di Tiziana Drago*
Finalmente scopriamo perché la scuola italiana non è più competitiva. A illuminarci è Andrea Ichino sul Corriere del 21 ottobre (con strascichi di reazioni e controrepliche sino ai giorni scorsi). Una delle cause del declino è da addebitare niente meno che al liceo classico. Troppo impegno speso «a studiare latino, greco e materie umanistiche invece di dedicare più tempo ed energie a materie scientifiche». La prova sperimentale - gli ottimi risultati conseguiti nelle lauree scientifiche da tanti studenti e studentesse con formazione classica - non convince il nostro, sopraffatto dal dubbio che «se questi studenti avessero potuto modulare meglio il loro curriculum in preparazione di futuri studi scientifici il loro risultato sarebbe stato ancora migliore»; Ichino dunque persevera e lamenta l'epidemia umanista con affermazioni apodittiche: le ore di lezione sono purtroppo limitate, davvero vogliamo sprecarle con lo studio dell'aoristo passivo?
Occorre rileggere più volte l'intervento per convincersi che gli spazi su cui Ichino si avventa con l'ascia non sono quelli di cui godono le discipline classiche nella cultura e nella società italiane, bensì quelli attualmente concessi a queste materie nel piano di studi del percorso liceale classico, di una scuola cioè che ha nella propria ragion d'essere lo studio qualificante del latino, del greco e delle materie umanistiche. Vogliamo che il potere e l'ortodossia del pensiero unico sconfinino in modo così pervasivo e coartante nella libertà di scelta individuale? Vogliamo negare diritto di cittadinanza a chi persegue, nonostante tutto, la scelta scellerata di iscriversi a una scuola che per statuto si differenzia dal liceo scientifico o tecnologico?
Altro sarebbe stato segnalare il persistere di impermeabili ripartizioni disciplinari tra materie scientifiche e materie umanistiche, specchio di quella reciproca incomprensione tra le due culture che ha contribuito a confinare il nostro Paese ai margini del dibattito culturale internazionale. Per ovviare al problema occorrerebbe solo qualche agile correttivo didattico, peraltro già applicato con efficacia in tanti licei classici. E soprattutto, bisognerebbe avere almeno la percezione di quanto fondante sia la componente teorica (ed estetica) nella creazione scientifica che non si traduca in mera tecnica strumentale. Ma qui siamo decisamente oltre la portata dell'intervento di Ichino.
Tuttavia, il miglior servizio in difesa del liceo classico lo rende lo stesso Ichino quando affianca il tema del peso eccessivo delle discipline umanistiche nel curriculum classico alle altre due concause conclamate del decadimento italico. La prima è, manco a dirlo, quello che ancora resiste nel nostro sistema scolastico della scuola di Barbiana: l'argine alla minaccia dell'esclusione, la costruzione difficile di un significato contro le disuguaglianze diviene, nella retorica rancorosa di Ichino, il germe di «una scuola di pessima qualità per tutti». Il lascito più duraturo di quella esperienza viene manipolato furbescamente: «Una scuola di bassa qualità per tutti toglie ai poveri uno strumento per annullare il vantaggio dei ricchi. Quindi, dato che le risorse sono scarse, dobbiamo decidere quanto investire in scuole e università di qualità per quelli che davvero le meritano, poveri o ricchi che siano». La tesi è che per alimentare la competitività sia necessario puntare sul merito e sulle eccellenze (qualunque cosa questi termini significhino). Senza neppure il sospetto che scuole e università debbano essere il luogo di costruzione di un sapere diffuso e di una cittadinanza critica, non una palestra per eccellenti.
Che poi lo Stato debba abdicare al proprio compito costituzionale di istruzione e formazione è intollerabile, sebbene Ichino conceda che non sia necessario «abbattere la scuola pubblica (...). Basta accettare il principio che la scuola è pubblica anche quando chi la gestisce non è lo Stato in prima persona, ma chi localmente ha le informazioni migliori per farlo, sottostando alle regole e alla valutazione che la collettività ritiene necessarie». Il concetto è chiaro: la scuola la paga il pubblico, ma le sue modalità e finalità vengono decise da una gestione di «comitati di genitori e/o insegnanti, enti no profit e dirigenti scolastici» (così nel recente ebook Liberiamo la scuola di cui Ichino è autore insieme a Guido Tabellini). Una liberalizzazione selvaggia (anche nelle assunzioni e nel licenziamento degli insegnanti) per cui chi può avrebbe le scuole che gli competono e chi annaspa capirebbe da subito e senza equivoci che l'istruzione è roba da ricchi. Un'atomizzazione dei programmi e dei valori formativi, che lasci spazio alle tante specifiche identità (e diseguaglianze) territoriali, etniche, religiose e, inevitabilmente, di censo e di ceto: un sapere cattolico, uno imprenditoriale-aziendale, uno padano e così via. E nessuna possibilità di costruire un codice comune di civiltà che affianchi l'unico valore altrimenti ampiamente condiviso: la competizione mercantile e la cecità nei confronti del mondo.
Ma cosa c'entra il liceo classico con don Milani e l'istruzione come dovere primario dello Stato? La pertinenza evidentemente esiste e solo uno sguardo fazioso o una totale incomprensione potrebbero imputare al rigoroso tirocinio sui classici una postura intrinsecamente classista. All'impaziente liquidazione di Ichino va il merito di aver colto, più di tanti riformatori scolastici di sinistra, il nodo che lega una formazione scolastica pubblica e qualificata alla dimensione collettiva (e liberatoria) del sapere.
* Comitato promotore Assemblea Nazionale Università bene Comune
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