Non passa giorno senza che una nuova voce si aggiunga al coro: “Chi lavora deve privarsi di qualche diritto. È la globalizzazione che lo impone”. Sul tema l’accordo è bipartisan. “La globalizzazione costringe ad abbandonare alcune conquiste sindacali ottenute in circostanze più favorevoli”: così Michele Salvati, economista di area Pd. Fiorella Kostoris, economista più vicina al governo, invece sentenzia: “C’è chi ancora crede che si possa stare nella globalizzazione senza cambiare nulla”. E lei, che non ci crede, cosa propone? Di lavorare di più a parità di salario: si deve “abbassare il costo del lavoro per dipendente e per unità prodotta, lavorando più ore e in più persone per produrre di più… Per aumentare la produttività, il mezzo più appropriato è l’incremento delle ore lavorate”. Le fa eco Guidalberto Guidi, presidente delle imprese elettroniche di Confindustria: “Nei Paesi che crescono si lavora dieci ore al giorno… Non è tirannia, sono le leggi del mercato”.
È stato questo il tam tam che ha accompagnato la vertenza di Mirafiori e, prima, quella di Pomigliano. Con l’inevitabile variazione sul tema: la Cina. John Elkann, ad esempio, ha sentenziato con aria grave: “La Cina esiste, è una grande realtà con la quale dobbiamo confrontarci”. Vero: e allora perché la società di cui è il principale azionista, la Fiat, non ci si confronta? Perché il fatto è che, mentre di automobili cinesi in Italia non se ne vedono, la Cina è invece inondata di auto occidentali. Tranne quelle della Fiat, che da quel mercato è assente.
Ma la frase di Elkann non è soltanto un autogol, è il sintomo di un approccio sbagliato al problema della crescita dei paesi emergenti: che non sono una minaccia, ma una grande opportunità per chi la sappia cogliere. Questo è già vero oggi, ma lo sarà ancora di più in futuro. Lo dimostrano due recenti ricerche, prodotte da McKinsey e da Standard Chartered. Entrambe prendono in considerazione un orizzonte temporale che va sino al 2030, e le loro conclusioni sono sostanzialmente convergenti: il mondo sta per vivere un grande periodo di crescita, simile a quello che abbiamo vissuto tra il 1945 e il 1970.
La novità è che questa volta lo sviluppo sarà trainato dai giganteschi investimenti che saranno effettuati soprattutto in Asia (in particolare Cina e India), ma anche in America Latina e Africa. Secondo McKinsey la domanda di investimenti produttivi, infrastrutture ed edilizia residenziale ammonterà nel 2030 a qualcosa come 29 mila miliardi di dollari. La spesa per consumi prevista da Standard Chartered non è meno impressionante: al riguardo la Cina supererà gli Stati Uniti già nel 2017-2018. E nel 2030 il suo pil pro capite sarà 43 volte maggiore di quello del 1980 (quello dell’India “solo” 17 volte). In quello stesso anno, nel mondo gli appartenenti alla middle class (che secondo i criteri dell’Ocse sono le persone con un reddito giornaliero dai 10 ai 100 dollari a parità di potere d’acquisto) saranno 4,9 miliardi: quasi tre volte gli 1,8 miliardi odierni.
La conclusione di tutto questo è obbligata: i paesi emergenti continueranno a essere grandi esportatori, ma saranno sempre più importanti come consumatori; e non soltanto di materie prime, ma anche di prodotti finiti. Non si tratta di un futuro lontano: nel 2010 le importazioni della Cina sono cresciute di 400 miliardi di dollari, attestandosi a 1.400 miliardi. Insomma: la crescita di quello che una volta consideravamo il Terzo mondo rappresenta una gigantesca opportunità.
Ma c’è un ma. Ed è rappresentato da un elemento che resta significativamente in ombra in tutti i discorsi dei nostri teorici della globalizzazione come destino. Ce lo ricorda proprio la ricerca di Standard Chartered: in questo nuovo scenario il successo dei Paesi più sviluppati dipenderà più che mai dalla ricerca, dalla tecnologia e dalla capacità di innovare. E qui cominciano le dolenti note per l’Italia. Ecco cosa dice l’Istat in proposito: “Gli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) e in innovazione segnalano un forte svantaggio dell’Italia rispetto alle altre importanti economie europee anche in relazione alla capacità innovativa espressa dal sistema delle imprese. La spesa complessiva in R&S, stimata per il 2008 nell’1,2 per cento del Pil, presenta un valore analogo a quello raggiunto alla metà degli anni Ottanta, decisamente lontano dalla media europea (circa 1,9 per cento). Solo il 37 per cento delle imprese manifatturiere italiane conduce attività di ricerca (contro il 70 per cento di quelle tedesche e il 59 per cento delle francesi) e il 28 per cento delle imprese produce servizi ad alto contenuto di conoscenza (ultimi nel confronto con le principali economie europee)”.
Investimenti in ricerca significano innovazione di processo e di prodotto e miglioramento della produttività del lavoro. È questo che conta, ben più che le ore lavorate. E infatti – e questo è un dato che sottoponiamo volentieri alla riflessione dei teorici del lavoro (degli altri) – in Italia già oggi non si lavora di meno, ma di più che in Germania: per l’esattezza 1.807 ore medie annue contro 1.429 (dati Ocse riferiti al 2007); in Fiat 40 ore settimanali contro le 35 della Volkswagen (a fronte di uno stipendio molto più basso). Nonostante questo, la Volkswagen (e non la Geely cinese) continua a erodere quote di mercato alla Fiat, in Italia e altrove. Come mai? Perché, per dirla con Patrick Artus, responsabile della ricerca economica di Natixis e autore di un report recente sui differenziali di competitività tra i paesi europei, “il tempo di lavoro non gioca alcun ruolo”, mentre ben più importanti sono gli incrementi nella produttività del lavoro: notevoli nel caso tedesco, inesistenti nel caso italiano. È questo che provoca la continua perdita di competitività di prezzo delle imprese italiane, recentemente ricordata anche dalla Banca d’Italia.
Invertire la tendenza non sarà facile. Potremo riuscirci solo se affronteremo il problema della globalizzazione da un punto di vista diverso: cominciando finalmente a occuparci non di quello che fa il lavoro (che come si è visto non è poco), ma di quello che fa (o non fa) il capitale.
Vladimiro Giacchè, Il Fatto Quotidiano,
Ma la frase di Elkann non è soltanto un autogol, è il sintomo di un approccio sbagliato al problema della crescita dei paesi emergenti: che non sono una minaccia, ma una grande opportunità per chi la sappia cogliere. Questo è già vero oggi, ma lo sarà ancora di più in futuro. Lo dimostrano due recenti ricerche, prodotte da McKinsey e da Standard Chartered. Entrambe prendono in considerazione un orizzonte temporale che va sino al 2030, e le loro conclusioni sono sostanzialmente convergenti: il mondo sta per vivere un grande periodo di crescita, simile a quello che abbiamo vissuto tra il 1945 e il 1970.
La novità è che questa volta lo sviluppo sarà trainato dai giganteschi investimenti che saranno effettuati soprattutto in Asia (in particolare Cina e India), ma anche in America Latina e Africa. Secondo McKinsey la domanda di investimenti produttivi, infrastrutture ed edilizia residenziale ammonterà nel 2030 a qualcosa come 29 mila miliardi di dollari. La spesa per consumi prevista da Standard Chartered non è meno impressionante: al riguardo la Cina supererà gli Stati Uniti già nel 2017-2018. E nel 2030 il suo pil pro capite sarà 43 volte maggiore di quello del 1980 (quello dell’India “solo” 17 volte). In quello stesso anno, nel mondo gli appartenenti alla middle class (che secondo i criteri dell’Ocse sono le persone con un reddito giornaliero dai 10 ai 100 dollari a parità di potere d’acquisto) saranno 4,9 miliardi: quasi tre volte gli 1,8 miliardi odierni.
La conclusione di tutto questo è obbligata: i paesi emergenti continueranno a essere grandi esportatori, ma saranno sempre più importanti come consumatori; e non soltanto di materie prime, ma anche di prodotti finiti. Non si tratta di un futuro lontano: nel 2010 le importazioni della Cina sono cresciute di 400 miliardi di dollari, attestandosi a 1.400 miliardi. Insomma: la crescita di quello che una volta consideravamo il Terzo mondo rappresenta una gigantesca opportunità.
Ma c’è un ma. Ed è rappresentato da un elemento che resta significativamente in ombra in tutti i discorsi dei nostri teorici della globalizzazione come destino. Ce lo ricorda proprio la ricerca di Standard Chartered: in questo nuovo scenario il successo dei Paesi più sviluppati dipenderà più che mai dalla ricerca, dalla tecnologia e dalla capacità di innovare. E qui cominciano le dolenti note per l’Italia. Ecco cosa dice l’Istat in proposito: “Gli investimenti in ricerca e sviluppo (R&S) e in innovazione segnalano un forte svantaggio dell’Italia rispetto alle altre importanti economie europee anche in relazione alla capacità innovativa espressa dal sistema delle imprese. La spesa complessiva in R&S, stimata per il 2008 nell’1,2 per cento del Pil, presenta un valore analogo a quello raggiunto alla metà degli anni Ottanta, decisamente lontano dalla media europea (circa 1,9 per cento). Solo il 37 per cento delle imprese manifatturiere italiane conduce attività di ricerca (contro il 70 per cento di quelle tedesche e il 59 per cento delle francesi) e il 28 per cento delle imprese produce servizi ad alto contenuto di conoscenza (ultimi nel confronto con le principali economie europee)”.
Investimenti in ricerca significano innovazione di processo e di prodotto e miglioramento della produttività del lavoro. È questo che conta, ben più che le ore lavorate. E infatti – e questo è un dato che sottoponiamo volentieri alla riflessione dei teorici del lavoro (degli altri) – in Italia già oggi non si lavora di meno, ma di più che in Germania: per l’esattezza 1.807 ore medie annue contro 1.429 (dati Ocse riferiti al 2007); in Fiat 40 ore settimanali contro le 35 della Volkswagen (a fronte di uno stipendio molto più basso). Nonostante questo, la Volkswagen (e non la Geely cinese) continua a erodere quote di mercato alla Fiat, in Italia e altrove. Come mai? Perché, per dirla con Patrick Artus, responsabile della ricerca economica di Natixis e autore di un report recente sui differenziali di competitività tra i paesi europei, “il tempo di lavoro non gioca alcun ruolo”, mentre ben più importanti sono gli incrementi nella produttività del lavoro: notevoli nel caso tedesco, inesistenti nel caso italiano. È questo che provoca la continua perdita di competitività di prezzo delle imprese italiane, recentemente ricordata anche dalla Banca d’Italia.
Invertire la tendenza non sarà facile. Potremo riuscirci solo se affronteremo il problema della globalizzazione da un punto di vista diverso: cominciando finalmente a occuparci non di quello che fa il lavoro (che come si è visto non è poco), ma di quello che fa (o non fa) il capitale.
Vladimiro Giacchè, Il Fatto Quotidiano,
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