L'altro giorno mi ero imbattuto in un fulminante sfogo internettaro sull'ignorante (internettaro o meno) che ritiene di poter "dire la sua" su qualunque argomento, indipendentemente dal proprio grado di conoscenza sull'argomento stesso.
Oggi Massimo Zucchetti, grandissimo professore di "impianti nucleari" al Politecnico di Torino e compagno vero (presta la propria consulenza scientifica per decine di contro-inchieste, da quelle sull'uranio impoverito al Tav in Val Susa, al Muos di Niscemi), aggiorna scientificamente sul problema, informandoci dell'"effetto Dunning-Kruger".
Diciamo subito una cosa: non si tratta di una "curiosità", ma di una questione centrale per la costruzione di un movimento in grado di cambiare l'esistente.
Se ne può ovviamente parlare in modo divertente, e Massimo lo fa benissimo, perché "il cretino" è figura che si presta molto bene ad ogni bisogna. Ma in ogni caso il dato politico balza agli occhi.
Veniamo infatti da oltre un ventennio in cui il tormentone “ognuno dice la sua” ha infettato come un virus i cervelli “di sinistra”. Scene scabrose di professori universitari sbeffeggiati da non-studenti che ritengono di poter “dire una cosa diversa” proprio sull'argomento di competenza del professore (Marx, in primo luogo), di attivisti esperti messi (per esempio da Bertinotti) su un gradino più basso rispetto a un “new entry”senza alcuna esperienza particolare, ecc. Un “giovanilismo” modaiolo e irriflessivo peraltro sponsorizzato apertamente dai giornali mainstream, che hanno bombardato senza tregua per arrivare a un risultato cimiteriale: l'azzeramento della differenza di competenza sulle questioni più rilevanti sul piano politico, morale, storico.
C'è infatti da notare che sul terreno delle “scienze dure” (fisica, matematica, chimica, ecc), il cretino tende ancora – ma sempre meno – a tacere. Mentre su quello delle “scienze umane” sembra ormai scontato che ognuno possa “dire la sua”, come è solito fare qualsiasi tifoso da bar con la formazione ideale della propria squadra.
Il concetto è in fondo semplice: “ognuno dice la sua” appare a prima vista una formula assai democratica, quasi scontata, a-conflittuale. Ma è esattamente l'opposto. Se io “dico la mia” e pretendo che nessuno mi possa criticare nel merito delle mie asserzioni, ma che debba limitarsi semplicemente a “dire la sua” indipendentemente da me, in realtà sto dichiarando di non poter essere convinto dall'opinione altrui; o di non saper cambiare idea. Una formula che dunque si presenta come “facilitatrice del dialogo” è in realtà la negazione esplicita di ogni possibilità di dialogo. Certo, possiamo parlare e dire “ognuno la sua”; ma in realtà stiamo semplicemente salendo su un palcoscenico virtuale – un talk show perenne - dove recitiamo scene in successione. Non è prevista alcuna possibile “sintesi” che risolva le eventuali differenze, al massimo una votazione in cui emerge l'opinione “con più like”.
Messa così, si tratta di una questione impostata esclusivamente sul piano relazionale, interpersonale. Quella formula, insomma, è nata per risolvere e annullare le conflittualità verbali tra diversi soggetti. E adempie benissimo a questo scopo “pacificatore”, anti-conflittuale. Ma in questo modo scompare totalmente l'oggetto della discussione.
La domanda da porsi sempre è infatti: di cosa stiamo discutendo? Se si tratta di “preferenze” astratte (a me piace il rock, a te Chopin; io amo il basket, tu il golf, ecc) in effetti ognuno si può tranquillamente tenere la propria preferenza... Nessuno ne uscirà sminuito, a meno di non dover decidere in una condizione in cui una preferenza esclude l'altra (negli esempi: che musica facciamo suonare stasera? quale gioco organizzare per la comitiva? ecc).
Infatti, se dobbiamo decidere di un problema che ci riguarda entrambi, o tutti, sorge la necessità di scegliere un'ipotesi o l'altra. Peggio ancora se la scelta che dobbiamo fare non è semplicemente “ludica”, come negli esempi fatti, ma comporta la risoluzione di problemi oggettivi, che non ammettono qualsiasi soluzione, ma solo alcune; in accordo con la propria natura.
Gli esempi sono necessari, per chi non è abituato al pensiero astratto. Se dobbiamo decidere come costruire una casa o un palazzo, come aggiustare l'automobile rotta, come gestire una vertenza di lavoro, come scontrarci con il potere politico, ecc, il ventaglio delle opzioni possibili si restringe molto, indipendentemente da quante “opinioni” - praticamente infinite - si possano esprimere su ognuno di questi problemi.
L'espressione inglese è proverbiale: i fatti hanno la testa dura. Non puoi insomma convincerli, né trovare “una maggioranza” capace di farlo. Hanno una loro consistenza, loro leggi di funzionamento, che costringono a scartare le ipotesi sbagliate perché non tengono conto di queste leggi. Una casa mal costruita viene giù tanto più rapidamente quanti più errori sono stati commessi, anche se eravamo tutti d'accordo a costruirla così. Se un pezzo fondamentale dell'auto (chessò, la batteria o l'alternatore) è rotto, non si potranno adottare con successo tutte quelle opzioni che non ne prevedano la sostituzione con un equivalente sano. Nella lotta sindacale e politica bisognerà tener conto preciso dei “rapporti di forza” con gli avversari, sapere se sono pochi o tanti e sapere/intuire cosa sono disposti a fare (e con quali strumenti); e valutare correttamente lo stato delle nostre “forze”, la loro disponibilità a fare molto o poco per vincere, i punti deboli e quelli forti, ecc.
Il cretino, in casi come questi, tende ad opporre “la teoria” alla “concretezza”, con una strizzatina d'occhio al pubblico per chiamare l'applauso quando dice “concreto”. Mentre nei fatti, senza una teoria (per es. l'ingegneria edile, quella meccanica, ecc), non si riuscirà a risolvere concretamente il problema che si ha di fronte.
Cosa significa “senza una teoria”? Nulla di trascendentale: semplicemente, per risolvere qualsiasi problema concreto occorre una conoscenza sufficiente delle “leggi” che lo regolano. Quanto più il problema sarà complesso, o mai indagato in precedenza, tanta più conoscenza teorica e/o esperienza empirica saranno necessarie per risolverlo. Detto altrimenti: senza una competenza si dicono parole, non si risolvono problemi. Anche se la parola che usiamo di più sarà - ovviamente - “concreto”. A parlare siamo buoni tutti, a risolvere quel dato problema molti meno, forse nessuno. Cambiare le cose e passare una serata cazzeggiona implicano qualità davvero differenti; non è detto che uno capace di conquistare il pubblico di una stanza o un'assemblea sia anche in grado di guidare un aereo, anche se entrambe le cose richiedono una certa competenza. Ma mentre la prima può essere “connaturata” in un certo carattere, la seconda richiede addestramento, studio, stile di vita adeguato (non provate a pilotare in stato d'ebbrezza...). E fare la lotta sindacale o politica è attività decisamente più complessa del guidare un aereo. La competenza, anche qui, “si costruisce nel tempo”, attraverso prove ed errori (esperienza), e magari qualche studio nelle discipline più attinenti (economia, pensiero politico, filosofia, psicologia di massa, ecc).
Eppure, proprio in questo campo è stata massimamente devastata – anche per responsabilità specifiche dei “dirigenti della sinistra” degli ultimi venti anni, ma in generale di tutta la “classe politica” – la considerazione sociale della competenza. Una devastazione che si usa riassumere come “rifiuto della politica”, ma che contiene al suo interno il tumore velenoso dell'”ognuno dice la sua” come “nuovo modo di far politica”. Si può certamente ridere di quel parlamentare grillino, “fatto politicamente da sé” e scelto con “le primarie online” da altri come lui, che parla e scrive di un certo Pino Chet. Ma non si può evitare di guardare attraverso quale “cultura politica” sia potuto emergere, fino ad assumere ruoli “istituzionali” (i parlamentari sono nemmeno 1.000, ricordiamocelo), un personale che ignora fondamenti e coordinate della politica stessa. Totally incompetents, più che absolute beginners...
Cancellata la competenza, per forza di cose, la definizione della scelte collettive trapassa infatti dalla ricerca faticosa della “scelta giusta” - quella adeguata all'obiettivo che si vuol raggiungere – alla “scelta più popolare”, ovvero a qualsiasi opzione raggiunga la maggioranza. La mescolanza di opinioni qualsiasi, senza rispetto per la natura del problema da risolvere, si traduce in un affastellamento affannoso di pareri senza fondamento; in qualiasi percentuali si mescolino, non possono produrre nulla di serio. Non più di quanto un branco di religiosi bigotti possa risolvere una carestia con la preghiera...
Se non c'è più nessuna “autorevolezza” possibile (in virtù di conoscenza ed esperienza), il cretino può conquistare la prateria. E perdercisi, trascinando con sé chi gli dà incautamente retta.
E qui si smette di ridere. “Il cretino” - se si è abituato a non riconoscere più alcuna “superiorità” possibile nell'Altro - infatti non ha alcuna possibilità di essere convinto di trovarsi in errore. È come se il principio di egualianza venisse travasato dalle condizioni sociali (eguali diritti, redditi, possibilità di realizzazione, libertà personale, ecc) alle capacità individuali. Chi non ha mai sentito un tifoso in poltrona inveire contro un calciatore che sbaglia un gol facile al grido “cazzo, ma questo lo so fare anch'io!”? Chi non ha avuto l'occasione di vedere quella stessa persona, una volta “sollevatosi” dalla poltrona, inciampare nella propria ombra mentre prova a calciare un pallone vero o immaginario?
Dunning e Kruger, con le loro ricerche, hanno alla fine stabilito che questo modo di fare denota non tanto un “lieve difetto comportamentale”, ma di una incapacità patologica. Attenzione, però. Qui stiamo parlando di “incompetenza”, ovvero di pesanti carenze di informazione extragenetica, non certo di “stupidità congenita”. Insomma: parliamo di uno stato che può essere superato. Basta studiare, “darsi una misurata”, riconoscere che non si sa un tubo di una certa materia e quindi che – in mancanza di conoscenza – si può anche ascoltare e tacere. Magari persino fare domande...
In cosa consiste l'aspetto patologico dell'incompetente che vuol comunque “dire la sua”?
L'effetto Dunning–Kruger è una distorsione cognitiva a causa della quale individui inesperti tendono a sopravvalutarsi, giudicando a torto le proprie abilità come superiori alla media. Questa distorsione è attribuita alla incapacità metacognitiva da parte di chi non è esperto in una materia, di riconoscere i propri errori.[1]
Una reale competenza potrebbe al contrario indebolire la fiducia in sé stessi, poiché individui competenti sarebbero portati a vedere negli altri un grado di comprensione equivalente al proprio. David Dunning e Justin Kruger della Cornell University hanno tratto la conclusione che: "l'errore di valutazione dell'incompetente deriva da un giudizio errato sul proprio conto, mentre quello di chi è altamente competente deriva da un equivoco sul conto degli altri".[2]
Ora, provate voi a spiegare a un cretino che si sopravvaluta che sbaglia a sopravvalutarsi... Se poi vive immerso in un contesto informativo altamente frammentato e disorientante – Internet ha moltiplicato per miliardi di volte questa condizione – quella persona si sentirà assolutamente “nel giusto” quando rifiuta la critica da parte di qualcuno che – per lavoro, studio, esperienza – dimostra una maggiore competenza specifica. Tutti quelli con cui interloquisce quotidianamente, infatti, ragionano come lui. Si confortano a vicenda, si sostengono nel rifiutare “l'Altro”. Che non è una generica “persona diversa”, ma solamente quella che – purtroppo – ne sa più di loro. E lo dimostra.
La cosa più probabile che possa accadere è la “coalizione dei cretini” in nome della “libertà di pensiero e confronto”. A lungo andare, però, la catena di insuccessi garantita da un simile “metodo” di costruzione delle scelte produrrà il suo contrario. Un lungo periodo di “egualianza nell'ignoranza” non può che portare alla richiesta di una “guida sicura”. Scelta ovviamente in modo altrettanto ignorante e casuale, senza “procedure condivise”. Un dittatore, insomma. Che nemmeno garantisce l'efficacia delle scelte...
dal blog Tempo Reale
Oggi Massimo Zucchetti, grandissimo professore di "impianti nucleari" al Politecnico di Torino e compagno vero (presta la propria consulenza scientifica per decine di contro-inchieste, da quelle sull'uranio impoverito al Tav in Val Susa, al Muos di Niscemi), aggiorna scientificamente sul problema, informandoci dell'"effetto Dunning-Kruger".
Diciamo subito una cosa: non si tratta di una "curiosità", ma di una questione centrale per la costruzione di un movimento in grado di cambiare l'esistente.
Se ne può ovviamente parlare in modo divertente, e Massimo lo fa benissimo, perché "il cretino" è figura che si presta molto bene ad ogni bisogna. Ma in ogni caso il dato politico balza agli occhi.
Veniamo infatti da oltre un ventennio in cui il tormentone “ognuno dice la sua” ha infettato come un virus i cervelli “di sinistra”. Scene scabrose di professori universitari sbeffeggiati da non-studenti che ritengono di poter “dire una cosa diversa” proprio sull'argomento di competenza del professore (Marx, in primo luogo), di attivisti esperti messi (per esempio da Bertinotti) su un gradino più basso rispetto a un “new entry”senza alcuna esperienza particolare, ecc. Un “giovanilismo” modaiolo e irriflessivo peraltro sponsorizzato apertamente dai giornali mainstream, che hanno bombardato senza tregua per arrivare a un risultato cimiteriale: l'azzeramento della differenza di competenza sulle questioni più rilevanti sul piano politico, morale, storico.
C'è infatti da notare che sul terreno delle “scienze dure” (fisica, matematica, chimica, ecc), il cretino tende ancora – ma sempre meno – a tacere. Mentre su quello delle “scienze umane” sembra ormai scontato che ognuno possa “dire la sua”, come è solito fare qualsiasi tifoso da bar con la formazione ideale della propria squadra.
Il concetto è in fondo semplice: “ognuno dice la sua” appare a prima vista una formula assai democratica, quasi scontata, a-conflittuale. Ma è esattamente l'opposto. Se io “dico la mia” e pretendo che nessuno mi possa criticare nel merito delle mie asserzioni, ma che debba limitarsi semplicemente a “dire la sua” indipendentemente da me, in realtà sto dichiarando di non poter essere convinto dall'opinione altrui; o di non saper cambiare idea. Una formula che dunque si presenta come “facilitatrice del dialogo” è in realtà la negazione esplicita di ogni possibilità di dialogo. Certo, possiamo parlare e dire “ognuno la sua”; ma in realtà stiamo semplicemente salendo su un palcoscenico virtuale – un talk show perenne - dove recitiamo scene in successione. Non è prevista alcuna possibile “sintesi” che risolva le eventuali differenze, al massimo una votazione in cui emerge l'opinione “con più like”.
Messa così, si tratta di una questione impostata esclusivamente sul piano relazionale, interpersonale. Quella formula, insomma, è nata per risolvere e annullare le conflittualità verbali tra diversi soggetti. E adempie benissimo a questo scopo “pacificatore”, anti-conflittuale. Ma in questo modo scompare totalmente l'oggetto della discussione.
La domanda da porsi sempre è infatti: di cosa stiamo discutendo? Se si tratta di “preferenze” astratte (a me piace il rock, a te Chopin; io amo il basket, tu il golf, ecc) in effetti ognuno si può tranquillamente tenere la propria preferenza... Nessuno ne uscirà sminuito, a meno di non dover decidere in una condizione in cui una preferenza esclude l'altra (negli esempi: che musica facciamo suonare stasera? quale gioco organizzare per la comitiva? ecc).
Infatti, se dobbiamo decidere di un problema che ci riguarda entrambi, o tutti, sorge la necessità di scegliere un'ipotesi o l'altra. Peggio ancora se la scelta che dobbiamo fare non è semplicemente “ludica”, come negli esempi fatti, ma comporta la risoluzione di problemi oggettivi, che non ammettono qualsiasi soluzione, ma solo alcune; in accordo con la propria natura.
Gli esempi sono necessari, per chi non è abituato al pensiero astratto. Se dobbiamo decidere come costruire una casa o un palazzo, come aggiustare l'automobile rotta, come gestire una vertenza di lavoro, come scontrarci con il potere politico, ecc, il ventaglio delle opzioni possibili si restringe molto, indipendentemente da quante “opinioni” - praticamente infinite - si possano esprimere su ognuno di questi problemi.
L'espressione inglese è proverbiale: i fatti hanno la testa dura. Non puoi insomma convincerli, né trovare “una maggioranza” capace di farlo. Hanno una loro consistenza, loro leggi di funzionamento, che costringono a scartare le ipotesi sbagliate perché non tengono conto di queste leggi. Una casa mal costruita viene giù tanto più rapidamente quanti più errori sono stati commessi, anche se eravamo tutti d'accordo a costruirla così. Se un pezzo fondamentale dell'auto (chessò, la batteria o l'alternatore) è rotto, non si potranno adottare con successo tutte quelle opzioni che non ne prevedano la sostituzione con un equivalente sano. Nella lotta sindacale e politica bisognerà tener conto preciso dei “rapporti di forza” con gli avversari, sapere se sono pochi o tanti e sapere/intuire cosa sono disposti a fare (e con quali strumenti); e valutare correttamente lo stato delle nostre “forze”, la loro disponibilità a fare molto o poco per vincere, i punti deboli e quelli forti, ecc.
Il cretino, in casi come questi, tende ad opporre “la teoria” alla “concretezza”, con una strizzatina d'occhio al pubblico per chiamare l'applauso quando dice “concreto”. Mentre nei fatti, senza una teoria (per es. l'ingegneria edile, quella meccanica, ecc), non si riuscirà a risolvere concretamente il problema che si ha di fronte.
Cosa significa “senza una teoria”? Nulla di trascendentale: semplicemente, per risolvere qualsiasi problema concreto occorre una conoscenza sufficiente delle “leggi” che lo regolano. Quanto più il problema sarà complesso, o mai indagato in precedenza, tanta più conoscenza teorica e/o esperienza empirica saranno necessarie per risolverlo. Detto altrimenti: senza una competenza si dicono parole, non si risolvono problemi. Anche se la parola che usiamo di più sarà - ovviamente - “concreto”. A parlare siamo buoni tutti, a risolvere quel dato problema molti meno, forse nessuno. Cambiare le cose e passare una serata cazzeggiona implicano qualità davvero differenti; non è detto che uno capace di conquistare il pubblico di una stanza o un'assemblea sia anche in grado di guidare un aereo, anche se entrambe le cose richiedono una certa competenza. Ma mentre la prima può essere “connaturata” in un certo carattere, la seconda richiede addestramento, studio, stile di vita adeguato (non provate a pilotare in stato d'ebbrezza...). E fare la lotta sindacale o politica è attività decisamente più complessa del guidare un aereo. La competenza, anche qui, “si costruisce nel tempo”, attraverso prove ed errori (esperienza), e magari qualche studio nelle discipline più attinenti (economia, pensiero politico, filosofia, psicologia di massa, ecc).
Eppure, proprio in questo campo è stata massimamente devastata – anche per responsabilità specifiche dei “dirigenti della sinistra” degli ultimi venti anni, ma in generale di tutta la “classe politica” – la considerazione sociale della competenza. Una devastazione che si usa riassumere come “rifiuto della politica”, ma che contiene al suo interno il tumore velenoso dell'”ognuno dice la sua” come “nuovo modo di far politica”. Si può certamente ridere di quel parlamentare grillino, “fatto politicamente da sé” e scelto con “le primarie online” da altri come lui, che parla e scrive di un certo Pino Chet. Ma non si può evitare di guardare attraverso quale “cultura politica” sia potuto emergere, fino ad assumere ruoli “istituzionali” (i parlamentari sono nemmeno 1.000, ricordiamocelo), un personale che ignora fondamenti e coordinate della politica stessa. Totally incompetents, più che absolute beginners...
Cancellata la competenza, per forza di cose, la definizione della scelte collettive trapassa infatti dalla ricerca faticosa della “scelta giusta” - quella adeguata all'obiettivo che si vuol raggiungere – alla “scelta più popolare”, ovvero a qualsiasi opzione raggiunga la maggioranza. La mescolanza di opinioni qualsiasi, senza rispetto per la natura del problema da risolvere, si traduce in un affastellamento affannoso di pareri senza fondamento; in qualiasi percentuali si mescolino, non possono produrre nulla di serio. Non più di quanto un branco di religiosi bigotti possa risolvere una carestia con la preghiera...
Se non c'è più nessuna “autorevolezza” possibile (in virtù di conoscenza ed esperienza), il cretino può conquistare la prateria. E perdercisi, trascinando con sé chi gli dà incautamente retta.
E qui si smette di ridere. “Il cretino” - se si è abituato a non riconoscere più alcuna “superiorità” possibile nell'Altro - infatti non ha alcuna possibilità di essere convinto di trovarsi in errore. È come se il principio di egualianza venisse travasato dalle condizioni sociali (eguali diritti, redditi, possibilità di realizzazione, libertà personale, ecc) alle capacità individuali. Chi non ha mai sentito un tifoso in poltrona inveire contro un calciatore che sbaglia un gol facile al grido “cazzo, ma questo lo so fare anch'io!”? Chi non ha avuto l'occasione di vedere quella stessa persona, una volta “sollevatosi” dalla poltrona, inciampare nella propria ombra mentre prova a calciare un pallone vero o immaginario?
Dunning e Kruger, con le loro ricerche, hanno alla fine stabilito che questo modo di fare denota non tanto un “lieve difetto comportamentale”, ma di una incapacità patologica. Attenzione, però. Qui stiamo parlando di “incompetenza”, ovvero di pesanti carenze di informazione extragenetica, non certo di “stupidità congenita”. Insomma: parliamo di uno stato che può essere superato. Basta studiare, “darsi una misurata”, riconoscere che non si sa un tubo di una certa materia e quindi che – in mancanza di conoscenza – si può anche ascoltare e tacere. Magari persino fare domande...
In cosa consiste l'aspetto patologico dell'incompetente che vuol comunque “dire la sua”?
L'effetto Dunning–Kruger è una distorsione cognitiva a causa della quale individui inesperti tendono a sopravvalutarsi, giudicando a torto le proprie abilità come superiori alla media. Questa distorsione è attribuita alla incapacità metacognitiva da parte di chi non è esperto in una materia, di riconoscere i propri errori.[1]
Una reale competenza potrebbe al contrario indebolire la fiducia in sé stessi, poiché individui competenti sarebbero portati a vedere negli altri un grado di comprensione equivalente al proprio. David Dunning e Justin Kruger della Cornell University hanno tratto la conclusione che: "l'errore di valutazione dell'incompetente deriva da un giudizio errato sul proprio conto, mentre quello di chi è altamente competente deriva da un equivoco sul conto degli altri".[2]
Ora, provate voi a spiegare a un cretino che si sopravvaluta che sbaglia a sopravvalutarsi... Se poi vive immerso in un contesto informativo altamente frammentato e disorientante – Internet ha moltiplicato per miliardi di volte questa condizione – quella persona si sentirà assolutamente “nel giusto” quando rifiuta la critica da parte di qualcuno che – per lavoro, studio, esperienza – dimostra una maggiore competenza specifica. Tutti quelli con cui interloquisce quotidianamente, infatti, ragionano come lui. Si confortano a vicenda, si sostengono nel rifiutare “l'Altro”. Che non è una generica “persona diversa”, ma solamente quella che – purtroppo – ne sa più di loro. E lo dimostra.
La cosa più probabile che possa accadere è la “coalizione dei cretini” in nome della “libertà di pensiero e confronto”. A lungo andare, però, la catena di insuccessi garantita da un simile “metodo” di costruzione delle scelte produrrà il suo contrario. Un lungo periodo di “egualianza nell'ignoranza” non può che portare alla richiesta di una “guida sicura”. Scelta ovviamente in modo altrettanto ignorante e casuale, senza “procedure condivise”. Un dittatore, insomma. Che nemmeno garantisce l'efficacia delle scelte...
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