lotta delle classi.
Quest’ultimo punto getta una luce particolare su tutta la costruzione gramsciana.
Come si può dire, infatti, che il momento “militare” è decisivo se esso non è che il terzo, il più lontano dai rapporti fondamentali? Lo si può dire proprio perché l’azione del politico a questo livello è quella di creare connessioni non immediatamente visibili fra le occorrenze di una congiuntura, in modo di afferrare in essa l’effetto dei rapporti obiettivi, attraverso la mediazione dei rapporti politici.
Possiamo quindi dire che, per Gramsci, l’oggetto della politica non è né il modo di produzione, né la congiuntura così come essa immediatamente si presenta, ma il rapporto costruito fra la congiuntura e le tensioni, le domande fondamentali di una formazione sociale (formazione sociale che risulta dai rapporti obiettivi e da quelli politici).
L’oggetto della politica comunista è l’effetto dell’azione del politico, quando questi sia capace di comprendere i nessi trai problemi generali e le situazioni particolari, di individuare gli obiettivi che permettono di far esistere concretamente questi nessi e di renderli evidenti, di concentrare attorno a questi obiettivi la maggior massa possibile di forze. L’aver posto alla base del momento “militare” una concreta formazione sociale e non un astratto concetto di modo di produzione, consente a Gramsci di operare tutte queste connessioni.
Quindi l’intervento del politico è sempre creativo, è sempre una forzatura, ma è una creazione che si basa sugli effetti dei rapporti fondamentali in una congiuntura, è una forzatura che avviene nel senso dello sviluppo storico.
Si può quindi dire che può esservi una sorta di giacobinismo anche nella guerra di posizione e che comunque la guerra di posizione è anch’essa una guerra, che si decide nelle battaglie concrete, nell’intervento “in situazione” e non solo nella maturazione progressiva di una egemonia politica basata su un’egemonia culturale (per tutto ciò si veda Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino, 1975, vol. I, pp. 455-465 e 661; vol. III pp. 1562 e 1578-1589).
Dire che nella guerra di posizione vi è anche una guerra di movimento può forse aiutarci a definire meglio la nostra politica di fronte alla crisi attuale.
Come premessa di questa seconda parte del mio ragionamento devo ribadire, a scanso di equivoci, che non intendo recedere di un millimetro dalla posizione che pensa la costruzione del comunismo come processo
sociale, e molecolare, prima che come processo politico. Tale posizione condensa decenni di riflessione (auto)critica sul socialismo di Stato e di analisi delle società contemporanee, ed ha ancora moltissimo da offrirci. Ciò che intendo dire è piuttosto che oggi la trasformazione molecolare da un lato richiede l’attivazione di grandi figure “molari” (per riprendere una vecchia – e polemica – definizione di Deleuze e
Guattari), dall’altro richiede, forse come precondizione, la lotta contro le grandi concentrazioni di potere economico, politico e mediatico che in gran parte determinano la costituzione, l’aggregazione (e la disgregazione) delle molecole sociali. Mi spiego meglio.
Prima di tutto dobbiamo riconoscere che la nozione di guerra di posizione matura nel corso della prima guerra mondiale e che oggi le condizioni della guerra sono davvero molto diverse. Non più la contesa palmo a palmo di casematte da parte di eserciti di massa, ma il controllo “dall’alto” di posizioni strategiche da parte di eserciti ipertecnologici e quantitativamente ridotti. La guerra di posizione non è affatto scomparsa,
soprattutto nelle guerre di occupazione (Falluja né è l’esempio più tragico), ma essa è surdeterminata da altre modalità strategiche, che tendono a considerare molto più “fluide” le casematte, ossia le posizioni stabili. Questa guerra è lo specchio di un conflitto sociale in cui all’espansione ed alla moltiplicazione dei punti di scontro non corrisponde una vera importanza strategica di questi punti stessi, ed in cui la conquista
delle casematte si accompagna spesso alla desolata constatazione che esse sono vuote.
Usciamo dalla metafora: mentre nella seconda metà dello scorso secolo lo sviluppo dello stato sociale poteva effettivamente essere visto come la creazione di stabili centri di potere sociale diffuso, che determinavano le forme dell’egemonia di una classe sull’altra e che potevano essere l’oggetto di una lunga e significativa contesa (le lotte che vanno dal 1968 al 1980 possono agevolmente essere lette in questo modo), la successiva distruzione dello stato sociale ha sostituito i centri di potere diffuso con “flussi” di potere fatti di consumo, spettacolo ed erogazioni monetarie discrezionali: flussi attivati da “fortezze” concentrate e sottratte agli effetti delle lotte popolari. Ne consegue che più che sulla conquista di quei centri di potere diffuso, le lotte popolari devono concentrarsi sulla loro ricostruzione, ma non possono farlo se prima non conquistano le “fortezze” di cui sopra o se quantomeno, non ne riducono in parte il potere. Ossia se non agiscono sul nesso governi-imprese che determina l’emanazione di quei “flussi”.
D’altro canto, quando, a proposito della “vecchia” guerra di posizione si parla di “trasformazione molecolare” ci si esprime, almeno in parte, in maniera inesatta: i centri di potere diffuso hanno senz’altro effetto sulla vita di ogni singolo individuo, e quindi effetto molecolare, ma non sono, di per sé stessi, delle “molecole”, bensì aggregazioni notevolmente più grandi e dense. E’ solo oggi che, con l’estrema individualizzazione delle forme di soggettività, l’egemonia capitalistica si esprime in maniera veramente molecolare, finissima, micrologica: ma questo affinamento ulteriore del potere, se ne consente, almeno immediatamente, una maggior “presa” sociale, non consente un’azione eguale e contraria da parte nostra, analoga a quella svolta attorno alle istituzioni dello stato sociale.
Ogni individuo è divenuto una piccolissima “casamatta” e le nostre forze non sono in grado di misurarsi col potere attuale su questo stesso terreno. Possono seminare forme di resistenza e stili di vita alternativi, ma tutto in maniera decisamente insufficiente.
Avanzo quindi l’ipotesi che contro il capitalismo realmente molecolare si debba da un lato agire direttamente sulle fortezze, dall’altro contrapporre alle figure dell’esistenza molecolare, pesanti figure “molari” capaci di orientare gli individui oltre il pulviscolo e la nebbia degli incerti, molteplici e contraddittori stili di esistenza. Lo spaesamento ed il nichilismo di massa (così ben descritti da Walter Siti ne Il contagio) possono essere contrastati solo dalla riedizione di grandi figure ideologiche capaci di riassumere il senso dello stare al mondo: una rinnovata e aggiornata idea di socialismo, capace sia di definire un’alternativa che di individuarne con precisione gli avversari può fare molto di più della (irrinunciabile) guerriglia attorno ai modi di vita, e consentire una futura espansione di quest’ultima.
Nonostante gli enormi rischi a cui ci espone, oggi nettamente superiori alle opportunità che ci offre, la crisi può favorire questo spostamento della nostra azione, sia perché il dominio molecolare del capitalismo è destinato ad attenuarsi (per l’estenuazione e la riduzione del consumo, per l’urto dell’immaginario con la realtà, per il crollo delle risorse finanziarie erogabili), sia perché aumenteranno notevolmente la turbolenza e l’instabilità delle società e dei governi. In questa situazione, il politico creativo che sappia definire obiettivi capaci di far comprendere i nessi tra condizioni di vita e crisi del capitale, può riuscire sia ad attuare efficaci
incursioni nelle fortezze (ossia nei governi) sia a costruire figure di alternativa che siano figure di speranza. La continua ed irrinunciabile guerra di posizione nella società (lotta per la ricostruzione delle nostre casematte, anche nella forma del partito sociale, battaglia culturale, diffusione di stili liberi e solidali di vita) deve accompagnarsi ad una guerra di movimento condotta nelle crepe aperte dalla crisi.
Devo dire subito che, parlando di “politico creativo” e di incursioni nei governi non sto parlando né del nostro partito né del prossimo governo della Repubblica. Il primo deve ancora lottare per la propria sopravvivenza elementare, e quanto al secondo solo l’evolversi della situazione potrà definire il nostro rapporto con esso: ma in questa fase mi sembrano poco probabili, o assai rischiose, le ipotesi di incursione. Prima di poter efficacemente articolare guerra di posizione e guerra di movimento, comunque definite, dobbiamo ancora fare molta strada. Ma per incamminarci su questa strada è ancora a Gramsci che dobbiamo rivolgerci.
E vengo alla terza ed ultima parte del mio ragionamento, che ruota attorno alla questione del programma.
Dice Gramsci, a proposito dell’evanescente “partito democratico” del Risorgimento italiano, che una forza politica esterna ai blocchi sociali dominanti ed ancora priva di saldi legami con le classi subalterne deve fare appello, se vuole svilupparsi, alla sua capacità di costruire un programma politico che sappia, pur da una posizione inevitabilmente debole e minoritaria, interpretare i problemi storici di un Paese, e per questo candidarsi comunque alla sua guida. Il piccolo cabotaggio, insomma, non si addice alle forze che non vogliono restare minoritarie: piccole forze hanno bisogno di grandi idee (Ibidem, vol. I, pp. 42-55, vol. III, pp. 2010-2014). Credo che per noi sia decisivo costruire un programma di tal fatta.
Non un elenco di richieste e nemmeno un quadro coerente di obiettivi, astrattamente impeccabile. Si tratta piuttosto, gramscianamente, di dare un giudizio storico-politico sul Paese, di prendere le mosse dai suoi problemi “oggettivi” (ossia da quei problemi che ogni classe ed ogni forza politica deve porsi se vuole avere un ruolo dirigente), di individuare le forze progressive che questi problemi possono risolvere e gli avversari che a tale soluzione si oppongono.
Tale programma dovrebbe avere una funzione “giacobina”, ossia non dovrebbe limitarsi a raccogliere e sintetizzare le diverse indicazioni dei diversi gruppi sociali e movimenti a cui ci si riferisce. Dovrebbe piuttosto definire obiettivi che “forzano” la marcia, ma lo fanno sempre nella direzione dello sviluppo storico, o almeno nella direzione di uno dei possibili sviluppi storici. Nel nostro caso, “forzare” significa definire una linea di sviluppo che non appare immediatamente nella situazione, ma che è in essa implicita (il socialismo), articolarne concretamente gli obiettivi, e soprattutto individuare con precisione quegli avversari che le rappresentanze delle classi e dei movimenti tendono oggi in genere a non nominare, per deficienza di analisi o semplicemente per opportunismo.
E forzare “nel senso dello sviluppo storico” significa rispondere ai due problemi attualmente decisivi per il Paese: la necessità di partecipare, in maniera attiva ed autonoma, alla costruzione di un nuovo stato continentale (l’Europa) che sia all’altezza delle questioni poste dalla crisi; la necessità di dar vita al “salto” verso un’economa ad alta densità tecnologico-conoscitiva.
La ricostruzione di una posizione comunista nel nostro Paese passa dalla dimostrazione teorico-pratica del fatto che questi problemi possono essere risolti in maniera progressiva solo a partire dalle lotte popolari, lotte che d’altra parte possono trarre maggior forza proprio dalla consapevolezza di essere il motore della crescita civile di tutto il Paese. Da questo intreccio possono nascere quelle passioni di massa che sono essenziali ad ogni progetto politico storicamente efficace: e suscitare simili passioni è, per Gramsci, uno dei compiti fondamentali del “politico creativo”.

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