Che a sinistra si pensi di ribaciare il rospo è un bel segno dei tempi.
Dà in primo luogo la misura del disastro provocato dal berlusconismo.
L'ossessione per l'immoralità e l'indecenza dei comportamenti è tale che
la sostanza politica passa in second'ordine. Come se un governo non
fosse un'impresa politica, e come se non si potesse essere galantuomini e
reazionari, persone competenti fieramente impegnate nell'attacco ai
diritti sociali. Ma non solo di Berlusconi si tratta. È questione, più
in generale, di cultura politica. Ci si è talmente disabituati a pensare
in termini di classe, che non si riesce più a leggere nemmeno un quadro
nitido, di per sé inequivocabile. La cifra sociale di questo governo
non è meno limpida di quella del precedente, lo è forse di più, se
consideriamo il mandato che gli è stato affidato. Il governo Monti nasce
per tradurre in realtà le indicazioni contenute nella lettera della
Bce: occorre altro? A scanso di equivoci, è bene tenere presente che
Bruxelles non si limita a tuonare contro l'eccesso di deficit e debito,
ma indica nel merito il modo di ridurli: gli Stati-azienda debbono
finanziarsi privatizzando, licenziando e tagliando il welfare, non
possono mica redistribuire ricchezza. Maastricht e Lisbona non sono
carta straccia! Del resto, vorrà pur dire qualcosa la martellante
invocazione di «scelte impopolari» da parte di leader della maggioranza
vecchia e nuova, di industriali e grande stampa. Che cosa s'intenda lo
sappiamo bene: dopo 35 anni di sacrifici imposti al lavoro dipendente
(in Italia si è cominciato con la svolta dell'Eur nel nome delle
compatibilità), la prospettiva è quella di altri sacrifici per il lavoro
dipendente, nel nome del risanamento o del rigore o dell'interesse
generale. Non bastasse, c'è un problema costituzionale, grosso come una
montagna. Il diktat della Bce rivoluziona la dinamica istituzionale, se è
vero che la Costituzione riserva al Parlamento la prerogativa di
esprimere maggioranze e governi, e al Presidente della Repubblica affida
il compito di interpretare la volontà delle Camere e di favorirne la
realizzazione. Se non vogliamo nasconderci dietro un dito, in questo
frangente la sequenza è stata rovesciata. Il governo Monti è nato da
un'iniziativa del Quirinale, che il Parlamento - sottoposto a una
formidabile pressione interna e internazionale - si è limitato ad
avallare. Non siamo noi a dirlo, lo ha ammesso a chiare lettere chi ha
parlato di «governo del Presidente» (formula ignota ai Padri
costituenti) e di «governo dell'emergenza» (invocando lo stato di
necessità o di eccezione). Detto questo (che non è poco), la sostanza
politica sta in una domanda: perché i partiti accettano di buon grado
l'esproprio delle loro funzioni? perché consegnano ai «tecnici» il
governo del Paese, mentre affermano di condividere il programma del
nuovo esecutivo? Si dice: non c'erano le condizioni per un accordo tra
Bersani e Alfano (né tra Casini e Di Pietro): Monti sarebbe lo snodo
tecnico che permette una grande coalizione altrimenti impossibile. Ma è
più verosimile un'altra spiegazione. Si tratta della classica astuzia
tattica dei politici. Quando il sollievo per la cacciata di Berlusconi
cederà il passo alla rabbia, si potrà spergiurare che il governo sceglie
in piena autonomia e mettere in scena qualche scaramuccia parlamentare.
Un bel parafulmine della collera popolare, già messa nel conto. Il
fatto è che questa operazione non sarà per tutti a costo zero.
Probabilmente per il Terzo polo e il Pdl si rivelerà un buon affare.
L'elettorato di Fini e Casini gradirà privatizzazioni e «riforme» in
stile gelminian-sacconiano. E la destra, a suo tempo, trarrà vantaggio
dal denunciare le forzature quirinalizie. Il centrosinistra invece, a
cominciare dal Pd, difficilmente ci guadagnerà. Gran parte della sua
gente pagherà care le ricette di Monti. Il lavoro dipendente sarà
tartassato; gli operai faranno i conti col modello Marchionne, ammirato
dal premier; e i giovani, che tutti a parole intendono proteggere,
seguiteranno a pascolare nella precarietà. Con ogni probabilità le
«scelte impopolari» del nuovo governo apriranno una grossa falla nei
consensi del centrosinistra. Ma se questo è vero, un nuovo scenario si
apre anche per il nostro partito, per la Federazione e per l'intera
sinistra. Alla domanda di reddito, di lavoro e di beni comuni questo
governo e i partiti che lo sostengono non potrebbero dare risposta
nemmeno se volessero. Dare visibilità e forza a tali rivendicazioni è
compito dei comunisti e della sinistra di alternativa. Per far questo,
due condizioni appaiono tuttavia ineludibili: l'unità della sinistra e
la sua autonomia dal centrosinistra. Frammentata, la sinistra è
ininfluente; interna al centrosinistra, sarebbe subalterna. I gruppi
dirigenti ci riflettano e dimostrino di sapersi muovere con intelligenza
e generosità. La nostra gente se lo aspetta, anzi, lo esige.
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