mercoledì 30 novembre 2011

L'impresa del comunismo non merita abiure di Dino Greco, Liberazione

Lucio Magri ha deciso di andarsene così, mettendo fine ad un lungo periodo di autoisolamento e ormai irreversibile depressione. E noi non proveremo neppure ad indagarne le personalissime ragioni, che devono solo essere comprese e rispettate. Resta il dolore per una perdita che nessuno e nessuna hanno potuto evitare. In quest'ora tristissima, solo poche cose ci sentiamo di dire, ed in primo luogo una. Benché il suicidio possa apparire come una resa ai colpi della vita, e per lui indubbiamente lo è stata, il messaggio, quello pubblico, che Lucio ci rende è l'opposto della rinunzia alla lotta, all'ingaggio politico. Negli ultimi tempi, totalmente immerso nella stesura del suo ultimo libro che oggi ci appare non solo come un grande sforzo di ricognizione storica, ma come il suo testamento politico, Lucio era dominato da un assillo, quello di avere mancato in un momento di cruciale importanza per le prospettive della sinistra italiana. Fu quando ad Arco di Trento - dopo la svolta della Bolognina con cui Achille Occhetto aveva imboccato la strada della dissoluzione del Pci - Lucio svolse al cospetto della sinistra del partito che si opponeva a quell'epilogo - una lucidissima relazione nella quale contestava in radice la scelta autodistruttiva di Occhetto, ne demoliva i presupposti politici e culturali, per delineare il progetto di un profondo rinnovamento della cultura, della strategia del partito comunista, di una sua rifondazione, appunto. Era convinto, Magri, che i giochi fossero ancora aperti. Lo era sin da quando, nei primi anni Ottanta, lo scontro nel Pci fra Enrico Berlinguer e la destra interna (sulla Fiat, sulla scala mobile, sulla questione operaia, sulla questione morale come degenerazione della partitocrazia) era venuto alla luce del sole con inedita durezza e andavano maturando le condizioni di una riparazione storica e politica del partito alla radiazione inflitta al gruppo del Manifesto, nel fuoco di una battaglia che si annunciava già senza esclusione di colpi. Ebbene, malgrado il colpo della scomparsa di Berlinguer, Lucio era convinto che Occhetto (e il gruppo dirigente stretto attorno a lui) non avrebbe retto di fronte ad un’opposizione che la sinistra avesse voluto portare sino alle estreme conseguenze, sino cioè alla minaccia di scissione. Solo quando Pietro Ingrao, con il suo immenso carisma, si pronunciò in favore, in ogni caso, di una permanenza nel partito, a lottare nel «gorgo», i giochi furono fatti. E Magri, ripensando a quei momenti cruciali, non finiva di rimproverare a se stesso e agli altri compagni di non avere reagito, di avere subito quello che, retrospettivamente, gli parve un cedimento, una debolezza, comunque un errore fatale. Difficile dire se la storia, se la vicenda politica della sinistra e del nostro Paese avrebbero potuto davvero prendere un’altra piega. Certo Magri ne era convinto e questa possibilità mancata, proprio perché sorretta da una rigorosa analisi storica controfattuale, rappresentava per lui il motivo di un tormento quasi angosciante. Nell’incipit del suo libro, Il sarto di Ulm, c’è tuttavia l’ultima feconda esortazione che Lucio ci ha lasciato. L’invito a trarre da quell’apologo la forza, intellettuale e morale, per non ripiegare passivamente sui nostri insuccessi. Dopo il fallimento rovinoso del sarto inventore di un marchingegno che credette capace di fargli spiccare il volo, gli uomini tentarono mille e mille volte ancora, finché riuscirono, molti secoli dopo, in quell’impresa titanica. Allo stesso modo, i comunisti farebbero bene a scansare la damnatio memoriae così di moda di questi tempi. «Se la storia reale della modernità capitalistica non era stata lineare, né univocamente progressiva - scrive Magri - perché dovrebbe esserlo il processo del suo superamento?». Ecco allora che «chi al tentativo del comunismo ha creduto e in qualche modo vi ha partecipato (...) ha il dovere di rendere conto (...), di chiedersi se quella sepoltura non sia troppo frettolosa». Lucio Magri ci manda a dire che quel tentativo che ha coinvolto per decenni le vite di migliaia, centinaia di migliaia, milioni di esseri umani in una straordinaria impresa collettiva, in un progetto di riscatto dell’umanità dalla soggezione e dallo sfruttamento, merita di essere considerato non soltanto con rispetto, ma come un percorso da riprendere. «Torno di nuovo e di più a chiedermi - concludeva Magri - se vi siano argomenti razionali e convincenti per opporsi all’abiura e alla rimozione. O quanto meno buone ragioni e condizioni adatte per riaprire oggi criticamente una discussione sul comunismo, anziché archiviarla. A me pare di sì». Pare anche a noi, caro Lucio. Grazie per il salutare, intelligente colpo di sferza che hai voluto darci. Fino all’ultimo.

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