lunedì 28 febbraio 2011

Tronti: «La sinistra riparta dalle idee e non dai leader»


Intervista a Mario Tronti filosofo, presidente del Centro per la riforma dello Stato
Non ha dubbi Mario Tronti. Per il filosofo, nonché presidente del Crs (Centro per la riforma dello Stato), la sinistra in Italia se vuole tornare a contare e a riappropriarsi di un'identità che sembra svanita nel nulla deve mettere in discussione la deriva personalistica che ha coinvolto tutti, sia il Pd che la sinistra radicale.

Professor Tronti, da quando inizia questo lento ma inevitabile abbandono della forma partito novecentesca da parte della sinistra italiana? Dalla caduta del Muro di Berlino o più tardi, con l'arrivo di Berlusconi, che certamente ha imposto un modello che in tanti poi hanno voluto imitare?
La deriva sicuramente comincia nei primi anni '90. La caduta del Muro nell'89 ha senz'altro contribuito a mettere in crisi un apparato che si reggeva molto sulle forme organizzate della politica, soprattutto a sinistra. Però io penso che la vera crisi viene dopo, ed è molto dentro anche l'anomalia italiana. Perché poi negli altri paesi non c'è stato questo grande crollo della forma partito. I partiti sono rimasti più o meno in campo, tutti ricchi un po' della propria tradizione sia pure in tono minore rispetto al passato. Invece qui è accaduto qualcosa secondo me molto prima della discesa in campo di Berlusconi. Ci fu una summa di cause: intanto il passaggio di Tangentopoli e la crisi dei partiti italiani, soprattutto di governo ma anche di quelli di sinistra che governavano localmente. Quello è stato un momento in cui i partiti sono stati visti come qualche cosa di molto legato alla corruzione del ceto politico, ed è cominciata una vicenda sfociata poi nell'antipolitica. Una fase giustizialista che la sinistra ha cavalcato perché sembrava che andasse a proprio favore. L'altro passaggio, secondo me ancor più fondamentale, riguarda tutta la vicenda cosiddetta referendaria. Quando si è cominciato a cambiare la legge elettorale attraverso i referendum. E lì è venuta avanti l'idea che bisognasse istituire questo rapporto diretto tra cittadino sovrano e scelta di governo, senza più la mediazione dei partiti. Una vicenda molto pesante che è stata successivamente presa in mano anche dalla sinistra.
Fa riferimento al patto Occhetto-Segni?
Sì, e fu devastante. Contribuì all'affermazione dell'idea che tutti i partiti in fondo fossero corrotti, non servivano più per governare perché la governabilità veniva assicurata da una legge elettorale che doveva essere maggioritaria e in quanto tale fondamentalmente anti-partito perché li costringe a schierarsi dentro una coalizione e a scomparire dentro di essa. Tutte queste cause sommate poi hanno portato nel '94 alla famosa scesa in campo di chi ha visto in questo vuoto creato dalla destrutturazione dei partiti una possibilità per proporre una nuova forma, populista, direttista. Da lì poi non si è più riusciti a tornare indietro purtroppo.
Questa deriva ha fatto mancare quello che può essere considerato un po' il sale della democrazia, ovvero la partecipazione democratica. Che cosa ne pensa?
I partiti sono forme di mobilitazione di massa, almeno così come erano stati concepiti e sperimentati nella seconda metà del '900. E soprattutto in Italia dove vivevano su grandi componenti popolari, quella cattolica, quella socialista e comunista. Che era popolo reale che si riconosceva dentro questi contenitori e quindi in questo senso attraverso il partito partecipava alla vita politica. Lo stato dei partiti è venuto fuori anche sull'onda di un dettato costituzionale perché la nostra Costituzione appunto li prevede. Poi naturalmente ci sono state delle degenerazioni perché è mancato un ricambio corretto dei gruppi dirigenti e anche perché quelle componenti popolari si sono disgregate socialmente. L'errore, secondo me, è stato quello di non avviare una grande riforma dei partiti, adeguandoli anche alle nuove condizioni, alle nuove situazioni. Al contrario, questa riforma non è stata fatta e si è passati ad una loro destrutturazione. E la mia idea è che questa crisi dei partiti è stata all'origine della crisi della politica e del distacco vero dei cittadini dalla politica. I partiti, in quanto tali, assicurano un rapporto quasi quotidiano del cittadino con la politica che altrimenti si riduce ad una volta ogni tanto. Quando c'è il rito elettorale, o le primarie in questi ultimi anni, insomma a scadenza. Poi per il resto ognuno resta a casa sua a fare i fatti propri.
Nel Pd Veltroni è stato quello più impegnato nel proporre questa leadership personalistica tutta legata al modello maggioritario e bipolare. A sinistra invece è Nichi Vendola, che in qualche modo rappresenta una variante del veltronismo, ad andare per la maggiore. Due facce della stessa medaglia?
La carta veltroniana, secondo me, è molto in sintonia con il passaggio che attraverso Occhetto ha portato alle nuove forme di partito e lui ha rivendicato in questo senso una certa coerenza. Cosa vera perché in quella via era già segnata l'idea che in fondo il partito era una forma vecchia e che tutto andava affidato alla spontaneità della mobilitazioni della cosiddetta società civile, considerata più virtuosa. Dall'altra parte nella sinistra radicale c'è stata una eccessiva condiscendenza alle forme di movimento che sono state viste come sostitutive dei partiti, e non complementari come dovrebbero essere. L'idea che i movimenti potessero essere la nuova forma della politica sostitutiva del partito è stata un errore. In realtà le due forme devono per forza convivere. Insomma sia da destra che da sinistra si sono create le premesse per una forma di destrutturazione dei partiti e dunque anche della forma organizzata della politica, come se quest'ultima non avesse appunto più bisogno di una organizzazione. Nell'ultimo numero di Democrazia e Diritto si tende un po' a falsificare questa idea, dicendo che i partiti possono anche aver avuto una crisi della loro struttura, però non si possono eliminare. Devono essere rinnovati con una nuova idea di partito.
Come si esce da questa situazione? Bersani può rappresentare un'inversione di tendenza nel Pd rispetto al corso veltroniano? E che strada prenderà Nichi Vendola, con Sel e le sue fabbriche?
La situazione è certamente complessa e difficile da gestire. Bisogna lavorare dentro un progetto che non può più accettare che un Paese come il nostro, politico per eccellenza, sia l'unico in Europa senza una grande forza della sinistra. Come non è accettabile l'idea che in Italia ci sia solo un Pd che si definisce di "centro-sinistra", e una sinistra piccola non sufficiente per giocare un ruolo politico generale. Il progetto è dunque quello di ricostruire questa grande forza. Bersani sta facendo un lavoro che anch'io guardo con favore perché intanto rifiuta l'idea del partito personale. Per quanto mi riguarda ho raccomandato di cominciare a togliere il nome dei leader dai simboli di partiti e dalla scheda elettorale per tornare a partiti che non siano di un capo ma di un progetto, con un programma, un gruppo dirigente riconoscibile ed autorevole. E dobbiamo andare alle elezioni così, con la gente che deve scegliere appunto una forza politica e non un leader. Questo è fondamentale soprattutto per la sinistra che non può affidarsi ad una persona sola. Anche Vendola, che io ritengo essere una grande risorsa, deve pensarsi come un elemento di forza all'interno di una sinistra più grande, e non come qualcosa che mette in gioco unicamente la sua persona. Le stesse Fabbriche di Nichi dovrebbero contribuire a questo. L'esperimento può essere anche positivo, come sono positive tutte le aggregazioni di base, però bisogna portarle verso l'alto, ad una forma di riorganizzazione della politica di sinistra che si dichiari alternativa non solo al berlusconismo ma a quello che gli sta dietro, e cioé al bipolarismo, alla logica del maggioritario, con un ritorno dei partiti in parlamento, capaci di giocare la loro presenza attraverso le proprie idee e i propri militanti.
Vittorio Bonanni, Liberazione

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