martedì 8 febbraio 2011

Governabilità! La lenta costruzione dell’Unipolarismo

Per sedici anni le élite economiche hanno raccontato sui loro quotidiani che il vero ostacolo sulla strada della famigerata go­vernabilità era il confitto sociale. Caduta la prima Repubblica, con l’Italia in fase di re­stauro, pur di garantire continuità con il passato, il vero Potere ha accettato che un parvenu della politica, un affarista arricchito dal passato ‘misterioso’ come Berlusconi, diventasse presidente del Consiglio. In fondo era uno di loro, che, come loro, aveva affrontato la tempesta Tangentopoli e perciò consapevole del pericolo rappresentato da una magistra­tura troppo libera. Oltre a essere l’uomo più ‘motivato’ a realizzare la cosiddetta riforma della giustizia. E, comunque, in quel momento, sembrava sempre me­glio di D’Alema ed ex compagni.
Dal canto suo, facendo proprio il con­cetto di governabilità, il centro-sinistra ha brigato per sopprimere ogni realtà politi­ca che si muovesse alla propria sinistra. Sali­to finalmente al governo, nel quinquennio dal 1996 al 2001 si è impegnato al massimo per compiacere Confindustria: con Treu ha reso legge il precariato, con Bassanini ha iniziato il federalismo privatizzando il la­voro pubblico e con D’Alema, in un mo­mento in cui la crisi economica avrebbe potuto creare pesanti problemi socia­li, ha tenuto a bada i sindacati. Malgra­do ciò, Berlusconi è riuscito a impostare una campagna elettorale contro i comu­nisti e a farsi rieleggere, costringendo la sua opposizione a diventare più realista del re per compiacere il potere econo­mico. Così, nel 2008, Veltroni ha sgan­ciato definitivamente il Pd da Rifondazione facendola scomparire dal Parlamento.Sembrava veramente la fine di un lungo percorso. E adesso che in politica non esiste più una sola ombra di sinistra; adesso che nessuno in Parlamento solleva questio­ni sul mondo del lavoro; adesso che i lavo­ratori sono soli in balia del mercato; adesso che i motori sono caldi per partire sull’uni­polare, la nave della governabilità… al mo­mento del varo, la bottiglia di champagne buca la scafo e il vero Potere si accorge che il problema non consisteva nel 6% di sini­stra radicale, bensì stava a destra, in quel 23% rappresentato da Silvio Berlusconi.
L’attuale stallo politico, pietrificato dalla sconfitta della mozione di sfiducia del 14 dicembre scorso, lascia intendere che la mosca cieca andrà avanti per un bel pez­zo. È come se il veleno, iniettato da Mar­chionne nel terreno di Pomigliano e Mirafiori, non avesse tagliato soltanto le gambe degli operai, bensì anche quelle dell’inte­ra politica.
La diagnosi del vero Potere, quello eco­nomico, oggi individua il focolaio maligno nel connubio crisieconomica/SilvioBerlusconi. Ma non per le ovvie ragioni, quelle che il comune buon senso indicherebbe. No. In gioco non c’è la soluzione della crisi in senso stretto, bensì la possibilità da par­te del potere economico di sfruttarla appie­no, prima che la crisi in qualche modo pas­si. Il vero Potere sa che una crisi economica – lungi dal colpire chi i soldi li custodisce in paradisi fiscali e li fa girare attraverso scato­le cinesi – rappresenta l’occasione per vo­tare leggi e riforme più restrittive per i lavo­ratori (la richiesta di sacrifici per il bene del Paese) e che rendano più agevole la vita delle aziende (meno tasse). È questo che non è ancora avvenuto; o, meglio, non nel­la misura che l’Industria auspica.
Ciò spiega perché il problema non sia tanto Berlusconi in sé, i sospetti di corruzione di cui si sarebbero macchiati, secon­do la magistratura, lui e alcuni suoi uomini; non i collegamenti con la mafia, le notti bra­ve con minorenni; e, men che meno, il con­fitto d’interesse – vera cifra della politica postmoderna. Il problema, per il vero Po­tere, in fregola da riforme, è un Parlamento bloccato da mesi per risolvere i guai giudi­ziari del premier.
La difficoltà, tuttavia, non sta nella ri­mozione di Berlusconi. Cosa che Confindustria era già riuscita a fare nel 2006, salvo poi accorgersi che il rimedio Prodi, con quel 10% di sinistra radicale emerso dalle urne, era peggiore del male. Il problema di oggi è: chi mettere al suo posto?In assenza di qualcuno, il vero Potere a giugno scorso deve essersi risposto che tanto per cominciare sarebbe stato utile un po’ di caos. Ne sono derivate, in sequen­za: 1) l’operazione ‘Ci arrangiamo da noi’ di Marchionne, orchestrata così da mostrare il potere economico come unica possibilità di salvezza per l’Italia; 2) il massiccio attacco sferrato a Berlusconi, a suon di scandali sessuali, da parte di giornali, Repubblica in testa, di proprietà del gotha finanziario e in­dustriale, gli stessi che negli ultimi vent’anni hanno contribuito a costruire, nell’imma­ginario degli italiani, il mito del self-made man; 3) l’improvviso rigurgito di coscienza di Fini, dopo un’alleanza di sedici anni, e i siluri sparati in seguito sul vecchio socio.
Da tanto fumo è emersa una manovra ad ampio respiro, ma priva di una solida stra­tegia, caratterizzata da finte e controfinte, acquisti di politici, giochi di specchi, ordi­ta da guantate manine misteriose che pas­sano dossier, foto osé; spettacolarizzata da escort che parlano e scrivono libri, e da di­rettori di giornali che scampano a finti at­tentati; vivacizzata da scontri di giornali di opposte fazioni e da politici in crisi di co­scienza. Una strategia che non è giunta a una soluzione definitiva. Tutti questi coi­ti clandestini consumati nel letto matrimo­niale che economia e politica condividono hanno partorito un bambino prematuro e sottopeso – definito Terzo polo – che, alla sua prima uscita, ha fallito la missione di sfiduciare Berlusconi.La sconfitta del Terzo polo, datata 14 di­cembre 2010, spiega quanto le difficoltà in cui è incappato il potere economico, e la conseguente impasse politica, siano rintracciabili nella complessità della figura stessa del nemico.
Berlusconi non è un politico qualun­que (lo ha ampiamente dimostrato) ma un uomo d’affari – prestato alla politica – privo di scrupoli che risponde solo a se stesso. Una sorta di colonnello Kurtz immerso nel­la giungla parlamentare, attorniato da uno stuolo di devoti che lo credono una divini­tà, disposti a qualunque sacrificio, in termi­ni di dignità, per restare nelle sue grazie ed esserne premiati. Le sue armate sono i me­dia, con i quali ha stravolto l’immaginario della popolazione entrandole in casa, insi­nuandosi nei suoi discorsi, nelle sue battu­te e nelle sue passioni; e la ricchezza, con la quale ha creato una fitta ramificazione d’af­fari, tale da costringere gli italiani, compresi coloro che lo odiano, a dargli soldi, senza accorgersi di farlo, ogni volta che estraggo­no il portafoglio.Grazie a questa complessa macchi­na da guerra, Berlusconi ha imposto se stesso sotto forma di antitesi (sì/no) al­l’elettorato e alla politica (con/contro), imponendo il berlusconismo e l’anti­berlusconismo, consacrando in questo modo l’antipolitica e dando l’estrema unzione al pensiero politico. E diven­tando la colonna portante del bipolari­smo e dell’intero sistema di potere. Un po’ come il Diavolo per la Chiesa.
Ciò spiega perché, senza di lui, è im­possibile sia formare un governo che or­ganizzare un’opposizione. A quest’ultimo proposito, la traiettoria politica del centro­sinistra, dalla fine del Pci a oggi, vale come esempio. Come avrebbe potuto, infatti, but­tare a mare milioni di lavoratori, abiurare l’antifascismo – e così eliminare dalla propria storia ogni riferimento al confitto sociale – abbracciare il neoliberismo e spostarsi sem­pre più a destra, senza un Berlusconi al qua­le opporsi come antitesi etica e morale?
Ora: dato che un Terzo polo, in un si­stema bipolare, è l’esatto contrario del­la governabilità, si può dedurre che la sua nascita altro non sia che una specie di par­cheggio temporaneo; uno sbaglio nella tempistica di una qualche strategia (o la situazione creata da un’improvvisa con­tromossa di Berlusconi), una presa a te­naglia o, al più, un disordinato tentativo di assedio organizzato da tribù diverse, ognuna con il proprio capo e animata dalla preoccupazione di portare a casa la propria parte di bottino.
Il clima seguito alla débâcle del voto di sfiducia ricorda, sotto forma di farsa, il 25 luglio 1943. Come allora il movente consiste in un doppio piano: cacciare il tiranno e garantire la conservazione del sistema. Per dedurlo, basta leggere i nomi dei gruppi e dei rispettivi capi che, indos­sato il tricolore, si sono assegnati la nobile missione di salvare l’Italia: Casini, Buttiglione, Cesa, Pezzotta, D’Onofrio per l’Udc; Fini, Bocchino, Urso, Viespoli per Futuro e Libertà; Rutelli e Tabacci per l’Api; Raffae­le Lombardo per l’Mpa. Tutti raccolti sotto un unico ombrello dall’impegnativo nome di Polo della Nazione, al fine di cambiare la for­ma e conservare intatta la sostanza politica ed economica. Non sfugge, infatti, di trovar­si di fronte a personaggi che, negli ultimi se­dici anni, si sono fatti in quattro per soste­nere e corazzare Berlusconi, contribuendo a renderlo il colonnello Kurtz e a creare lo sfa­scio che oggi denunciano come se non ne avessero responsabilità alcuna.Visto il disastro della prima uscita, non è azzardato pronosticare che il futuro di questo nugolo di eroi è destinato a ridur­si alla semplice difesa della posizione – es­sendo l’avversario invincibile – fino a che non sarà il momento anche per Luca Cordero di Montezemolo di entrare in politi­ca: vero iniziatore della Vandea in questo scontro tra destre.
È buffo pensare che se oggi anch’egli può entrare in politica senza sconvolge­re le coscienze degli elettori, possa far­lo in debito a Berlusconi e alla sua disce­sa in campo. È stato lui a dimostrare, nel 1994, che gli italiani non vedono nulla di male nell’insediamento ai vertici del pote­re politico di un individuo che, per ruolo e carriera, è un puro rappresentante della classe sociale che storicamente li sfrutta e li spolpa da sempre.
L’associazione fondata da Montezemolo, Italia Futura, per il momento si pone come statuto l’obiettivo di entrare nel di­battito politico organizzando convegni, commissionando studi, affidandosi alla col­laborazione di imprenditori che lo circon­davano durante la sua presidenza di Confindustria. Rientra in questa logica l’invito agli italiani di astenersi dal voto alle regio­nali del marzo 2010. I temi proposti sono il cibo di sempre: privatizzazioni, riduzione delle tasse, flessibilità lavorativa, opportu­nità per i giovani, per quanto condite con retorica varia.Montezemolo è l’aristocrazia industriale che si fa politica, il Berlusconi dalla faccia pulita. Ma la sua impresa, come richiede la prassi mai confessata, nasce anche da moventi a forti tinte personali. Da qualche tempo sta perdendo pote­re. Marcegaglia gli ha tolto la presidenza della Luiss, Marchionne lo ha sostituito come uomo immagine della Fiat, e John Elkann gli ha sottratto lo scettro dell’azienda di famiglia. Gioco forza, quin­di, per lui, garantirsi un ruolo di peso per continuare a tessere re­lazioni e aumentare il capitale sociale conquistato in anni di duro ‘lavoro’, in particolar modo nel periodo al vertice di Confindustria. Quando, insieme ai fratelli Abete, ha contribuito alla crescita di un salotto romano di supervip del capitalismo italiano di cui fanno par­te anche Della Valle, Vittorio Merloni, Maccaferri e Lettieri. una sorta di contrapposizione al salotto milanese, più filo berlusconiano, che gravita intorno a mediobanca, con fuoriclasse del calibro di Geronzi, Benetton, i fratelli Moratti, Salvatore Ligresti e Tron­chetti Provera.
Da quando Montezemolo ha cominciato a tessere la sua rete di alleanze, la politica ha cominciato a entrare in fermento. Prima Ca­sini ha mollato la Casa delle Libertà, quindi Fini è piombato in una irreversibile crisi di coscienza. Nel frattempo, Rutelli si è sganciato dal Pd per fondare l’Api; considerando, evidentemente, più faci­le salire al governo con un partitino di centro sostenuto da protet­tori danarosi e spregiudicate alleanze, che non con il Pd, impossi­bilitato dal suo stesso elettorato ad allearsi con la destra. Uno di questi ricchi protettori è Luigi Abete, da Rutelli aiutato a rimanere presidente della Bnl all’epoca della scalata Unipol guidata da Gio­vanni Consorte.Berlusconi conosce bene i lineamenti dei volti nemici. Ne distin­gue rughe e ghigni. Soprattutto di quelli che si nascondono nel­l’ombra. E di sicuro ha le sue ragioni per dare a Fini del traditore. Chi non crede alle redenzioni improvvise – e Berlusconi sicura­mente è uno di questi – probabilmente immagina ragioni più prag­matiche del desiderio di salvare l’Italia. È probabile che fino a due anni fa Fini credesse alla possibilità di prendere un giorno il posto di Berlusconi. Ma poi, un po’ per l’importanza assunta dalla Lega nord nelle considerazioni del Cavaliere; un po’ per l’ascesa di Tre­monti – capace di sfruttare, lui sì, la crisi economica per passare all’incasso un domani, grazie a uomini di fiducia (Scaroni) messi al posto giusto (AD Eni), che gli renderanno più agevole la successione alla guida del Pdl – Fini deve aver pen­sato che la sua parabola politica rischiava di intraprendere la fase discendente. E così, dopo anni di appoggio, mettendoci faccia e nome, alle azioni di Berlusconi e Bossi, ha deciso che per la sua sopravvivenza politica era fondamentale ripercorrere le tracce di Casini (anch’egli autoassolto e lavato da ogni colpa) e rifarsi una verginità sotto l’ala di nuovi protettori. Sicuro che i media, esclusi quelli berlusconiani, e i nuovi alleati, lo avrebbero aiutato.
Eppure, malgrado questo caos, decifrare il futuro non è complica­to. Le elezioni non convengono a Confindustria nell’attuale con­giuntura economica; non convengono a Fini che ha bisogno di tempo per recuperare una quota elettora­le dignitosa; non convengono a Montezemolo, alla ricerca di alleanze e nomi a cui promettere poltrone se e quando entrerà in politica con il partito degli imprendito­ri; non convengono a Berlusconi che cer­to non ha bisogno di regalare tempo ai ma­gistrati che lo braccano; e non convengono ai dirigenti del Pd, un partito di fatto com­pletamente inutile, non essendo più di sini­stra e avendo perduto il monopolio dell’an­tiberlusconismo. Se vuole evitare la frattura definitiva con il proprio elettorato, deve dare alcune risposte a chi in questi anni lo ha votato malgrado tutto. In particolare deve chiarire la propria posizione riguardo il mercato del lavoro.
Escludendo dunque il volo nel burrone delle elezioni, alla politica non rimangono che due strade. Un governo tecnico, che Berlusconi non accetterà mai, a meno che gli uomini del Polo della Nazione non gli assicurino l’impunità, oppure un rimpasto di governo, ma senza Berlusconi premier e Tremonti come uomo di garanzia – altra opzione che il Cavaliere non può accetta­re, senza la certezza dell’impunità. Ancor meno adesso che ha capito di potere anda­re avanti a governare facendo a meno dei finiani e che è riuscito a titillare il raziocinio opportunista di Casini.Esiste anche una terza strada, comoda co­moda, molto italiana, e che proprio per que­sto è la via più praticabile: un laissez faire concordato, buono per tutti, fino al 2013, quando il ‘mostro’ potrà finalmente essere spedito al Quirinale. L’approvazione della riforma universitaria firmata Gelmini (i veri committenti sono Confindustria e Vaticano) è il primo manto di questa strada, un perfet­to esempio di recita democratica. Lo spet­tacolo si è svolto come da antologia: l’Udc e l’Api si sono astenuti, Futuro e Libertà ha votato a favore e il Pd ha espresso parere contrario. Ruoli e proclami rispettati, nu­meri garantiti e facce salvate di fronte a una società civile sempre più ingenua e impo­tente. Il tutto, proprio mentre il presidente Napolitano placava gli studenti, ricevendoli per un the con biscotti al quirinale.
Questi giochini potrebbero proseguire fino al 2013, allorquando l’unipolarismo sarà maturo per diventare un dato di fatto; e allora, salvo sorprese, scenderà la bonac­cia. Tremonti, a quel punto, potrebbe se­dersi sulla poltrona ancora calda di Berlu­sconi. Questo aprirà le porte a un’ampia coalizione di centro-destra, senza litigi né intoppi nel rispetto delle reciproche diffe­renze ideologiche, a cui, in un modo o nel­l’altro, finirà per affiancarsi la Lega nord. Tanto il federalismo ormai piace a tutti e quel che conta è il Dna comune: l’accor­do sul neoliberismo. Sarà governabilità.All’interno di questo contesto sciasciano, al Pd non rimarrà che un ruo­lo da comprimario. Allearsi con Fini, in termini di voti sarebbe un favore a Ven­dola, quindi non gli resterà altro da fare che portare avanti il compito svolto ne­gli ultimi anni: contribuire a mantene­re credibilmente in piedi il bipolarismo. Con un Parlamento nelle mani della de­stra e un mercato squisitamente selvag­gio, saranno inevitabili le tensioni so­ciali, e qualcuno dovrà pur provvedere a tranquillizzare la piazza. Come in un gio­co di ruolo, il Pd, insieme a Sinistra e Liber­tà, avrà convenienza a continuare a fingere un’opposizione, accontentando così sia il vero Potere che il proprio elettorato, fe­lice di avere ancora qualcuno da votare. In questo modo sarà garantita una sopravvi­venza ‘dignitosa’ anche ai dirigenti, quelli vecchi e i giovani rampanti. Niente di male, tutto sommato. Da che mondo è mondo, i Parlamenti funzionano così.

di Walter G. Pozzi, Primapagina

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