Siamo sotto dittatura. Festeggiamo?- di Ramon Mantovani
Le immagini della folla vociante che festeggiava
la caduta del governo Berlusconi, cantando inni religiosi e perfino Bella Ciao,
stridono drammaticamente con la realtà del paese e del momento.
Non
ce l’ho con le persone che hanno festeggiato come i tifosi di una squadra per
la sconfitta dell’odiato avversario. Constato, con pena, che molti e molte, che pure
magari si considerano progressisti o addirittura di sinistra, sono ridotti
appunto ad essere passivi tifosi, più contro Berlusconi che a favore di
qualsiasi cosa.
Il lavoro è svalorizzato e deprivato della sue
funzioni sociali e morali, ridotto a pura merce fra le altre, e
conseguentemente lavoratrici e lavoratori sono in balia di un mercato che li
tratta come cose e che non tollera la loro umanità
e tanto meno la stessa possibilità che i loro interessi comuni possano pesare
nella società, nei confronti delle loro controparti, nelle istituzioni dove si
prendono le decisioni, nel sistema dell’informazione, nel mondo della cultura.
Di converso esiste una casta, questa si davvero
una casta, di capitalisti, di banchieri, di finanzieri, di “manager”, di
tecnocrati e di burocrati che decidono per tutta l’umanità, i cui interessi,
perfino immediati, sono assolutizzati e santificati come gli “unici possibili”,
come oggettivi, come indiscutibili.
Ci
voleva una crisi terrificante del sistema finanziario e capitalistico per
mettere a nudo questa inconfutabile verità?!
Una verità che, anche quando non è negata, viene
presentata come una dura realtà da accettare, da digerire e da descrivere
“realisticamente” come immodificabile.
La situazione attuale non è figlia di nessuno,
non è il risultato del semplice e automatico “sviluppo” del sistema
capitalistico o dell’abilità della casta, quella vera, di impossessarsi del potere incontrollato che le
permette di “dettare” agende e provvedimenti ai governi e ai parlamenti, più o
meno democraticamente eletti, nei suoi esclusivi interessi.
Dopo la crisi del ‘29 e soprattutto dopo la
seconda guerra mondiale, sia per la paura che incuteva alle borghesie di tutti
i paesi l’Unione Sovietica, sia per la forza che il movimento operaio aveva
conquistato con durissime lotte e avendo il potere reale di agire in quello che
era il cuore del sistema, la produzione industriale, al sistema vennero messe
briglie, regole, esattamente al fine di impedire che i suoi “istinti”
intrinseci conducessero a ripetute crisi e alla creazione di problemi
irrisolvibili per l’intera umanità.
A
questo fine, e per effetto di ricercati compromessi, non sempre avanzati anche
se comunque influenzati dagli interessi del movimento operaio, vennero adottati
precisi provvedimenti. Fra i tanti vale la pena di ricordare i seguenti:
·
L’adozione
di un sistema di cambi fra le valute con precisi e ristrettissimi vincoli alle
possibili oscillazioni di mercato fra le stesse.
·
La
fissazione della convertibilità in oro della moneta di scambio nelle transazioni commerciali e finanziarie.
·
La
proibizione alla commistione di qualsiasi tipo fra banche creditizie e banche
di investimenti.
·
La
regolazione del commercio internazionale
sulla base di un almeno parziale riconoscimento delle diseguaglianze fra paesi
ricchi e poveri.
·
Il
controllo politico delle banche centrali e delle politiche monetarie.
·
La
nazionalizzazione, in moltissimi paesi, dei settori fondamentali e strategici
nel governo dell’economia a cominciare dalle banche, energia e comunicazioni.
·
La
programmazione economica statale di medio e lungo periodo come vincolo per le attività imprenditoriali
private.
Tutto questo fu sostanzialmente imposto al
sistema capitalistico, e produsse una centralità del mercato interno ad ogni
paese e della produzione industriale.
Centralità che permise alla classe operaia di contare e di trattare da una
posizione di relativa forza. Solo così poté avvenire in Italia il “miracolo” della
fuoriuscita dalla povertà di milioni di famiglie e la conquista di diritti
sociali mai conosciuti prima.
Ma
le regole e le briglie al sistema capitalistico non produssero l’armonia e le
basi di una convivenza infinita fra interessi contrapposti e configgenti, come
prevedevano le parti pure più avanzate dei partiti cattolici e cristiani. E
nemmeno il graduale ed indolore superamento del sistema capitalistico in favore
di un socialismo democratico e moderato, come prevedevano sostanzialmente i
partiti del campo socialdemocratico.
Quelle regole e quelle briglie produssero
profitti sempre decrescenti per i capitalisti. Essi non potevano più accettare
nessun compromesso per il semplice motivo che alla lunga sarebbe venuta
sostanzialmente meno la stessa ragione della loro esistenza: la ricerca del
massimo profitto. Mai avrebbero accettato di
sparire sottomettendosi alla volontà democratica. E fu questa la molla che li
portò a chiedere ed ottenere, e a promuovere in proprio, una vera e propria
controrivoluzione. Alla fine della fase
Keynesiana poteva esserci solo la rivoluzione o la controrivoluzione. Ogni gradualismo ed illusione armonica coltivata
dai socialdemocratici venne travolta. E i comunisti non seppero, anche perché
ritennero di non potere, fare la rivoluzione. Non l’Unione Sovietica che
pretendeva di competere con il capitalismo imitandone i paradigmi
produttivistici e che aveva ormai passivizzato la società e santificato un
potere in quasi nulla diverso da quello storico della borghesia. Non i
comunisti in occidente troppo divisi ed impegnati a difendersi paese per paese
dalla controffensiva capitalistica.
I socialisti e socialdemocratici, con isolatissime eccezioni, invece che prendere
atto del fallimento del gradualismo rispetto all’obiettivo del superamento del
capitalismo (ancora presente nei loro programmi fondamentali e perfino negli
statuti dei loro partiti) lo capovolsero. Separarono i loro destini da quello degli operai
e dei lavoratori, che da quel momento perderanno inesorabilmente sempre, e si
candidarono a gestire la controffensiva capitalistica più gradualisticamente e
moderatamente della destra. Questa è l’essenza della storia politica negli
ultimi trenta anni in Europa. Ed infatti
tutti i partiti affiliati al Partito Socialista Europeo sono stati protagonisti
nello smantellare uno dopo l’altro tutti i vincoli, le regole e le briglie
imposte al sistema capitalistico nella fase precedente ed elencate più sopra.
Da quel momento, in ogni paese e con qualsiasi
sistema politico elettorale, sparì nei fatti prima ancora che nella teoria (in quanto molti socialdemocratici presentavano il
gradualismo della sconfitta come una realistica ritirata momentanea e
pragmatica) l’alternativa
fra socialismo e capitalismo e comparì nei fatti prima ancora che nella teoria (in quanto erano ancora molto diverse le culture di
provenienza e gli insediamenti elettorali) l’alternanza fra ceti politici diversi ma interni
alla gestione degli interessi capitalistici.
Al
contempo la cancellazione dei vincoli e delle regole imposti al sistema
capitalistico dal dopoguerra in poi produsse un altro fenomeno ben osservabile
per chiunque avesse occhi per vedere. La migrazione verso i mercati e gli organismi
sovranazionali incontrollati da qualsiasi influenza politica democratica, di
tutti i poteri politici statuali fondamentali in economia ed in qualche modo
influenzabili dalla dialettica democratica comunque organizzata.
Col tempo l’alternanza nella gestione del sistema
si impoverirà di poteri reali fino a divenire quasi mera esecuzione delle
“decisioni” dei mercati e la “qualità” della politica
reale più rilevante diventerà mano a mano quella dell’abilità nell’imporre
lacrime e sangue alla popolazione presentando tutto come indispensabile
sacrificio per non soccombere nella competizione internazionale. Naturalmente
promettendo un secondo tempo, capace di rinstaurare un circuito virtuoso di
redistribuzione della ricchezza e di diminuzione delle diseguaglianze, che non
è mai venuto e che mai verrà per il semplice motivo che il primo ad ogni passo
ne cancella qualsiasi possibile premessa.
Dalla
capacità di progettare la società, lo sviluppo, la democrazia verso nuovi
orizzonti e verso la eliminazione delle ingiustizie di ogni tipo, propria della
politica delle sinistre con la prospettiva della alternativa, alla capacità di
raccogliere consensi elettorali imbrogliando la propria base elettorale e
sociale e legittimandosi presso i circoli e la casta dominante competendo con
la destra nello spirito di servizio verso di essa, propria della ormai
sedicente sinistra liberale nella prospettiva dell’alternanza.
In tutto questo i comunisti e comunque quella
parte della sinistra rimasta cocciutamente anticapitalista, e per questo
considerata vecchia e dogmatica dalla sinistra liberale, sono rimasti soli,
isolati in Europa ed ognuno nel proprio paese, a difendere con le unghie e con
i denti le conquiste dei decenni passati e con la prospettiva di dover
resistere per un lungo periodo, prima di potersi proporre una svolta e un qualsiasi sbocco politico forte di rapporti di
forza sociali favorevoli.
La durezza di questa crisi ha fatto venire in
luce l’essenza antidemocratica del sistema dominante e svela ogni giorno di più
l’inganno e la natura del “gradualismo” della “sinistra liberista”. È con questo ossimoro che bisognerebbe definirla
scientificamente, senza però aprire infinite dispute nominalistiche che
lasciano il tempo che trovano, visto che è difficile coniugare i termini
“liberale” e “democratica” con l’accettazione della dittatura del mercato.
Tutto questo dovrebbe aver fatto piazza pulita
dell’uso improprio del concetto di “alleanze” e di “governo” o “cultura di
governo”.
Le alleanze si fanno per scopi precisi e
definiti. E si fanno nella società fra gruppi sociali distinti ma convergenti
nella difesa di obiettivi ed interessi. E solo su questa base si fanno anche
fra forze politiche diverse. La funzione del governo è uno strumento, un mezzo,
per la realizzazione degli obiettivi condivisi fra i contraenti l’alleanza.
Alla disgregazione sociale seguente la messa del
mercato e della finanza al centro del sistema e del modello sociale, alla
emarginazione della classe operaia
(per due decenni il mantra è stato perfino che era sparita o in via di
estinzione)
e delle sue organizzazioni politiche e sindacali, alla crescita
dell’individualismo sfrenato, della guerra fra poveri, del razzismo e
dell’egoismo localista, è cresciuta parimenti una concezione della politica
totalmente separata dalla società
(tranne che per le allusioni mistificatorie agli effettivi problemi sociali per
scopi spudoratamente elettoralistici).
Il bipolarismo, la governabilità, la velocità
delle decisioni da prendere per inseguire quelle del marcato, il potere del
governo rispetto al potere del parlamento, il parlamento dai confini bipolari e
maggioritari rispetto al parlamento rappresentativo e proporzionale, i partiti
a-classisti rispetto ai partiti interclassisti o di classe, i leader rispetto
ai collettivi democratici e così via, non sono accidenti o prodotti del
(mancato) intento di semplificazione della politica. Sono la riduzione della
politica alla funzione di gestione dell’esistente, con la relativa espulsione di qualsiasi progetto o perfino minima
rivendicazione che fuoriesca dai confini stabiliti dagli interessi del capitale
e del mercato.
Per conservare una almeno apparente dialettica
democratica si finge, letteralmente si finge, che i due schieramenti o partiti
concorrenti per la gestione dell’esistente, siano effettivamente alternativi. E
maggiore è la loro similitudine sull’essenziale, e cioè sull’accettazione della
dittatura del mercato, maggiormente si gridano insulti e ci si accapiglia nella
dimensione della politica spettacolare.
Maggiormente
si tenta di vincere le elezioni cercando di deprimere l’elettorato altrui,
alimentando la non partecipazione o il voto “antipolitico”, che non è altro che
il prodotto più reazionario che conferma l’ineluttabilità della dittatura del
mercato. Maggiormente
si alimentano speranze e illusioni, con un uso spregiudicato delle allusioni e
perfino delle descrizioni suggestive dei problemi sociali reali, salvo poi
produrre disillusioni fornendo il fianco alla speculare operazione, condotta
dalla opposizione, dello schieramento opposto.
Trovo per un verso ridicolo e per l’altro
vomitevole che ci sia chi, a sinistra, parli di alleanze e di governo come se
fossimo negli anni 50 o 60. Come se la società e la politica non fossero
cambiate, e in peggio. Come se i partiti con cui
allearsi fossero propositori di un gradualismo verso il superamento del
capitalismo. Come
se il governo da conquistare qui ed oggi avesse a disposizione i poteri
effettivi per contraddire gli interessi del capitale. Come se la cultura di
governo non fosse, come lo è stata per i comunisti all’opposizione per decenni,
la capacità di proporre soluzioni e riforme per il paese bensì accettare per un
presunto pragmatismo di confinare ogni proposta dentro le compatibilità imposte
dalla dittatura del mercato. In uno
scivolamento senza fine per cui dire no alla TAV e destinare le risorse per
risanare il territorio invece che una proposta tipica di chi ha una seria
cultura di governo diventa un estremismo non pragmatico. E gli esempi si
possono fare a decine se non a centinaia.
La nostra storia è piena negli ultimi due
decenni, in Italia come in altri paesi europei, di partiti o di scissioni che
su queste basi hanno portato acqua al mulino del bipolarismo tagliando il ramo
su cui erano seduti.
E trovo altrettanto illusorio e pericoloso
pensare che le istanze di cambiamento, spesso e per questo ridotte a pura
declamazione di slogan, possano crescere crogiolandosi nell’isolamento e
nell’impotenza. In un circolo vizioso nel quale
l’isolamento sarebbe la prova della genuinità delle proprie istanze di
cambiamento e non un maledetto effetto della dittatura del mercato. Ed anche qui la
nostra storia è piena di esempi di partitini e di scissioni che alle elezioni
misurano, quasi sempre in competizione fra loro, il grado di radicalità
parolaia di cui sono capaci.
Insisto
nel dire che entrambe
queste tendenze lavorano oggettivamente ad una divisione insanabile di
qualsiasi forza di classe, proprio perché accettano come ineluttabile la
semplificazione della politica separata del bipolarismo che non conosce e non
ammette nessuna terza via fra la testimonianza ininfluente nelle decisioni
reali o la subordinazione e l’integrazione nel sistema.
Tutto
ciò si vede molto meglio proprio oggi.
Se
il bipolarismo contenesse o anche potesse contenere politiche e proposte
alternative fra loro ciò si dovrebbe vedere meglio esattamente nel momento
della crisi del sistema.
In
altre parole se la dittatura del mercato pretende, con metodi sbrigativi e
autoritari, perfino con metodi umilianti l’esiguo simulacro di democrazia che
rimane, che i governi obbediscano alla casta e ai suoi interessi, si dovrebbero
accentuare le differenze fra gli schieramenti. Si dovrebbe vedere la netta
differenza fra chi propone di sottomettersi ai diktat sacrificando non solo gli
interessi delle classi subalterne ma anche quelli del paese, e chi proprio per
difendere gli interessi delle già massacrate classi subalterne propone o almeno
tenta di non sottomettersi ai diktat dimostrando che questo è nell’interesse
del paese. Si
dovrebbe vedere la differenza fra la cultura di governo dell’esistente, e cioè
la politica come tecnica di applicazione delle esigenze del mercato alla
società, e la cultura di governo come primato della società e degli interessi
collettivi su quelli del capitale e del mercato. Almeno nelle minime sfumature, se non in modo conclamato, queste
differenze si dovrebbero vedere.
Invece si vede esattamente il contrario. Si
vedono i cantori del bipolarismo proporre l’unipolarismo.
A dimostrazione che i custodi del sistema per
quanto normalmente in competizione fra loro sul posto di primo custode e
bidello del sistema, se il sistema vacilla e trema a causa delle proprie stesse
colpe, devono obbedire, tacere ed accettare che un membro della casta si assuma
la fatica di comandarli per il tempo necessario.
Che il signor Monti appartenga alla casta, quella
vera, è dimostrato dal fatto che appartiene non a una ma addirittura a due
organizzazioni internazionali (non segrete ma assolutamente impenetrabili alla
stampa e all’opinione pubblica) finanziate dalle multinazionali. Parlo della
Commissione Trilaterale e del Gruppo Bilderberg. Su entrambe queste organizzazioni c’è un’ampia letteratura che ne
descrive l’importanza e l’attività. Nonché gli obiettivi che sono esplicitamente
quelli di coordinare capitalisti, tecnocrati, manager e governanti amici, per
imporre le politiche neoliberiste a tutto il mondo. Lo dimostra il fatto
che è stato un tecnocrate della commissione europea nominato e confermato sia
dai governi di centrodestra che da quelli di centrosinistra. Lo dimostra il fatto, ma questa è solo una mia
opinione, che nonostante il suo curriculum universitario e le sue pubblicazioni
siano modeste o comunque analoghe a quelle di altre decine di professori, è
considerato una personalità di primissimo piano. Senza chiamare in causa le
sue presunte capacità scientifiche (come tutti i neoliberisti non ha mai
previsto nessuna delle crisi ed al contrario ha sempre pronosticato
meravigliose crescite e sviluppi mai avvenuti) è evidente che la sua
“importanza” è esattamente quella di appartenere ai circoli che “contano” nel
mondo della finanza e del sistema. È per questo che è quasi unanimemente
considerato “credibile”.
Napolitano,
ma purtroppo non c’è nulla che l’obblighi a farlo, dovrebbe spiegare quali sono
gli “altissimi meriti nel campo scientifico e sociale” di Monti che avrebbero
“illustrato la Patria” che l’hanno indotto a nominarlo all’improvviso senatore
a vita.
Basta
leggere la sua biografia, le sue cariche universitarie e l’elenco modestissimo
delle sue pubblicazioni, per rendersi conto che ci sono decine di altri
personaggi che meriterebbero la carica di senatore a vita al posto suo.
Ma oggi mentre tutti sanno la verità, e cioè che
Monti è stato nominato senatore a vita e poi Presidente del Consiglio perché
diretta emanazione e organicamente componente della casta dittatoriale, tutti
si genuflettono riconoscendogli misteriosi grandi meriti, dichiarandogli stima
più o meno sconfinata, compresi quelli che gli annunciano la propria
opposizione (come Maroni della Lega).
Permettersi
di dire che Monti è un uomo della casta dittatoriale che ha creato esattamente
i problemi che sarebbe chiamato a risolvere e che non meriterebbe affatto di
essere nominato senatore a vita è oggi più o meno come andare a San Giovanni
Rotondo e cercare di convincere gli adoratori di Padre Pio che era ne più ne
meno che un imbroglione come i santoni indiani che raggirano i turisti
occidentali.
A
proposito di Padre Pio e di chi ne riconosce i grandi meriti spirituali la cosa
più curiosa che abbiamo dovuto vedere in questo frangente di questo povero
paese è la posizione espressa dal signor Nichi Vendola.
Dopo aver proposto per mesi le elezioni
anticipate ed ovviamente le miracolose primarie come unica via democratica
capace di mobilitare e far partecipare i cittadini, oplà, con una piroetta
improvvisa si appoggia l’idea di un governo tecnico. Contemporaneamente si
critica la tecnocrazia, si dice che deve durare al massimo tre mesi, per fare
cose di sinistra (patrimoniale, tassazione delle rendite e tagli netti alle
spese militari) e di destra ed antidemocratiche (perché così le ha definite
Vendola per moltissimi anni per iscritto su Liberazione e in diversi discorsi
pubblici e parlamentari) come ripristinare la legge elettorale “mattarellum”
per “salvare le coalizioni”. Si dice pure che se però Monti farà cose di destra
morirà all’istante il nuovo ulivo, salvo aggiungere che “non credo che accadrà
perché ho visto molta determinazione in Bersani”.
Chiunque
può verificare leggendo la sua ultima intervista del 13 novembre all’Unità
riprodotta sul suo blog, e quindi non sospetta di essere infedele o parziale.
Questo dire e non dire, anche usando parole suggestive. Questo imbrogliare le
carte e navigare a vista sperando di poter recitare ancora la parte in commedia
che tanto successo di pubblico e di critica ha riscosso. Questo fingere di non
sapere. Questo fingere di non vedere. Questo mettere le mani avanti. Insomma
queste furbizie buone per chi pensa che la politica sia esattamente l’arte di
fare così, fanno veramente pena. Sono cosa da politicanti, non da persone serie.
Quando si sbaglia l’essenziale e si vende
l’illusione che la storia si fa con le primarie, esaltando il bipolarismo e il
leaderismo, e si promette l’impossibile il destino è quello di doversi
arrampicare sugli specchi e di partecipare alla cronaca politica italiana (che
è anche peggio della cronaca nera e rosa più sensazionalista e pettegola)
invece che alla storia.
Naturalmente
ci si può ravvedere, anche senza rinunciare alle proprie idee, senza dirlo ma
almeno riconoscendo con comportamenti un minimo coerenti che certe illusioni
erano, appunto illusioni. E sono d’accordo che questo venga chiesto con
insistenza. Ma dubito possa avvenire.
Comunque in questo paese nel quale c’è chi
festeggia per la caduta di Berlusconi senza aver capito che Monti gli taglierà
le pensioni e i salari, gli cancellerà diritti, gli toglierà prestazioni
sociali, gli confermerà e continuerà le “riforme” del governo Berlusconi che
egli stesso ha pubblicamente molto apprezzato in tempi non sospetti (come la
meravigliosa riforma Gelmini e i tagli alla scuola pubblica) c’è anche chi ha
capito cosa succede e quindi non festeggia. E per questo dice la verità dei
fatti e non racconta favole.
La crisi evidenzia come mai prima la natura di
classe del sistema. Si vede chiaramente dai
provvedimenti che la
casta impone per riprodurre esattamente i meccanismi economici che hanno
prodotto la crisi e dalla volontà di rimuovere i diritti e i poteri residui che
le classi subalterne avevano conquistato in un passato ormai lontano.
E
chiarisce come mai prima che
la democrazia politica in Europa è ormai un simulacro e una mistificazione. Si
vede nei diktat della casta e del mercato e nella incompatibilità conclamata
del referendum in Grecia e delle elezioni anticipate in Italia con i diktat
stessi. Nei paesi sotto attacco
speculativo la casta non può tollerare un qualsiasi pronunciamento popolare e
nemmeno la dialettica mistificata dell’alternanza. Perché nonostante tutto anche gli schieramenti dell’alternanza quando
si vota devono pur collegarsi in qualche modo alle esigenze della propria base
elettorale. Ed
ecco i governi guidati direttamente da membri della casta internazionale e
appoggiati da centrodestra e centrosinistra in Grecia e Italia.
Questa è una realtà molto dura da ammettere.
Ignorarla conduce solo a disastri e a ulteriori durissime sconfitte.
Ma non basta denunciarla. Come non basta
dichiararglisi contro. Anche se queste due cose sono indispensabili e
necessarie, non sono sufficienti.
Se non si sviluppa un movimento operaio e
popolare, unificante tutti i settori che da più parti e su più temi si
oppongono alle politiche neoliberiste tese a salvare il sistema facendo pagare
il costo a tutta la società, e se i provvedimenti del governo Monti saranno
vissuti come naturali e indiscutibili,
per quanto dolorosi, dalla
maggioranza della società, chi vi si oppone politicamente, e per giunta dal di
fuori delle sedi decisionali, non ha nessuna speranza di poter controvertere,
anche parzialmente, la situazione. Ed
è quindi destinato a testimoniare una posizione che per quanto sia realistica e
concreta, giacché nulla delle politiche neoliberista è oggettivo e
indiscutibile, apparirà se va bene come una utopia, come qualcosa di giusto ma
irrealizzabile. Con l’effetto di alimentare speranze ancor più infondate nel
dopo Monti e di restringere ancora di più la differenza fra peggio e meno
peggio. Dentro
il massacro sociale anche il minimalismo di un qualsiasi meno peggio apparirà
come l’unico orizzonte possibile e concreto, al momento delle elezioni.
Anche questa è una realtà difficile da ammettere.
Come è sbagliato coltivare illusioni circa la possibilità di controvertere
questa situazione con il nuovo centrosinistra dei miracoli alle elezioni, è
altrettanto sbagliato illudersi che la testimonianza solitaria possa invertire
la tendenza. Le prossime elezioni rimangono e sono ancor di più in questa
situazione un terreno avverso e irto di problemi e contraddizioni, qualsiasi
scelta si faccia.
Perciò è imperativo lavorare all’opposizione
sociale e alla unità dei movimenti di lotta, senza perdere tempo a fare ipotesi
e a dividersi inutilmente sulla scelta tattica da fare alle elezioni. E conducendo una battaglia squisitamente politica fra tutti gli
uomini e tutte le donne che si riconoscono in qualsiasi modo nella sinistra
antagonista sull’assunzione dei contenuti di lotta come bussola indiscutibile
per l’azione politica ed anche per costruire unità politica. Ogni rovesciamento
di questo paradigma, che adotti la bussola della scelte politico – elettorali
di schieramento, unitarie o solitarie che siano, è destinato a indebolire le
lotte e a provocare divisioni ancor più gravi.
Ciò è vero perché ancora troppe sono le variabili
allo stato imprevedibili che possono intervenire prima delle prossime elezioni. Bisogna vedere quale sarà l’andamento della morsa
speculativa, che non è affatto detto diminuisca per la caduta di Berlusconi
nella misura prevista. Bisogna vedere se il governo Monti riuscirà nonostante
tutto ad ottenere il totale consenso su ognuno dei provvedimenti e se non si
produrranno crescenti instabilità politiche ed istituzionali. Bisogna vedere se ed
eventualmente quale riforma della legge elettorale verrà fatta. Bisogna vedere
cosa succederà nel sindacato. E così’ via.
Ma non sono solo le variabili sconosciute a
suggerire di non adottare la bussola degli schieramenti elettorali come base
per la linea politica. C’è soprattutto la consapevolezza che le elezioni sono
comunque un terreno avverso e minato. E
che comunque sono
da affrontare con acume tattico. Trattarle come se fossero la cartina di
tornasole della strategia è un errore madornale in generale. In questa situazione sarebbe un suicidio e perfino
la negazione di tutta l’analisi fin qui compiuta.
Detto
questo, anche per evitare i purtroppo soliti fraintendimenti e processi alle
intenzioni, che sono comunque un inquinamento di ogni discussione e il prodotto
delle semplificazioni della politica spettacolo, posso dire che sulle
previsioni a spanne che oggi si possono fare è evidente che la proposta di un
fronte democratico per battere le destre è da considerarsi totalmente superata.
Io non ho mai temuto ne scartato in linea di principio l’eventualità di doversi
presentare da soli alle elezioni, in questo caso auspicabilmente mantenendo in
vita la federazione e possibilmente allargandola ulteriormente, giacché sarebbe
semplicemente disastroso ed irrazionale che ci fossero più liste avverse al
centrosinistra. Ed è possibile se non addirittura oggi probabile che così si
debba fare dopo il governo Monti.
Ma non con l’illusione che questa scelta
elettorale sia il viatico della riscossa. Tanto meno che sia l’unica a
identificare la strategia corretta. Non è lo stesso sapere che la scelta che si
compie porta con se problemi e contraddizioni, pur essendo il male minore, o
illudersi che risolva tutti i problemi. Non è lo stesso conoscere le insidie e
i punti forti del bipolarismo e il grado di consenso che hanno nella
popolazione e nelle stesse avanguardie di lotta, o pensare che non esistano o
spariscano per effetto di una malintesa chiarezza che sarebbe prodotta dalla
scelta elettorale.
Ma
di tutto questo avremo modo di discutere nei prossimi mesi. Spero approfonditamente
e seriamente.
Buona
fortuna a tutte/i noi.
Ne
abbiamo bisogno.
Ramon Mantovani
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