Vi proponiamo un articolo piuttosto controcorrente che sta suscitando dibattito in rete.
Perché il discorso su “la Casta” è di destra
Perché il discorso su “la Casta” è di destra
4 novembre 2011
Citiamo solo gli ultimi in ordine di tempo. Lo spot della Fiat che
ammicca esplicitamente al rancore verso le auto blu. Il video di Enzo
Jachetti (uno che prestando la sua faccia al vero telegiornale del
ventennio berlusconiano, Striscia la notizia, ha molte responsabilità
della situazione in cui ci troviamo) che manda tutti i politici a quel
paese. Il monologo di Enzo Brignano a Le Iene che rimastica i peggiori
luoghi comuni del qualunquismo di fine regime. Il conduttore
superberlusconiano Aldo Forbice che a “Zapping”, su Radio1, si fa
portavoce di una campagna contro “i costi della politica” e per la
riduzione del numero dei parlamentari. Quest’ultima, del resto, è
l’unica rivendicazione comprensibile in mezzo alla fuffa del format
messo in piedi da Giorgio Gori (uomo di Canale 5 e del Grande fratello) a
favore di Matteo Renzi. Dunque, non si tratta più di un rumore di
fondo, ma del rischio concretissimo che la crisi economica e politica
produca un movimento d’opinione addomesticato e privo di sbocchi
positivi.
La retorica – facile perché veritiera, eppure inutile – contro “la
Casta” dilaga, di pari passo con l’incedere della crisi e accompagna gli
ultimi atti del regime berlusconiano. Ma la struttura dei discorsi non è
mai neutra. Come ha spiegato il linguista americano George Lakoff, ogni
discorso costruisce un “frame”, una cornice concettuale, che i qualche
modo contiene anche il suo esito. Ecco, la retorica sulla Casta è un
“frame” di destra.
Entrare dentro quella cornice significa portare acqua
all’individualismo, al rancore senza rabbia, alla frustrazione. La
(presunta) denuncia delle malefatte della “Casta” esiste da anni, viene
pompata dai grandi mass-media (due giornalisti del Corriere della sera
hanno coniato il termine e le televisioni non mancano di tirarlo fuori),
ma non è servita a niente. È servita solo ad aggregare masse di
individui abbandonati a sè stessi attorno al rancore e alla
frustrazione. Non ha prodotto forme di solidarietà, sperimentazione di
alternativa o lotte in grado di rompere la frammentazione. Si è
concretizzata sempre in lamento sguaiato e generico contro “i politici”,
alzando cortine fumogene per nascondere i rapporti sociali, la
distribuzione della ricchezza, le relazioni di potere.
La retorica contro “la Casta” prescinde da qualsiasi colore politico.
Tuttavia, ogni discorso che si pone oltre i confini valoriali e
politici di “destra” e “sinistra”, ritenendole orpelli del passato o
puri strumenti ideologici, alla fine – stringi stringi – vuole attaccare
“la sinistra”. Chiunque abbia un minimo di esperienza politica quando
sente pronunciare la frase “non sono né di destra né di sinistra”
traduce mentalmente in “sono di destra”. Quella formuletta nove volte su
dieci prelude ad una polemica verso la sinistra. Il sintagma “né di
destra né di sinistra” riassume la genesi e l’autorappresentazione del
fascismo. Quel modello è continuamente riproposto ai giorni nostri.
Quando, nel 2008, i giovanotti telecomandati dai “fascisti del terzo
millennio” di CasaPound cercarono di infiltrarsi nei cortei dell’Onda
studentesca, intonarono lo slogan “Né rossi né neri ma liberi pensieri”.
Anche la Lega ha sempre cercato di presentarsi come “né – né”: il
federalismo e persino la secessione vengono presentati come soluzioni
agnostiche, non necessariamente di destra o sinistra”. Lo stesso dicasi
per Forza Italia: Berlusconi ha sempre fatto vanto di raccogliere
chiunque nel suo movimento carismatico: dai postfascisti agli ex
comunisti passando per democristiani, radicali e socialisti. In un altro
contesto, ma rimadendo a un movimento carismatico e populista, questo
discorso vale anche per il partitino di Beppe Grillo, che ha cominciato
ponendo problemi genericamente considerati di “sinistra” (l’ecologia, la
lotta ai privilegi, i diritti dei giovani, l’antiberlusconismo) e che a
furia di dirsi “né di destra né di sinistra” assume anche posizioni di
destra, blaterando di invasione di clandestini o disegnando di complotti
della finanza mondiale.
Bossi, Berlusconi e Grillo utilizzano volentieri la retorica della
Casta, ci si trovano a loro agio. Bossi la piega alle teorizzazioni
localiste (dice con la Padania, i politici sarebbero vicini al
territorio e quindi più “controllati” dalla gente), Berlusconi se ne
serve per tirarsi fuori (dice che lui non è un “politico” ma un
imprenditore prestato alla politica che ha persino rinunciato allo
stipendio da premier: quindi non fa parte della Casta!) e Grillo la usa
per spargere la sua paccottiglia qualunquista.
Ancora: è tipico della destra banalizzare qualsiasi cosa, trasformare
problemi complessi (come il deperimento della politica, la sua
incapacità di fare da contropotere all’economia, la crisi della
rappresentanza e della sovranità Stato-nazione) in questioni semplici.
Assecondare il discorso sulla Casta significa soffocare la fiammella del
pensiero critico con valanghe di frustrazioni e scorciatoie mentali.
Questo non significa, ovviamente, che non ci si debbano inventare
narrazioni “semplificate” per coinvolgere quelli meno abituati a
muoversi dentro scenari complessi. La storia della sinistra, quella
riformista e quella rivoluzionaria, è piena di simboli e miti pensati
per coinvolgere la gente semplice. Ma l’arte della costruzione dei
racconti e dei miti deve fare i conti con i rischi di questa attività.
Le narrazioni politiche, per non fare il gioco della destra, devono
sempre avere un’apertura verso sviluppi di ragionamento più alti e
devono sempre disegnare scenari che producano esiti “positivi” e che
invitino a mettersi in relazione con altri per costruire qualcosa.
Altrimenti, siamo di fronte a una narrazione di destra: la costruzione
di un “nemico” contro cui indirizzare la povera gente. Come nel caso
della Casta.
Chi parla della Casta pone sempre questioni di metodo (“i politici
guadagnano troppo”), ma non entra mai nel merito delle cose da
affrontare. Cioè non prende posizione su nulla. Perché il più delle
volte sbraitare contro la Casta serve solo disegnare uno scenario in cui
ognuno fa quello che gli pare, una enorme zona grigia in cui muoversi
liberamente e senza remore: “Siccome tutti rubano, lo faccio anche io
per farmi giustizia da solo” (di questo tema si è occupato Franco
Cassano nel suo “L’umiltà del male”, edito da Laterza).
Provate a digitare sul motore di ricerca di una qualsiasi libreria
online la parola “Casta”. Vi accorgerete di quanti libri sono usciti
solo negli ultimi due anni con quella parola nel titolo. Oltre al
bestseller di Stella&Rizzo troviamo decine di volumi: ci si scaglia
contro “La casta dei farmaci” e contro quella “dei sindacati”, si
attacca “La casta del vino” e persino quella “dei radicalchic”. Per non
parlare de “La casta della chiesa” e di quella “dei giornali”.
Ovviamente, ci sono anche un paio di libri contro “La casta dei
giudici”. Questa proliferazione di titoli è senz’altro dovuta a motivi
di marketing (si cita il titolo del libro che ha venduto tanto). Il
motivo di tanto successo è che lo schema del discorso sulla Casta è
accattivante perché deresponsabilizzante: c’è sempre un “io” e uno
“loro”, c’è sempre un confine che divide una generica “società” e
qualche “casta” di rapaci parassiti. Il risultato è che la “società”
indifferenziata non debba mai mettersi in discussione, che basti
denunciare la corruzione (che riguarda sempre l’altro) per sentirsi in
pace con la coscienza.
* Queste note sono debitrici della discussione collettiva che da tempo si dipana in rete: se n’è discusso in Giap!, il sito dei Wu Ming, ne hanno parlato nei loro blog – tra i tanti - Jumpinskark e Loredana Lipperini (emblematico lo scambio su Striscia la notizia), ne abbiamo scritto su Carta.
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