Sintesi della relazione di Ferrero alla prima sessione della Conferenza programmatica del 29 giugno. Per il dibattito che ne è seguito e l’intervento integrale del segretario, rimandiamo alle registrazioni video disponibili qui.
Premettendo
che si tratta di una prima sessione di discussione e che nelle prossime
settimane e mesi altri momenti seguiranno sia a livello regionale che
di settore e che la sua è dunque una «relazione aperta», Ferrero spiega
subito che «il problema non è solo quello del programma ma del
progetto»; cioè «definire la ragion d’essere di Rifondazione comunista
nel contesto dato».
Per fare questo, dice Ferrero, «va definito dove siamo», ripercorrendo a grandi linee la storia di Rifondazione: la Rifondazione degli inizi, quella che si è «ribellata alla chiusura del Pci» e che «aveva una identità chiarissima: liberamente comunisti a fianco dei lavoratori»; poi c’è stata la «Rifondazione delle 35 ore» e del primo governo Prodi; poi la Rifondazione «dentro il movimento no global» e quella del secondo governo Prodi, fase che si è chiusa con una «sconfitta verticale» e la «dilapidazione del nostro patrimonio simbolico», con il colpo finale della scissione di Sel. In questi anni, considera Ferrero, «abbiamo saputo cogliere la natura costituente della crisi, ma senza trarne tutte le conseguenze», mentre sul tema dell’unità a sinistra ci siamo mossi solo «nella forma degli accordi di vertice» (Fds e Rivoluzione civile) che con tutta evidenza non hanno funzionato. Urge, quindi, «ridefinire la ragione sociale di Rifondazione comunista».
Per farlo Ferrero ritiene necessario rispondere preliminarmente a tre domande. Questa sconfitta è definitiva? No, sostiene il segretario, «non siamo a fine campionato ma a metà del primo tempo», perché «non c’è una forza politica in grado di prospettare una uscita da una crisi che è costituente». «Assolutizzare la nostra sconfitta – dice – è autolesionismo nichilista, un suicidio». Allora è Rifondazione l’ostacolo per la costruzione di un soggetto per uscire dalla crisi? Di nuovo, per Ferrero la risposta è no, perché Rifondazione è «un importante elemento di aggregazione di militanti» ed è una «risorsa di linea e cultura politica, di autonomia politica». E perché «siamo in grado di dialogare con la Fiom, ma anche col sindacato di base e quello confederale». E il comunismo? Per Ferrero poiché il capitalismo non è in grado di dare una risposta alla crisi, «abbandonare il comunismo è un cedimento all’avversario» e abbandonare il terreno del superamento del capitalismo «è una balla colossale».
Resta che non si può «andare avanti col solito tran tran» e non basta «mettere un po’ più di “alleantismo” e un po’ più di identità»; occorre cambiare. La tesi di fondo è che «bisogna mettere al centro il tema dell’uscita dalla crisi e ristrutturare il partito rispetto a questo compito di fase. La crisi è costituente e cambierà il paese come una guerra»; nulla sarà più come prima. Se è così, se il nodo è la crisi costituente e il punto è «cosa facciamo mentre cambia tutto nella società», serve un «cambio di paradigma». E per cominciare dobbiamo essere «capaci di spiegare perché c’è la crisi, sennò vale l’idea di Grillo che è colpa dei politici che rubano. Se non sai da dove arrivano le botte è impossibile pararle. La gente non capisce perché sta male»; da qui la necessità di organizzare una «alfabetizzazione di massa sul perché c’è la crisi». E cioè che «la crisi non è frutto di scarsità ma della cattiva distribuzione di reddito, lavoro e potere. Mentre la risorsa scarsa è la natura e quella sì che va risparmiata, che è il contrario di ciò che fa il capitalismo».
Ma «un nostro senso c’è se individuiamo la strada per uscire dalla crisi» e la proposta è, appunto, quella della redistribuzione del reddito, del lavoro (riprendendo la battaglia centrale della riduzione dell’orario) e del potere, ridando la sovranità al popolo (democrazia nei luoghi di lavoro, proporzionale, referendum sui trattati europei, intervento pubblico in economia). Il piano per il lavoro, presentato da Roberta Fantozzi, va in quella direzione, ma va costruito «nei territori mettendo a valore l’intellettualità diffusa che c’è», perché non basta individuare la via d’uscita dalla crisi, occorre anche spiegarla. Occorre spiegare che queste proposte «cozzano con l’Europa così come è fatta, che ha dato il potere in mano alle banche e costituzionalizzato le politiche neoliberiste». Da questo punto di vista, «l’ipotesi del Pd di mettere un po’ di belletto a questa Europa è priva di fondamento e irrealistica». Al contrario, occorre una «ricostruzione dei margini di autonomia sulla base della sovranità popolare, questa Europa non è democratica». Di qui la proposta di «disobbedire ai trattati» e operare «forzature» nella loro applicazione, accompagnati da una serie di misure concrete per rispondere al rischio dell’assalto della speculazione. Il tutto con l’obiettivo di costringere l’Europa a cambiare e «non rimanere in questa condizione: aspettare che l’euro salti per conto suo». Già l’euro. «Per rompere questa Europa di Maastricht, il punto fondamentale sono i trattati, non la moneta».
C’è poi il tema della modifica del modo di essere del partito per sfuggire alla tenaglia della crisi della politica di cui subiamo «solo gli elementi negativi e nessun vantaggio». Lo strumento, per Ferrero, è quello del «partito sociale, che oltre a dire fa», riprendendo il concetto del mutualismo. È un punto decisivo, sostiene Ferrero, per distinguersi dagli altri: «Se i comunisti venissero riconosciuti come una sorta di Caritas, faremmo ventisette passi in avanti». Il fatto che questa modalità non sia diventata il nostro modo di esistere «è un errore politico e occorre radicalmente cambiare su questo piano», anche rivedendo il «rapporto col mondo cattolico». Di pari passo, si deve intensificare la «costruzione del conflitto». «Stare dentro le lotte», propone Ferrero. Per esempio, si sta lavorando ad una manifestazione a fine ottobre; bene, noi «dobbiamo esserci anche se non condividiamo tutto». Non che già non lo si faccia: «Se c’è una lotta sul lavoro Rifondazione ci sta dentro in qualche modo», ma per esempio «siamo poco presenti nelle lotte sulla casa».
Infine, la nota dolente della sinistra. «Dobbiamo costruire una sinistra autonoma dal centrosinistra perché il centrosinistra non ha un progetto per uscire dalla crisi, è interno al paradigma neoliberista». Il fondamento della nostra collocazione politica «non deve essere geometrico, politicista. Se il problema è la crisi e l’uscita dalla crisi, a noi non interessa fare la sinistra del centrosinistra perché non serve». Ci sono le buone esperienze fatte sui territori nelle recenti amministrative (una decina di capoluoghi di provincia, da Imperia a Pisa a Messina), in tre casi in alleanza con Sel, negli altri no. «Bisogna vedere se è possibile generalizzare queste esperienze, lavorando a costruire aggregazioni della sinistra di alternativa sul territorio».
Sul piano nazionale si è visto che «i patti di vertice non funzionano»; la strada da intraprendere, come ha indicato la Direzione Nazionale, «è quella basata sul criterio di “una testa un voto”» e sulla base di «regole condivise e pochi punti chiari». Per parte nostra «lavoriamo in tutti i modi a favorire un processo di aggregazione a sinistra del centrosinistra delle forze che vogliono uscire da questa situazione». Ma, puntualizza Ferrero, è chiaro che «questo lavoro non sta al posto di far funzionare meglio Rifondazione. Guai a noi se ci dividiamo anche qui tra chi “vuole tenere Rifondazione” e chi “vuole fare la sinistra”, perché così non si fa né l’uno né l’altro. Occorre rafforzare Rifondazione e lavorare per aggregare la sinistra».
A cura di ROMINA VELCHIPer fare questo, dice Ferrero, «va definito dove siamo», ripercorrendo a grandi linee la storia di Rifondazione: la Rifondazione degli inizi, quella che si è «ribellata alla chiusura del Pci» e che «aveva una identità chiarissima: liberamente comunisti a fianco dei lavoratori»; poi c’è stata la «Rifondazione delle 35 ore» e del primo governo Prodi; poi la Rifondazione «dentro il movimento no global» e quella del secondo governo Prodi, fase che si è chiusa con una «sconfitta verticale» e la «dilapidazione del nostro patrimonio simbolico», con il colpo finale della scissione di Sel. In questi anni, considera Ferrero, «abbiamo saputo cogliere la natura costituente della crisi, ma senza trarne tutte le conseguenze», mentre sul tema dell’unità a sinistra ci siamo mossi solo «nella forma degli accordi di vertice» (Fds e Rivoluzione civile) che con tutta evidenza non hanno funzionato. Urge, quindi, «ridefinire la ragione sociale di Rifondazione comunista».
Per farlo Ferrero ritiene necessario rispondere preliminarmente a tre domande. Questa sconfitta è definitiva? No, sostiene il segretario, «non siamo a fine campionato ma a metà del primo tempo», perché «non c’è una forza politica in grado di prospettare una uscita da una crisi che è costituente». «Assolutizzare la nostra sconfitta – dice – è autolesionismo nichilista, un suicidio». Allora è Rifondazione l’ostacolo per la costruzione di un soggetto per uscire dalla crisi? Di nuovo, per Ferrero la risposta è no, perché Rifondazione è «un importante elemento di aggregazione di militanti» ed è una «risorsa di linea e cultura politica, di autonomia politica». E perché «siamo in grado di dialogare con la Fiom, ma anche col sindacato di base e quello confederale». E il comunismo? Per Ferrero poiché il capitalismo non è in grado di dare una risposta alla crisi, «abbandonare il comunismo è un cedimento all’avversario» e abbandonare il terreno del superamento del capitalismo «è una balla colossale».
Resta che non si può «andare avanti col solito tran tran» e non basta «mettere un po’ più di “alleantismo” e un po’ più di identità»; occorre cambiare. La tesi di fondo è che «bisogna mettere al centro il tema dell’uscita dalla crisi e ristrutturare il partito rispetto a questo compito di fase. La crisi è costituente e cambierà il paese come una guerra»; nulla sarà più come prima. Se è così, se il nodo è la crisi costituente e il punto è «cosa facciamo mentre cambia tutto nella società», serve un «cambio di paradigma». E per cominciare dobbiamo essere «capaci di spiegare perché c’è la crisi, sennò vale l’idea di Grillo che è colpa dei politici che rubano. Se non sai da dove arrivano le botte è impossibile pararle. La gente non capisce perché sta male»; da qui la necessità di organizzare una «alfabetizzazione di massa sul perché c’è la crisi». E cioè che «la crisi non è frutto di scarsità ma della cattiva distribuzione di reddito, lavoro e potere. Mentre la risorsa scarsa è la natura e quella sì che va risparmiata, che è il contrario di ciò che fa il capitalismo».
Ma «un nostro senso c’è se individuiamo la strada per uscire dalla crisi» e la proposta è, appunto, quella della redistribuzione del reddito, del lavoro (riprendendo la battaglia centrale della riduzione dell’orario) e del potere, ridando la sovranità al popolo (democrazia nei luoghi di lavoro, proporzionale, referendum sui trattati europei, intervento pubblico in economia). Il piano per il lavoro, presentato da Roberta Fantozzi, va in quella direzione, ma va costruito «nei territori mettendo a valore l’intellettualità diffusa che c’è», perché non basta individuare la via d’uscita dalla crisi, occorre anche spiegarla. Occorre spiegare che queste proposte «cozzano con l’Europa così come è fatta, che ha dato il potere in mano alle banche e costituzionalizzato le politiche neoliberiste». Da questo punto di vista, «l’ipotesi del Pd di mettere un po’ di belletto a questa Europa è priva di fondamento e irrealistica». Al contrario, occorre una «ricostruzione dei margini di autonomia sulla base della sovranità popolare, questa Europa non è democratica». Di qui la proposta di «disobbedire ai trattati» e operare «forzature» nella loro applicazione, accompagnati da una serie di misure concrete per rispondere al rischio dell’assalto della speculazione. Il tutto con l’obiettivo di costringere l’Europa a cambiare e «non rimanere in questa condizione: aspettare che l’euro salti per conto suo». Già l’euro. «Per rompere questa Europa di Maastricht, il punto fondamentale sono i trattati, non la moneta».
C’è poi il tema della modifica del modo di essere del partito per sfuggire alla tenaglia della crisi della politica di cui subiamo «solo gli elementi negativi e nessun vantaggio». Lo strumento, per Ferrero, è quello del «partito sociale, che oltre a dire fa», riprendendo il concetto del mutualismo. È un punto decisivo, sostiene Ferrero, per distinguersi dagli altri: «Se i comunisti venissero riconosciuti come una sorta di Caritas, faremmo ventisette passi in avanti». Il fatto che questa modalità non sia diventata il nostro modo di esistere «è un errore politico e occorre radicalmente cambiare su questo piano», anche rivedendo il «rapporto col mondo cattolico». Di pari passo, si deve intensificare la «costruzione del conflitto». «Stare dentro le lotte», propone Ferrero. Per esempio, si sta lavorando ad una manifestazione a fine ottobre; bene, noi «dobbiamo esserci anche se non condividiamo tutto». Non che già non lo si faccia: «Se c’è una lotta sul lavoro Rifondazione ci sta dentro in qualche modo», ma per esempio «siamo poco presenti nelle lotte sulla casa».
Infine, la nota dolente della sinistra. «Dobbiamo costruire una sinistra autonoma dal centrosinistra perché il centrosinistra non ha un progetto per uscire dalla crisi, è interno al paradigma neoliberista». Il fondamento della nostra collocazione politica «non deve essere geometrico, politicista. Se il problema è la crisi e l’uscita dalla crisi, a noi non interessa fare la sinistra del centrosinistra perché non serve». Ci sono le buone esperienze fatte sui territori nelle recenti amministrative (una decina di capoluoghi di provincia, da Imperia a Pisa a Messina), in tre casi in alleanza con Sel, negli altri no. «Bisogna vedere se è possibile generalizzare queste esperienze, lavorando a costruire aggregazioni della sinistra di alternativa sul territorio».
Sul piano nazionale si è visto che «i patti di vertice non funzionano»; la strada da intraprendere, come ha indicato la Direzione Nazionale, «è quella basata sul criterio di “una testa un voto”» e sulla base di «regole condivise e pochi punti chiari». Per parte nostra «lavoriamo in tutti i modi a favorire un processo di aggregazione a sinistra del centrosinistra delle forze che vogliono uscire da questa situazione». Ma, puntualizza Ferrero, è chiaro che «questo lavoro non sta al posto di far funzionare meglio Rifondazione. Guai a noi se ci dividiamo anche qui tra chi “vuole tenere Rifondazione” e chi “vuole fare la sinistra”, perché così non si fa né l’uno né l’altro. Occorre rafforzare Rifondazione e lavorare per aggregare la sinistra».
da Liberazione.it
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