Lucio Magri ha deciso di andarsene così, mettendo fine ad un lungo
periodo di autoisolamento e ormai irreversibile depressione. E noi non
proveremo neppure ad indagarne le personalissime ragioni, che devono
solo essere comprese e rispettate. Resta il dolore per una perdita che
nessuno e nessuna hanno potuto evitare. In quest'ora tristissima, solo
poche cose ci sentiamo di dire, ed in primo luogo una. Benché il
suicidio possa apparire come una resa ai colpi della vita, e per lui
indubbiamente lo è stata, il messaggio, quello pubblico, che Lucio ci
rende è l'opposto della rinunzia alla lotta, all'ingaggio politico.
Negli ultimi tempi, totalmente immerso nella stesura del suo ultimo
libro che oggi ci appare non solo come un grande sforzo di ricognizione
storica, ma come il suo testamento politico, Lucio era dominato da un
assillo, quello di avere mancato in un momento di cruciale importanza
per le prospettive della sinistra italiana. Fu quando ad Arco di Trento -
dopo la svolta della Bolognina con cui Achille Occhetto aveva imboccato
la strada della dissoluzione del Pci - Lucio svolse al cospetto della
sinistra del partito che si opponeva a quell'epilogo - una lucidissima
relazione nella quale contestava in radice la scelta autodistruttiva di
Occhetto, ne demoliva i presupposti politici e culturali, per delineare
il progetto di un profondo rinnovamento della cultura, della strategia
del partito comunista, di una sua rifondazione, appunto. Era convinto,
Magri, che i giochi fossero ancora aperti. Lo era sin da quando, nei
primi anni Ottanta, lo scontro nel Pci fra Enrico Berlinguer e la destra
interna (sulla Fiat, sulla scala mobile, sulla questione operaia, sulla
questione morale come degenerazione della partitocrazia) era venuto
alla luce del sole con inedita durezza e andavano maturando le
condizioni di una riparazione storica e politica del partito alla
radiazione inflitta al gruppo del Manifesto, nel fuoco di una battaglia
che si annunciava già senza esclusione di colpi. Ebbene, malgrado il
colpo della scomparsa di Berlinguer, Lucio era convinto che Occhetto (e
il gruppo dirigente stretto attorno a lui) non avrebbe retto di fronte
ad un’opposizione che la sinistra avesse voluto portare sino alle
estreme conseguenze, sino cioè alla minaccia di scissione. Solo quando
Pietro Ingrao, con il suo immenso carisma, si pronunciò in favore, in
ogni caso, di una permanenza nel partito, a lottare nel «gorgo», i
giochi furono fatti. E Magri, ripensando a quei momenti cruciali, non
finiva di rimproverare a se stesso e agli altri compagni di non avere
reagito, di avere subito quello che, retrospettivamente, gli parve un
cedimento, una debolezza, comunque un errore fatale. Difficile dire se
la storia, se la vicenda politica della sinistra e del nostro Paese
avrebbero potuto davvero prendere un’altra piega. Certo Magri ne era
convinto e questa possibilità mancata, proprio perché sorretta da una
rigorosa analisi storica controfattuale, rappresentava per lui il motivo
di un tormento quasi angosciante. Nell’incipit del suo libro, Il sarto
di Ulm, c’è tuttavia l’ultima feconda esortazione che Lucio ci ha
lasciato. L’invito a trarre da quell’apologo la forza, intellettuale e
morale, per non ripiegare passivamente sui nostri insuccessi. Dopo il
fallimento rovinoso del sarto inventore di un marchingegno che credette
capace di fargli spiccare il volo, gli uomini tentarono mille e mille
volte ancora, finché riuscirono, molti secoli dopo, in quell’impresa
titanica. Allo stesso modo, i comunisti farebbero bene a scansare la
damnatio memoriae così di moda di questi tempi. «Se la storia reale
della modernità capitalistica non era stata lineare, né univocamente
progressiva - scrive Magri - perché dovrebbe esserlo il processo del suo
superamento?». Ecco allora che «chi al tentativo del comunismo ha
creduto e in qualche modo vi ha partecipato (...) ha il dovere di
rendere conto (...), di chiedersi se quella sepoltura non sia troppo
frettolosa». Lucio Magri ci manda a dire che quel tentativo che ha
coinvolto per decenni le vite di migliaia, centinaia di migliaia,
milioni di esseri umani in una straordinaria impresa collettiva, in un
progetto di riscatto dell’umanità dalla soggezione e dallo sfruttamento,
merita di essere considerato non soltanto con rispetto, ma come un
percorso da riprendere. «Torno di nuovo e di più a chiedermi -
concludeva Magri - se vi siano argomenti razionali e convincenti per
opporsi all’abiura e alla rimozione. O quanto meno buone ragioni e
condizioni adatte per riaprire oggi criticamente una discussione sul
comunismo, anziché archiviarla. A me pare di sì». Pare anche a noi, caro
Lucio. Grazie per il salutare, intelligente colpo di sferza che hai
voluto darci. Fino all’ultimo.
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