Che si siano messi in moto, in questo autunno, nuovi movimenti sociali è un fatto estremamente positivo. Questi movimenti sono stati capaci di saldarsi insieme nelle due giornate del 18 e 19 ottobre, passando attraverso uno sciopero generale del sindacalismo di base e conflittuale, una manifestazione importante per numeri e qualità di piattaforma; una serie di confronti tematici in piazza, cui è seguito un concerto e un'”acampada” che hanno stabilito un ponte con la manifestazione del giorno dopo, anch'essa sorprendente per dimensioni, organizzazione, determinazione e maturità politica.
“E' successo un fatto nuovo”, abbiamo scoperto in tanti, anche provenienti da formazioni e culture politiche diverse. Un abbozzo di “blocco sociale antagonista” cui stentano ancora a riconoscersi figure sociali centrali nella stratificazione delle classi di questo paese (disoccupati e precari, in primo luogo), ma che pone sul tavolo un'opzione conflittuale prima assente. La novità era nell'insieme sociale venuto allo scoperto in quelle due giornate, risultante di una serie di iniziative e mobilitazioni locali. Lavoratori contrattualizzati e non, migranti e italiani senza casa, movimenti di resistenza territoriali che sono diventati un simbolo attivo della Resistenza al dispotismo del capitale, dai No Tav ai No Muos, “oppositori politici” con partito o senza. Un inizio, certamente. Ma una novità vera, ricca, da far crescere e maturare.
La due giorni di assemblea alla Sapienza non sembra aver colto questa novità, che pure riguarda tutti i mille spezzoni di movimento.
Troppi interventi hanno semplicemente “dimenticato” lo sciopero generale, la giornata del 18 ottobre, l'accampamento di tende e il meeting a San Giovanni e tante altre cose. Si sono accontentati del 19 tanto quanto i media mainstream lo avevano preventivamente demonizzato. Come se davvero ci sarebbe potuto essere quel 19 senza tutto ciò che l'ha preceduto, preparato, sorretto, implementato.
Troppi interventi si son limitati a “parlare di sé”, della propria attività settoriale o locale. Come era avvenuto il 28 settembre, nell'assemblea di preparazione delle giornate di ottobre. Lì aveva un senso questo “presentarsi” al mondo del movimento come componente particolare, con una storia e un'esperienza da condividere. Ma dopo quelle giornate la ripetizione restituiva piuttosto la difficoltà di trarre un senso – necessariamente più alto – da quel successo.
Un'assemblea dunque con poca memoria dei fatti recenti, grandissimi vuoti tematici (il dominio della troika europea sulle scelte e i destini di molti, il lavoro, la disoccupazione, persino i migranti che pure sono una componente importante delle occupazioni abitative) e un documento finale che richiama ideologie attempate. Un passo indietro rispetto a quello che in piazza si era costruito tutti assieme. Due passi indietro rispetto alle possibilità che quelle giornate hanno costruito.
Parliamo di ideologie attempate perché le “parole chiave”, di quello che pretende d'essere una “sintesi” delle discussioni incorso, sono rimasticature fuori tempo, frammenti di un discorso che negli anni '70 aveva avuto un ruolo importante nella costruzione del “senso comune”, della “cultura diffusa” di altri movimenti, in altri contesti, con caratteristiche politiche quasi incomparabili con l'oggi.
“Riappropriazione”, per esempio, è un termine forte, che evoca determinazione estrema. Ma l'”oggetto” della riappropriazione non può essere qualsiasi cosa. Si può infatti appiccicare questa parola alle pratiche conflittuali di questi mesi, ovvero soprattutto alla casa. Il che è ovviamente giusto e sacrosanto, da moltiplicare per mille; anche per l'”effetto coesione” che scatenano tra i protagonisti diretti e altre mobilitazioni. Ma bisogna anche conoscere i limiti di questo genere di riappropriazione. Limiti sociali (il problema dell'abitare riguarda crica il 20% della popolazione nazionale, e in proporzioni molto più ampie la popolazione immigrata), limiti di consolidamento politico (oltre 45 anni di occupazioni ci hanno insegnato che, una volta “soddisfatto il bisogno”, le situazioni perdono più o meno rapidamente molto del loro “potenziale antagonista”), limiti nella gestione pratica del conflitto (e le voci di una “controffensiva poliziesca” contro le occupazioni dovrebbero chiarire almeno parte di questa complessità).
Limiti che dovrebbero interrogare politicamente i soggetti attivi, perché li mettono di fronte a un nemico dotato di strategia, tattica e strumenti adeguati; perché costringono a ragionare sui tempi medi, percorsi non lineari, diversificazione degli obiettivi, legami con altre figure e settori sociali.
E invece si parla di “costruire dentro pratiche di confronto e condivisione plurali ed orizzontali, senza parlamentini di movimento e burocratici comitati promotori, il rifiuto netto delle logiche della rappresentanza istituzionale e della delega nonché la fine della mediazione”. C’è una discussione vera e di merito che a questo punto è ancora tutta da fare e che l’assemblea di sabato e domenica ancora non è riuscita a fare. Il problema è che non c’è troppo tempo per prendere di petto i nodi decisivi che questa fase e questa soggettività del conflitto sociale ha davanti.
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